Lezione sull’autenticità dei Vangeli…

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La trascrizione che segue non è il testo della conferenza in video, ma utile per un ulteriore approfondimento, il testo è tratto da ppdumb

LA STORICITA’ DEI VANGELI di Marco   Fasol

Dalle fonti al Gesù storico

Il labirinto delle ricerche storiche

Conoscere il Gesù storico è il sogno di ogni appassionato ricercatore della verità, perché non si tratta di una ricerca accademica, che lascia il tempo che trova, ma di una ricerca che riguarda noi stessi, il significato, il senso della nostra vita. La nostra risposta personale sul Gesù storico definisce infatti l’identità della nostra persona, disegna il nostro volto spirituale, la nostra storia.

Il tema di questa sera è stato trattato ed approfondito lungo il corso dei secoli ed ha riempito intere biblioteche. Mentre nel periodo antico e medievale i testi canonici dei Vangeli venivano accettati senza riserve, è stato invece soprattutto a partire dall’Illuminismo che sono emerse le prime incertezze e analisi critiche. Se ci addentriamo nel labirinto della letteratura e dell’esegesi degli ultimi due secoli, non ne usciamo tanto facilmente.

Possiamo distinguere la old Quest, o prima fase di ricerca, che si protrae da Reimarus (1778) ad A. Schweitzer (1906), attraverso D. F. Strauss, E. Renan, A. Harnack. Questi storici avevano individuato nei vangeli un intento teologico e non semplicemente storico. Mentre Harnack, in continuità con la corrente della teologia liberale tedesca, presentava un Gesù in chiave etica, la cui essenza era da ricercarsi solamente nella storia terrena pre-pasquale, Schweitzer collocava Gesù nel contesto escatologico-apocalittico del giudaismo del tempo.

La no Quest successiva, in cui giganteggia Rudolph Bultmann, rinuncia alla ricerca storica sulla vita di Gesù, considerata impossibile. Si concentra esclusivamente sul Cristo della fede, sul kerygma primitivo, come irruzione nella storia di una rivelazione trascendente. Il dato storico, in questa prospettiva, non è la vita e risurrezione di Gesù, ma la fede pasquale dei primi discepoli. La premessa filosofica di questa fase è riconducibile alla teologia dialettica di Karl Barth che intendeva opporsi al tentativo razionalistico e storicistico della teologia liberale precedente. Per Barth la credibilità del kerygma è tutta concentrata nella sua radicale alterità rispetto alle aspettative umane. Il divino è “totalmente Altro” (ganz Anderes) rispetto all’umano.

La new Quest costituisce la reazione alla fase precedente ed ha i suoi principali esponenti in E. Käsemann ed E. Schillebeeckx, a partire dal 1953, anno in cuiKäsemann, discepolo di Bultmann, con una famosa conferenza, ritiene necessario un recupero della storicità di Gesù. Non è accettabile – dice lo studioso tedesco – l’aut-aut bultmanniano tra Gesù della fede e Gesù della storia, ma si deve piuttosto ritornare ad un et-et, ad una riconciliazione tra storia e fede, dal momento che la fede richiede proprio la storicità di quanto viene creduto, altrimenti non sarebbe più fede, ma illusione, mito, leggenda. Questa terza fase intende quindi recuperare alcuni elementi sostanziali del Gesù storico a partire dalla fede delle prime comunità. In questo contesto viene elaborata la Redaktiongeschichte o teoria della redazione che distingue, dopo i primi decenni di predicazione orale, una elaborazione scritta da parte delle prime comunità cristiane di origine giudeo-ellenistica.

Dall’inizio degli anni Ottanta è in atto soprattutto nell’ambito anglo-americano una reazione all’esegesi tedesca, finalizzata ad evidenziare la continuità tra Gesù e l’ambiente giudaico. Si tratta della Third Quest che tende a considerare Gesù in quanto ebreo della Galilea, comune e singolare al contempo, come spiega, ad esempio, J. P. Meier nella sua opera monumentale Un ebreo marginale. Un buon test di questa linea è la tendenza ad imputare ai romani tutta la responsabilità del processo e della condanna di Gesù. Il denominatore comune di tutti gli studiosi di questa terza fase è la contestualizzazione di Gesù nel giudaismo. Il Gesù storico è in continuità con il suo ambiente naturale, quello palestinese, in particolare galilaico.

Gli studi più recenti sono volti ad un recupero della storicità dei vangeli, grazie all’individuazione di alcuni criteri storici di discernimento che permettano di orientare il ricercatore nel labirinto delle fonti. Studiosi quali R. Latourelle, H. Kessler, G. O’ Collins, F. Lambiasi hanno approfondito i criteri di autenticità storica dei vangeli canonici. Alcuni degli studiosi sopra citati, in particolare O’ Collins ed H. Kessler si concentrano sul nucleo genetico della fede, il kerygma della morte e risurrezione di Gesù, elaborando anche un’innovativa teologia della risurrezione.

L’esposizione di questa sera sarà ovviamente sintetica e cercherà di concentrarsi sui criteri di discernimento delle fonti storiche. Si tratta di criteri “laici” in quanto non dipendenti da pregiudizi ideologici, cioè dalla fede, sia essa religiosa, agnostica o atea. Prenderemo in considerazione i criteri “scientifici”, condivisibili da qualsiasi ricercatore onesto. La definizione di questi criteri ci permetterà di discriminare le fonti storiche che verranno valorizzate nelle loro informazioni essenziali, alla ricerca del “nucleo genetico” della fede. Non ci addentreremo dunque nelle questioni filologiche sulla redazione originaria, sull’interdipendenza tra i sinottici, o sulla fantomatica fonte Q e così via. Lo storico si limita ad individuare i tratti essenziali; cerca di ricostruire la concatenazione degli eventi.

Nella prima parte dell’esposizione definirò i criteri di discernimento delle fonti storiche. Nella seconda parte concentrerò l’analisi storica sul nucleo genetico del Cristianesimo, sull’essenza del primo annuncio: la crocifissione e la risurrezione di Gesù il terzo giorno.

I criteri “laici” di discernimento delle fonti

Le fonti che ci parlano di Gesù di Nazareth sono numerose. Oltre ai testi canonici, possediamo varie decine di vangeli apocrifi, storie di apostoli apocrife, documenti dei primissimi padri della chiesa, scritti non cristiani, scritti di eretici e così via. Per orientarsi in questo mare di scritti, gli storici hanno elaborato alcuni criteri. Sarebbe un grave errore storico, purtroppo frequente tra gli incompetenti, attribuire lo stesso valore a fonti completamente eterogenee quanto a contesto filologico, culturale, storico, cronologico.

In questi ultimi anni si sono moltiplicati i testi critici distruttivi nei confronti delle basi storiche del cristianesimo. Basti pensare al celebre Codice da Vinci di Dan Brown, ai documentari trasmessi in tutto il mondo, in continuazione, da Sky sui vangeli apocrifi, sul cristianesimo delle origini, alla pubblicazione del Vangelo apocrifo di Giuda, al recente saggio di C. Augias e M. Pesce dal titolo Inchiesta su Gesù, in testa alle classifiche italiane nel settore della saggistica.

C’è un denominatore comune che associa tutti questi presuntuosi divulgatori: l’incapacità di discernere l’attendibilità delle fonti. C. Augias arriva addirittura a concludere il suo saggio scrivendo che ‘i testi sacri sono il risultato di numerosi rifacimenti e manipolazioni”. Ma è stato lui il vero manipolatore delle fonti, scelte in base a propri criteri inconfessati, riassumibili in un’unica ideologia: il laicismo. Augias, come del resto Dan Brown e la maggior parte dei divulgatori laicisti, pongono sullo stesso piano di attendibilità storica i vangeli canonici e quelli apocrifi, dimostrando chiaramente la loro incompetenza. E milioni di semplici cristiani, educati fin dall’infanzia nella fede cristiana bimillenaria, restano disorientati, non sanno controbattere, temono o sospettano di essere stati imbrogliati dalla Chiesa.

Diventa pertanto indispensabile una chiarificazione che dimostrerà come noi credenti non abbiamo niente da temere dalla storia, anzi, più approfondiremo e studieremo i testi antichi e più rafforzeremo le radici storiche e culturali del nostro patrimonio più prezioso. Ma questa chiarificazione è utile e indispensabile anche per i non credenti, o per le persone alla ricerca, perché sveglierà l’intelligenza dal torpore e dal pregiudizio, stimolerà il desiderio di ricerca e approfondimento e – questa è la mia speranza – scagionerà i credenti dall’accusa di fanatismo, superstizione, creduloneria ingenua.

Quali sono allora questi criteri laici di discernimento delle fonti? Si possono riassumere nei seguenti fattori:

a) l’antichità delle fonti. E’ chiaro che un testo antico è maggiormente attendibile, più difficilmente manipolabile dalle tradizioni o da interpolazioni;

b) la molteplicità delle fonti. E’ chiaro che molte fonti, possibilmente non dipendenti l’una dall’altra, sono più attendibili rispetto ad una sola;

c) l’uso del linguaggio dell’epoca. Il testo deve essere compatibile con il contesto linguistico dell’epoca, quanto a lessico e struttura sintattica;

d) la compatibilità culturale. La fonte deve essere contestualizzata, deve cioè inserirsi nel contesto culturale, politico, teologico dell’epoca;

e) la concatenazione esplicativa. La fonte deve fornire una spiegazione ragionevole degli eventi, in modo che il lettore possa individuare una concatenazione, una plausibilità esplicativa nel racconto.

PARTE PRIMA

A. L’antichità delle fonti

Tutti i testi dell’antichità ci sono pervenuti nella forma di manoscritti, su papiro o su pergamena. La loro datazione dipende da criteri filologici legati allo stile di scrittura che varia lungo i secoli e in base ai luoghi di copiatura. Possiamo affermare con certezza che i quattro vangeli canonici sono di gran lunga le fonti più documentate di tutto il mondo antico quanto ad antichità e numero dei manoscritti o codici. Ancora alla fine dell’Ottocento erano stati scoperti i codici maggiori risalenti al quarto secolo e comprendenti quasi tutto il Nuovo Testamento: Codice Vaticano, Alessandrino, Sinaitico, Cantabrigense, di Efrem siro… Ma le scoperte più sconvolgenti si sono verificate nel corso del Novecento, con il rinvenimento di frammenti papiracei molto più antichi, risalenti a pochi decenni dagli eventi. A Qumram è stato scoperto il frammento 7 Q 5 , la cui autenticità è tuttavia contestata, dal momento che consta di sole 18 lettere alfabetiche disposte su cinque righe. Si tratta di un frammento scritto in stile ornato erodiano, risalente al 50 – 60 dopo Cristo. Contiene alcuni versetti del Vangelo di Marco (6,52-53). La decifrazione, (ottenuta grazie a programmi di software che hanno analizzato tutta la letteratura greca individuando come unico passo compatibile quello sopra citato del vangelo di Marco), costringerebbe a retrodatare tutti i vangeli sinottici, cancellando intere biblioteche ottocentesche e del primo Novecento. In Egitto sono stati scoperti numerosi papiri antichissimi, quali il Papiro Rylands (P 52) scritto nel 120 – 125, trovato presso un soldato nel deserto, contenente pochi versetti del Vangelo di Giovanni; il Papiro Bodmer II (P 66) in 106 fogli, contenente quasi tutto il Vangelo di Giovanni, risalente al 150 circa; il Papiro Magdalen (P 64) comprendente alcuni versetti di Matteo, risalirebbe addirittura ai primi decenni del secondo secolo; il Papiro Chester Beatty II (P 46), in 86 fogli, risalente secondo i più recenti studi alla fine del primo secolo, contenente sette epistole di San Paolo. E molti altri ancora, per cui disponiamo di almeno 15 codici del III secolo, di 43 codici del IV e di altrettanti del V.

Il confronto con le fonti storiche classiche è impressionante. Si pensi che di autori celeberrimi come Virgilio, Cesare, Platone, abbiamo i manoscritti più antichi risalenti rispettivamente a 350, 900, 1300 anni! Il confronto con le fonti apocrife è pure molto significativo. I Vangeli apocrifi gnostici di Nag Hammadi risalgono al 350 d. C. Così il Vangelo apocrifo di Giuda, recentemente scoperto. I più antichi dei vangeli apocrifi risalgono alla seconda metà del secondo secolo, ma la maggior parte risale al terzo e quarto secolo.

Questo criterio discrimina nettamente le fonti. I quattro vangeli canonici di Matteo, Marco, Luca e Giovanni sono antichissimi, risalgono ai primi decenni dopo il 50 (i sinottici) o alla fine del primo secolo (Giovanni). Gli altri vangeli, apocrifi o nascosti, sono molto successivi. Alcuni risalgono al secondo secolo inoltrato, la maggior parte al terzo o quarto secolo.

B. La molteplicità delle fonti

Un secondo criterio storico riguarda la molteplice attestazione. I testi canonici soddisfano ampiamente questo criterio: sono ben ventisette scritti, composti secondo generi letterari diversi – racconti, inni, esortazioni morali, formule liturgiche … – da autori diversi. Queste fonti cristiane sono state trascritte in un numero sterminato di copie: più di 5.300 manoscritti. Per dare un’idea dell’immensa documentazione dei testi neotestamentari, basti fare un confronto con gli autori classici. Di Orazio abbiamo solo 250 codici, di Virgilio 110, di Euripide 350 circa, di Platone solo 11 codici, di Tacito solo due.

Il numero dei manoscritti del Nuovo Testamento viene ulteriormente ingigantito se si considerano anche le traduzioni, se consideriamo quelle latine si devono aggiungere almeno altri 8.000 manoscritti. Tutti questi testi ci permettono un controllo assolutamente impossibile per qualsiasi altro testo. Infatti possiamo confrontare tanti manoscritti che si trovano ad esempio a Roma (367 codici), Atene (419), Firenze (79), Parigi (373), Londra (271), Oxford (158), a San Pietroburgo (233)… controllando la fedeltà di trascrizione degli amanuensi ed individuando eventuali manipolazioni o interpolazioni da parte di qualche copista. Ora tutti gli specialisti rimangono ammirati di fronte alla rigorosa fedeltà di trascrizione dei manoscritti. Come ha scritto il card. C. M. Martini, scopriamo “un testo che nonostante il fluire dei secoli e le molteplici trascrizioni, si è conservato fedelmente, permettendo così agli studiosi ed ai traduttori, di farlo risuonare intatto nelle nostre comunità e per i singoli lettori, credenti o no”[1]. Pensate che, confrontando le sette edizioni degli ultimi cento anni (Tischendorf, Westcott-Hort, Soden, Vogels, Merk, Bover, Nestle) sui 7947 versetti del Nuovo Testamento, 5.000 sono perfettamente identici. E le varianti riscontrate negli altri versetti sono quelle tipiche dei manoscritti: errori di copisti, dimenticanze, varianti per parole simili … che in ogni caso non intaccano mai l’essenzialità del messaggio. Anche i massimi filologi riconoscono dunque che: “Il risultato è davvero sorprendente e ci rivela una così estesa concordanza, da riuscire inaspettata anche allo specialista” (ivi, p. 35). Non vedo proprio come C. Augias, a conclusione della sua Inchiesta su Gesù, possa parlare di “numerosi rifacimenti e manipolazioni” (p. 245, frase finale). Lo scrive “in buona fede” come ha detto all’inizio” ? o per grossolana ignoranza ?

E’ importante sottolineare anche la “cattolicità” o universalità delle fonti, perché questi codici antichi si trovano sparpagliati in tutto il mondo antico, da Gerusalemme ad Atene, all’Egitto, a Roma, a Corinto, ad Antiochia… questo significa che i vangeli canonici erano appunto universalmente utilizzati. I vangeli apocrifi invece hanno solo uno o due codici, talora incompleti. Evidentemente non hanno avuto un uso “cattolico” o universale, ma sono rimasti circoscritti a qualche comunità copta egizia. Si pensi che per i “vangeli” di Nag Hammadi, tanto esaltati da Dan Brown, abbiamo solo un codice, scoperto nel 1947 ! Si tratta di testi isolati. Inoltre questi testi hanno contenuti e forma linguistica estranea al contesto evangelico, come adesso vedremo.

C. Il linguaggio dell’epoca

Che lingua parlava Gesù? L’aramaico e l’ebraico, lingue molto simili, semitiche. L’aramaico era il dialetto parlato in Galilea dai ceti popolari, mentre l’ebraico era la lingua scritta, parlata dal ceto colto di Gerusalemme. I discepoli di Gesù erano di madre lingua aramaica e quando Gesù li ha inviati in tutto il mondo, essi hanno dovuto tradurre il messaggio in greco, la lingua più diffusa nel Mediterraneo. Ovviamente questa traduzione risentiva del sottofondo semitico, della lingua madre dei testimoni oculari. Ora, nei vangeli canonici riscontriamo evidentissimo questo sottofondo, sia nel lessico – J. Jeremias ha contato almeno 26 parole aramaiche nei vangeli – sia nella struttura sintattica e negli stili espressivi. Il testo dei vangeli è stato pensato in ebraico ed è stato tradotto in greco. Il corpo è greco, ma l’anima è ebraica. Alcuni studiosi, quali J. Carmignac, sono arrivati ad affermare che il testo originale di Marco e Matteo sia stato scritto in ebraico. Ma non abbiamo questo testo, per cui mi sembra più prudente e più onesto limitarsi ad un dato di fatto incontestabile: i quattro vangeli canonici, e solo quelli, hanno un evidente sottofondo semitico. Questo dimostra che sono stati scritti da testimoni oculari, che avevano vissuto per anni insieme al maestro. Alcune sue espressioni tipiche erano rimaste talmente impresse nelle loro anime da rimanere tali e quali. Ecco perché hanno lasciato nel testo greco alcune espressioni aramaiche: abbà, talita kumi, effathà, amèn amèn, eloì eloì lammà sabactani… preziosi indizi

Può anche darsi che – come sostiene la teoria della “redazione delle forme” – le comunità antiche abbiano rielaborato collettivamente la forma del testo, ma è inconfutabile l’apporto decisivo di un’originaria fonte di madre lingua aramaica, quindi derivante dal contatto diretto con il maestro.

Completamente diversi il lessico e la struttura linguistica delle altre fonti storiche. I vangeli apocrifi gnostici, ad esempio, hanno lessico e terminologia tipici della gnosi, della filosofia neoplatonica, della cosmologia politeista dell’Egitto del secondo e terzo secolo. Nulla a che vedere con la cultura e il lessico semitico. Parlano di emanazioni, pleroma divino, eoni, sizigie, divinità quali Barbelo, stelle divine, demoni malvagi creatori della materia… E’ proprio il lessico e la struttura linguistica che tradisce gli autori come falsari. Hanno voluto spacciare i loro scritti come vangeli di Tommaso, di Filippo, di Pietro, di Giacomo, di Giuda, per dare autorevolezza universale alle loro invenzioni. Ma la loro lingua li smaschera evidentemente come falsari che non avevano di certo l’intenzione di raccontare la storia di Gesù, ma usavano nomi prestigiosi per veicolare più facilmente il loro messaggio filosofico gnostico. La lingua ed i contenuti sono assolutamente incompatibili con la cultura ebraica, rigidamente monoteista. Nessun ebreo avrebbe osato parlare di stelle divine, che guidano la vita umana, né di Barbelo, divinità femminile della religione copta egizia, né di Saklas o di altri demoni con capacità creatrici!

Il criterio linguistico ci permette dunque di discernere come fonti attendibili i vangeli canonici, scritti e pensati da testimoni oculari degli eventi. Al contrario, i vangeli apocrifi risultano non attendibili, in quanto scritti da autori gnostici, di madre lingua copta, di cultura greca, spesso legata alla filosofia neoplatonica (parlano di un “corpo che riveste l’anima”, e di “stelle che guidano la vita umana”, entrambe teorie tipiche del pensiero platonico).

D. Il contesto culturale

Come ho anticipato nel paragrafo precedente, il criterio linguistico deve essere integrato ed associato con il criterio della compatibilità culturale. I quattro vangeli canonici rivelano ad ogni passo una chiara contestualizzazione semitica contemporanea a Gesù. E’ sufficiente leggere l’inizio del Vangelo di Luca: “Nell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo suo fratello tetrarca dell’Iturea e della Traconitide, e Lisania tetrarca dell’Abilene, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa… (Lc 3,1-2), per rendersi conto dell’intento storico e direi, con un termine moderno, “scientifico” dell’autore. Intendeva porsi al riparo da accuse infondate, per questo previene le critiche inquadrando storicamente gli eventi. In seguito i continui riferimenti alla Sacra Scrittura, il conflitto con i ceti dirigenti dell’epoca, differenziati con precisione in Farisei, Sadducei, dottori della Legge, rabbini, sommi sacerdoti… le controversie sull’osservanza del sabato e sui precetti della Legge … sono tutti elementi che inquadrano con sicurezza i testi nel loro contesto culturale. Anche il vangelo di Giovanni, scritto più tardivamente rispetto ai sinottici, dimostra tuttavia una conoscenza dettagliata e precisa del contesto. Si pensi che i termini Bethsaida, Bethfage, Golgotha, Gabbata sono tutti aramaici, denotano dimestichezza e conoscenza sicura di Gerusalemme e dintorni.

Alcuni storici hanno sintetizzato questo criterio affermando che le fonti storiche su Gesù devono avere elementi di continuità culturalecon il contesto dell’epoca, ed elementi di discontinuità culturale in quanto devono render conto del gravissimo conflitto con il ceto dirigente che ha portato addirittura alla condanna a morte per crocifissione. Sono proprio queste le caratteristiche dei vangeli canonici.

Viene talora aggiunto anche il cosiddetto criterio dell’imbarazzoper cui un ulteriore elemento di autenticità storica è garantito dal fatto che gli autori hanno raccontato anche informazioni imbarazzanti per la predicazione. Si pensi alla difficoltà o all’imbarazzo che poteva creare alla predicazione il discorso sul battesimo di Gesù, sulla sua agonia nell’orto del Getsemani, sul rinnegamento di Pietro, sulla verginità di Maria, sull’umiliazione della croce, sulla risurrezione al terzo giorno. Si tratta di eventi che sconvolgono le aspettative umane, eppure sono stati raccontati dagli evangelisti che hanno dimostrato in questo modo di sentirsi vincolati alla verità storica e non a criteri di verosimiglianza umani.

Il confronto con le fonti apocrife è sconcertante. In tutto il vangelo di Giuda non si trova nessun riferimento cronologico né tantomeno politico o geografico. Il discorso sul tempio è talmente generico che potrebbe adattarsi a qualsiasi tempio dell’antichità. Non viene citato nessun elemento concreto, né nome proprio che possa attestare una testimonianza diretta.

Anche questo criterio ci ha dunque permesso di discernere tra i quattro vangeli canonici e quelli apocrifi. I primi presentano un sicuro ed ampio inquadramento storico nel contesto giudaico-palestinese, gli altri hanno solo il titolo che li spaccia per “vangelo di ….” Ma il resto del discorso è decontestualizzato.

E. La plausibilità esplicativa

Questo criterio viene considerato addirittura come il più importante, ad esempio da R. Latourelle, che lo definisce criterio di “spiegazione necessaria”. Una fonte storica deve chiaramente fornire al lettore una spiegazione consequenziale degli eventi, secondo una coerenza di causa ed effetto che renda comprensibile il succedersi degli eventi. Ora, i vangeli canonici si caratterizzano proprio per questa plausibilità esplicativa degli eventi. Sono strutturati su alcuni pilastri che costituiscono gli assi portanti di tutta la narrazione. Questa è dunque una “concatenazione” ordinata di eventi in cui tutti gli anelli della catena si incastrano l’uno nell’altro. Possiamo individuare la sequenza di questi pilastri iniziando con la predicazione di Gesù, proseguendo con i racconti di miracoli e con la fede dei discepoli e delle folle. La novità della predicazione e delle opere suscita inevitabili conflitti con il ceto dirigente dell’epoca. Conflitti che porteranno al processo, alla condanna a morte e poi alla risurrezione. La concatenazione è molto serrata e non lascia spazio a divagazioni ed interpretazioni alternative. Se noi togliessimo anche uno solo di questi pilastri comprometteremmo l’intelligibilità non solo dei vangeli, ma anche degli eventi storici successivi. Proviamo a togliere la predicazione: non si comprende più il motivo di contrasto con i dirigenti e tutto quello che ne segue! Proviamo a togliere i miracoli: non si comprende più perché i discepoli e le folle credano in Gesù come figlio di Davide! Proviamo a togliere la risurrezione: non si capiscono più gli eventi successivi quali la fede in Gesù come il Signore e come il Figlio di Dio, la prodigiosa diffusione del messaggio in tutto il mondo, il martirio della maggior parte dei discepoli, che sono stati disposti a dare la vita per quanto avevano scritto e predicato. Insomma i quattro vangeli costituiscono un blocco narrativo coerente e coeso, in cui ogni componente svolge un ruolo esplicativo e indispensabile per la comprensione della sequenza degli eventi.

Nulla di questo riscontriamo invece nei vangeli apocrifi gnostici che non dovrebbero neppure chiamarsi “vangeli”, in quanto non appartengono a questo genere letterario. In realtà sono dei trattati filosofici in cui non si racconta niente della vita di Gesù, ma si rivelano piuttosto le sue lezioni iniziatiche sulla gnosi, con teorie sull’origine del mondo, sulla malvagità della materia, sulla scintilla divina che vive nelle anime degli eletti, sulla separazione tra uomini carnali, destinati alla dannazione, e uomini psichici e spirituali … insomma ci troviamo di fronte a contenuti totalmente estranei alla cultura ebraica e senza riferimento alle vicende terrene di Gesù. Nessuno studioso può considerare attendibili questi testi per conoscere il Gesù storico, piuttosto può considerarli interessanti per conoscere la gnosi del secondo e terzo secolo dopo Cristo.

PARTE SECONDA

Il nucleo genetico della fede

Una volta riconosciuti i quattro vangeli canonici come fonti attendibili in quanto rispondenti ai criteri di discernimento adottati dagli storici, dobbiamo chiederci quale sia l’evento centrale da cui scaturisce l’annuncio che ha cambiato il mondo. In altre parole il primo compito dello storico di Gesù di Nazareth consiste nella determinazione degli eventi essenziali della sua vita. Secoli di esegesi e di studi ci hanno chiarito che questo kerygmao nucleo genetico della fede è stato l’annuncio della morte e risurrezione di Gesù.

Quali sono le vie attraverso cui possiamo arrivare a documentare questo evento straordinario? A mio parere lo storico può percorrere almeno tre itinerari volti ad attestare l’attendibilità storica del kerygma originario.

Una prima via l’abbiamo già individuata nell’antichità e nel numero dei manoscritti evangelici. Abbiamo visto che nessun testo è così documentato come i quattro vangeli canonici. Questa documentazione risale ai primi decenni dopo gli eventi, risente di un sottofondo semitico tipico dei testimoni oculari, ha una consequenzialità esplicativa plausibile, è ampiamente confermata dalle conoscenze, che abbiamo per altra via, del contesto culturale dell’epoca. Insomma, contestare la storicità di testi così documentati sarebbe veramente una posizione antiscientifica o antistorica, nel senso che contraddirebbe tutti i criteri adottati dagli studiosi.

Una seconda via può essere costituita, a mio parere, dall’analisi filologica delle testimonianze più antiche, di origine aramaica o ebraica, rimaste incastonate nei testi neotestamentari come gemme preziose, risalenti a pochissimi anni dagli eventi. E’ noto infatti che il Nuovo Testamento ha avuto una formazione eterogenea e distanziata negli anni. I primi scritti non furono i quattro vangeli, ma alcune lettere di San Paolo, la cui composizione risale agli anni Cinquanta, quindi circa vent’anni dopo gli eventi. All’interno di queste lettere i filologi hanno individuato alcune “pericopi”, alcuni brani – quali inni, formule liturgiche, preghiere … – che sono prepaolini, di origine semitica e che sono stati inseriti da Paolo nelle sue lettere. Tra queste pericopi spicca per antichità ed importanza storica la prima documentazione scritta e completa della risurrezione, contenuta in 1 Cor 15,1-8. Si tratta di un testo composto nel 54 -56, quindi uno dei primi del Nuovo Testamento. Ma il contenuto è chiaramente prepaolino e ricalca uno schema espositivo ebraico o aramaico, come risulta dal lessico e dagli stilemi espressivi che ci fanno anticipare la data di composizione intorno al 40 d. C. quindi ad appena qualche anno dalla risurrezione. La struttura paratattica con quattro proposizioni coordinate consecutive (“che morì, … che fu sepolto… che è stato risuscitato… che apparve”), il parallelismo antitetico (due verbi di abbassamento e due di innalzamento), il passivo teologico (è stato risuscitato), il lessico semitizzante (nel giorno nel terzo,… secondo le Scritture, … per i nostri peccati), i nomi aramaici (Cefa, Giacomo) sono altrettanti segni di questa antichità di origine. E’ interessante riconoscere che alcune espressioni contenute in questo brano preziosissimo sono state riprese alla lettera nel Credo niceno-costantinopolitano, che il popolo cristiano recita ad ogni messa domenicale. Pertanto possiamo dire che il popolo cristiano pronuncia intatte – magari senza saperlo – proprio quelle prime parole dell’annuncio che furono coniate e cristallizzate ad appena un decennio dal miracolo dei miracoli. Vedete che la storia non lascia spazio per miti o leggende create lungo i secoli. Qui ci troviamo di fronte a documenti antichissimi, come a pietre preziose incastonate nei primi scritti del Nuovo Testamento.

Una terza via infine può essere costituita dalla plausibilità esplicativa degli eventi, in particolare nel passaggio straordinario dallo scoraggiamento del venerdì santo all’annuncio esaltante della risurrezione avvenuta al mattino di Pasqua. Qui lo storico si trova di fronte ad una svolta radicale che esige una spiegazione plausibile.

Tutti i testi sono concordi nel raccontare lo stato d’animo di smarrimento e naufragio al momento della crocifissione e morte del maestro. L’immagine del crocifisso, per noi familiare fin dall’infanzia, dopo una storia bimillenaria, non deve trarci in inganno. L’evento della crocifissione del maestro è stato veramente uno scandalo, una vergogna sconcertante che ha messo in crisi la fede dei discepoli. Molti sono scappati, Pietro ha rinnegato il maestro, tutti i discepoli si sono nascosti nel Cenacolo ed avevano paura di subire la stessa condanna. Nessuno si aspettava che il messia, il promesso figlio di Davide, colui che doveva restaurare il regno d’Israele, finisse umiliato e disprezzato su una croce. C’era addirittura un passo biblico che diceva: “maledetto da Dio è colui che pende dall’albero” (Dt 21,23). Se la vita di Gesù si fosse conclusa con la crocifissione del venerdì santo, tutto il suo messaggio sarebbe stato smentito pubblicamente e definitivamente. La morte in croce, se fosse stata definitiva, lo qualificava inequivocabilmente come un falso profeta.

Ma noi sappiamo bene che ben presto il quadro degli eventi storici subisce una svolta radicale ed inattesa. Nel giro di pochi giorni la comunità dei discepoli cambia totalmente prospettiva. Gli apostoli affermano la loro fede in Gesù come Signore, Figlio di Dio. E per loro che erano rigorosamente monoteisti questo annuncio esprimeva un cambiamento profondissimo. I discepoli vanno in tutto il mondo antico, ad annunciare il messaggio nuovo, e molti di loro moriranno martiri per testimoniare quanto avevano predicato. Tutte le profezie contenute nell’Antico Testamento, che prima costituivano un enigma oscuro, diventano ora chiare e comprensibili. Lo scoraggiamento ed il ripiegamento su se stessi si trasforma in una predicazione quotidiana al Tempio e nelle sinagoghe della Giudea e della Galilea e poi di tutto il mondo antico. Nell’arco di pochi decenni il cristianesimo si diffonde in tutto il mondo. A Roma Tacito parla di una ingens multitudo che viene uccisa perché cristiana. E nonostante il nome di “cristiano” divenisse ben presto una profezia di condanna a morte, tuttavia si moltiplicano le conversioni.

Allora lo storico deve spiegare in modo plausibile come sia stato possibile questo straordinario e radicale cambiamento che non coinvolge solo la ristretta comunità apostolica, ma si estende alla più vasta comunità dei discepoli, alle migliaia di convertiti in pochi giorni, al più importante cambiamento etico della storia.

Tutti i testi sono concordi nel riconoscere che lo spartiacque tra il prima e il dopo è segnato da alcuni eventi straordinari: le apparizioni del Risorto. Si tratta di testi decisivi, riportati da tutti e quattro gli evangelisti, ripresi negli Atti degli Apostoli e confermati ripetutamente in tutte le tredici lettere di San Paolo, nell’Apocalisse e nelle altre lettere apostoliche. Tutti i testi sono concordi nel descrivere le apparizioni come non autogene, cioè non generate dalla comunità, che era sconcertata e depressa. L’iniziativa è sempre e solo del Risorto che si manifesta gradualmente, spiega le Scritture e manda i suoi discepoli in tutto il mondo ad annunciare il suo messaggio.

Dobbiamo onestamente ammettere, se lasciamo parlare i testi per quello che dicono e non per quello che noi vogliamo che dicano,… dobbiamo onestamente ammettere che se si togliessero queste apparizioni del Risorto non si capirebbe niente della storia di duemila anni di cristianesimo. Non si capirebbe niente della storia di Gesù di Nazareth, dei suoi discepoli e di tutto il cristianesimo delle origini. Dobbiamo entrare nell’ordine di idee che dopo il venerdì santo, se non ci fosse stato nulla di nuovo, non c’era più spazio per una fede, per un annuncio di conversione. Pensate che per secoli i cristiani avevano vergogna di rappresentare il crocifisso, perché la croce era vista appunto come una maledizione divina. Solo a partire dal quarto secolo, con Costantino inizia la rappresentazione del segno della croce come segno di vittoria e di salvezza. E la prima icona cristiana della croce la troviamo a Roma, nel portale di Santa Sabina, nel quinto secolo. E’ un particolare che ci fa comprendere come i cristiani fossero rimasti sconcertati dalla morte in croce di Gesù. Solo un evento straordinario, la risurrezione appunto, poteva capovolgere la storia.

Negare questo evento significa andare contro tutti i documenti che ci sono pervenuti. E’ quanto di più antistorico si possa compiere. Ma negare questo evento significa anche rendere totalmente incomprensibile la svolta epocale che ne è seguita. E’ come voler togliere l’asse portante, il pilastro reggente di un edificio e pretendere che tutto l’edificio rimanga ancora in piedi. Diciamo che lo storico che osasse negare l’evento delle apparizioni del Risorto dovrebbe compiere un atto di fede ben più arduo e più difficile rispetto a quello del cristiano. Dovrebbe credere che la storia di milioni di persone è stata cambiata da un crocifisso, smentito pubblicamente davanti a tutta Gerusalemme, deposto per sempre in un sepolcro.

La fede e la storia

Giunti alla conclusione della nostra ricerca storica mi sembra opportuno proporre alcune conclusioni che ci aiutino a chiarire il significato del nostro lavoro. Abbiamo svolto un discorso storico, che non presume di entrare nelle scelte personali di fede, scelte sacre e non riducibili ad un ragionamento. L’opzione fondamentale che qualifica la nostra personalità coinvolge, infatti, non solo la ragione, ma anche i sentimenti e la coscienza etica di ciascuno. Come diceva H. U. Von Balthasar, noi riconosciamo il primato dell’amore, riconosciamo che solo l’amore è credibile [2], questo amore straordinario ed innovativo testimoniato da Cristo è il primo motivo di credibilità del cristianesimo. Tuttavia la nostra scelta di conferire all’amore del Risorto il primato nella nostra vita non è solo un atto di fede, una scelta del cuore, ma anche una scelta ragionevole. La nostra fede è la massima espressione della ragionevolezza. Come diceva il Concilio Vaticano I “recta ratio fidei fundamenta demonstrat”.

Non dobbiamo tuttavia sopravvalutare le conclusioni di questa ricerca. Cadremmo in un eccesso di razionalismo. Per quanto i documenti ci siano di conforto, tuttavia è giusto riconoscere che l’evento della risurrezione, il miracolo dei miracoli, è pur sempre affidato alla testimonianza libera della prima comunità cristiana. Non si tratta di una conseguenza necessaria e matematica di un ragionamento scientifico. Non abbiamo le prove di freddi strumenti scientifici, abbiamo piuttosto la rivelazione di persone libere che ci hanno testimoniato il loro incontro con il Vivente. L’annuncio viene dunque dalla libertà personale e la risposta è affidata alla nostra libertà personale.

Il pericolo opposto, che la nostra ricerca ci permette di evitare, è quello del fideismo, per cui la nostra fede sarebbe fondata solo sui buoni sentimenti, sul riconoscimento dei valori morali del cristianesimo, che è un messaggio di amore, di perdono, di misericordia, ed una speranza in una pienezza di vita ultraterrena. Se la nostra fede si riducesse ai buoni sentimenti morali, se il cristianesimo stesso si riducesse ad un’etica della perfezione morale, cadremmo appunto nel fideismo, in una fede senza ragione.

Il discorso di questa sera ci permette di superare entrambi questi scogli, grazie al riconoscimento di tutta una serie di argomentazioni ragionevoli con le quali possiamo rispondere alle accuse ed alle critiche dei razionalisti e dei laicisti. Possiamo ribattere tranquillamente a tutte queste accuse affermando che la storia è dalla nostra parte, che non abbiamo nulla da perdere dalle ricerche scientifiche, anzi, ben vengano! I veri oscurantisti sono proprio loro, i romanzieri alla Dan Brown o i giornalisti alla Corrado Augias, che oscurano la documentazione scientifica della storia per propinarci la loro deformazione ideologica riduzionista e pregiudizialmente immanentista. Equiparare come fonti storiche di uguale valore i vangeli canonici e quelli apocrifi, questo è oscurantismo! Questo significa oscurare i criteri delle scienze storiche. Parlare di “manipolazioni delle fonti antiche” come fa C. Augias, questo è oscurantismo! Questo è propinare all’uomo comune la falsificazione della storia come se fosse segno di emancipazione e di intellettualismo aggiornato.

Infine questa ricerca storica ci permette di evitare il pericolo di una fede fondamentalista, di tipo mitologico e magico. La conoscenza delle fonti evangeliche ci pone al riparo da deformazioni mitologiche che possono essere imposte alle persone ignoranti. Perché le fonti autentiche ci presentano un Gesù storico che si sottrae alle mistificazioni, ai fideismi magici, alla gnosi sempre risorgente. Ci presentano un Gesù vero uomo, uomo dei dolori che ben conosce il patire e il tradimento da parte dei suoi amici. Ma anche un Gesù che sa amare fino alla fine, sa compiere il miracolo più grande: convertire il cuore dell’uomo dalla schiavitù dell’odio e della violenza, alla signoria dell’amore e della compassione. E così ci restituiscono il vero volto di Dio e dell’uomo, in Gesù morto e risorto per amore.

NOTE IN MARGINE

Le fonti non cristiane

Per offrire all’ascoltatore una panoramica completa delle fonti storiche dobbiamo anche aggiungere alcune fonti non cristiane che, pur non soddisfando i criteri della testimonianza diretta, della contestualizzazione culturale e della concatenazione esplicativa, tuttavia costituiscono ugualmente un punto di riferimento. Infatti queste fonti attestano che anche autori dell’epoca, pur appartenendo ad un altro contesto culturale, conoscevano alcuni elementi importanti della figura di Gesù. Gli autori sono i seguenti storici.

Plinio il giovane(120 d.C. circa) attesta all’imperatore Traiano la diffusione del cristianesimo in Bitinia (regione dell’attuale Turchia) e conosce la periodicità delle assemblee rituali cristiane. (Epistola X, 96).

Tacito(117 circa) scrive: “l’autore di questo nome, Cristo, sotto l’imperatore Tiberio era stato condannato al supplizio dal procuratore Ponzio Pilato”. (Annali, XV, 44).

Svetonio(120 circa) parla dei cristiani come “superstizione nuova e malefica” (Nero, 16), costoro, per impulso di “Chresto” avrebbero organizzato tumulti in Roma. (Claudius, 25).

Particolarmente studiate sono poi alcune affermazioni di storici ebrei non cristiani. I loro scritti soddisfano il criterio del contesto culturale ebraico, ma non quelli della testimonianza oculare diretta e della concatenazione esplicativa. Comunque ci hanno lasciato una testimonianza interessante in quanto documenta, nel primo secolo, la storicità di Gesù anche tra ebrei non cristiani.

Mara Bar Serapione(70 d. C.) , in una lettera in siriaco, nomina con rispetto un “sapiente re dei Giudei”, messo a morte dalla propria nazione, la quale perciò sarebbe stata punita da Dio con la distruzione di Gerusalemme e con la diaspora del popolo.

Giuseppe Flavio, ebreo condotto schiavo in Roma dopo il 70, scrisse le Antichità giudaiche tra il 93 e il 94. Ci ha lasciato il celebre testimonium flavianum, che pur essendo contenuto in tutti i codici è stato messo in dubbio a partire dal XVI secolo. Secondo alcuni critici ci sarebbero interpolazioni cristiane (in grassetto nel testo seguente), ma un nucleo originario di Giuseppe Flavio è fuori discussione, in base a criteri filologici lessicali. Ecco il testo, certamente molto significativo: “In quel tempo apparve Gesù, un uomo saggio, se pure si può chiamarlo uomo. Infatti fu operatore di cose sorprendenti, un maestro di persone che accoglievano la verità con piacere. E si guadagnò un seguito tra molto giudei e molti di origine greca. Egli era il Messia. E quando Pilato, per un’accusa portata dai nostri capi, lo condannò alla croce, quelli che lo avevano amato precedentemente non smisero di farlo. Infatti apparve loro il terzo giorno nuovamente vivo, come i divini profeti avevano detto su di lui queste e innumerevoli altre cose prodigiose. E fino a oggi la tribù dei cristiani, che da lui prende il nome, non è scomparsa”. (citato in J. P. Meier, Un ebreo marginale, Brescia 2002,p. 66). In base a questo testo possiamo rispondere tranquillamente in modo affermativo alla domanda: “Ci sono nel primo secolo prove extrabibliche dell’esistenza storica di Gesù?” “Sì, senza dubbio, il testimonium flavianum è una prova eccellente.”

Le fonti cristiane extra-bibliche

Per avere una documentazione storica completa è indispensabile attingere anche all’immensa mole di scritti cristiani dei primissimi secoli. Ci troviamo di fronte a decine di autori credenti che hanno testimoniato l’attendibilità dell’evento cristiano. Le loro opere sono documenti di prim’ordine anche per le frequenti citazioni di passi neotestamentari, che risultano così confermati ulteriormente. Esaminiamo brevemente alcuni degli autori più importanti per la critica storica neotestamentaria.

Papia, vescovo di Gerapoli, discepolo diretto di Giovanni, scrive intorno al 120. Definisce l’evangelista Marco come “traduttore” di Pietro relativamente alle opere divine di Cristo. Afferma inoltre che Matteo raccolse “in lingua ebraica” i fatti su Cristo e li tradusse poi in lingua greca, come ne era capace.

Ireneo, vescovo di Lione, scrive nel 180 circa: “Matteo pubblicò presso gli ebrei, nella loro lingua, un testo del Vangelo, all’epoca in cui Pietro e Paolo evangelizzavano Roma e vi fondavano la Chiesa”. Conferma che Marco era discepolo e traduttore di Pietro.

Panteno, contemporaneo di Ireneo, dice di avere trovato in India il vangelo in ebraico (Eusebio di Cesarea, in Storie ecclesiastiche, V,9).

Clemente alessandrino, (150-215) afferma che Marco, durante la predicazione di Pietro a Roma, ha scritto gli “Atti del Signore”.

Origene, (185-253), ha redatto la prima edizione critica del Nuovo Testamento. Secondo lui, Matteo è il primo evangelista ed ha scritto in ebraico. Il secondo vangelo è quello di Marco, redatto su indicazioni di Pietro.

Eusebio di Cesarea, autore della prima storia della Chiesa, composta tra il 315 e il 320, afferma che Matteo scrisse il Vangelo nella lingua materna.

S. Epifanio e S. Girolamo, conoscitori dell’ebraico, attribuiscono a Matteo la redazione del Vangelo in ebraico.

Riassumiamo le citazioni esplicite dei Vangeli negli autori dei primi secoli.

AUTORE

PALEOCRISTIANO

Numero delle citazioni

dai Vangeli

Giustino di Sichem (150-170) 268

S. Ireneo (180) 1.038

Clemente alessandrino (200) 1.017

Origene (230-250) 9.231

Tertulliano (200) 3.822

Ippolito (200) 754

Eusebio di Cesarea (310-330) 3.258

Dunque quasi ventimila citazioni, delle quali circa settemila nei primi 190 anni dopo la resurrezione di Cristo. La loro concordanza costituisce un altro strumento di controllo della fedeltà dell’originale dei testi che possediamo.

Si noti che nell’elenco mancano opere di autori anche importanti dei primi secoli (Didachè, S. Cipriano, S. Ignazio antiocheno…). I codici che tali autori utilizzarono pervennero a loro attraverso le vie più disparate: dalla Siria, alla Gallia, Egitto, Palestina, Roma… Una concordanza impressionante!

Le ipotesi alternative alla storicità

E’ interessante, per essere completi, che l’ascoltatore possa valutare le ipotesi alternative rispetto all’autenticità storica. Se i vangeli non fossero autentici, che ipotesi dovremmo accettare? Non rimarrebbero che due ipotesi alternative: quella critica e quella mitica. Vediamo di valutarle.

L’ipotesi critica manipola le fonti storiche affermando che Cristo era semplicemente un uomo. In seguito, nel corso delle generazioni sarebbe stato trasformato in un Dio. E’ la soluzione proposta da tanti studiosi (Reimarus, Harnack, Paulus, Renan…) che spiegano tutti i fatti miracolosi o soprannaturali come fatti naturali, ingigantiti o deformati dalla fede. Gli esempi sono molto diversificati: si va dall’interpretazione puramente simbolica dei miracoli (ad esempio la guarigione del cieco nato sarebbe un simbolo della liberazione dalle tenebre dell’errore) ad interpretazioni paradossali e magiche che spesso cadono nel ridicolo (es. guarigioni dovute a polveri speciali e miracolose, risurrezioni come risvegli o allucinazioni collettive ecc.)

Questi autori che esaminano il Nuovo Testamento al vaglio della critica “scientifica” – come dicono loro – non negano l’esistenza storica del Cristo, ma ammettono piuttosto che all’origine della fede cristiana vi sia un uomo, Gesù, magari eccezionale, ma senza alcun riferimento ad eventi soprannaturali nella sua vita. Questo oscuro Gesù, dopo la sua morte, sarebbe stato divinizzato dai discepoli, che gli avrebbero attribuito i miracoli e la risurrezione. Il Cristo della fede sarebbe dunque diverso dal Cristo della storia. Sarebbe stato divinizzato progressivamente dalla fede mistificante dei discepoli.

E’ evidente che le recenti scoperte – sopra riferite – di codici antichissimi e così numerosi hanno inferto un grave colpo a questa ipotesi, sostenuta nel clima illuministico e positivistico dell’Ottocento e della prima metà del Novecento.

Come abbiamo visto, questa ipotesi critica ha stimolato gli studiosi ad un’analisi più attenta ed approfondita della coerenza interna dei racconti evangelici, permettendo la definizione del criterio di plausibilità esplicativa che abbiamo sopra esaminato. Proprio questo criterio spiega che se vengono sistematicamente negati tutti i fatti straordinari, dai miracoli alla risurrezione, risulta incomprensibile tutto il resto del Vangelo, che costituisce un blocco narrativo coeso e coerente in cui è impossibile togliere i brani “soprannaturali” senza far crollare tutto l’insieme. L’ipotesi critica è dunque un’evidente manipolazione dei testi sulla base di pregiudizi ideologici mistificanti.

L’ipotesi mitica o mitologica sostituisce alla storicità di Gesù, accettata dai critici, l’ipotesi del “mito” Gesù. All’origine del cristianesimo non vi sarebbero eventi reali, neppure un uomo; ci sarebbe invece un mito. Il mito antichissimo e preesistente al cristianesimo di un Dio che si incarna, soffre, muore e risorge per la salvezza degli uomini. Strauss, Loisy, Troeltsch, Dibelius, per certi aspetti Bultmann… hanno sostenuto questa tesi, che tuttavia con le recenti scoperte sull’antica composizione del Vangelo è stata decisamente superata. Un mito infatti non si può improvvisare. Tutte queste teorie risalgono all’Ottocento, prima delle scoperte dei manoscritti papiracei. Smentendo le illusioni spacciate per verità da storici ottocenteschi, oggi è possibile invece affermare con sicurezza che nessun testo ellenistico, fino al IV secolo d. C., attribuisce a un Dio o una morte redentrice o una resurrezione così come la intendono i Vangeli.

Inoltre gli studi di K. Schubert[3] e J. Jeremias[4] agli inizi degli anni Settanta e poi numerosi altri studi successivi hanno appurato che nel giudaismo all’epoca di Cristo non esisteva alcun mito di una risurrezione come fatto nella storia e come fatto individuale. Gli ebrei credevano sì in una risurrezione dei corpi, ma questa era concepita come un fatto universale ed escatologico (cioè alla fine del mondo e riguardante tutti i popoli). Insomma non esisteva alcun mito, né nella letteratura giudaica intertestamentaria, né nella letteratura ellenistica, di un Messia che sarebbe dovuto morire crocefisso per poi risorgere glorioso. Scrive Karl Schubert:“L’ultima cosa che un ebreo si attendeva dal messia era che dovesse patire, morire e poi resuscitare. L’ultima cosa che ci si aspettava per i tempi messianici, erano una croce e un sepolcro vuoto in mezzo alla storia”[5]. Schubert sostiene che anche la profezia del cap. 53 di Isaia, sul Servo sofferente non ebbe nessuna interpretazione messianica o cristologica nel giudaismo precedente la passione di Gesù. “Da una parte la resurrezione era considerata nell’ebraismo dei tempi di Gesù come un evento generale ed escatologico. Dall’altra parte l’interpretazione messianica del Servo di Yavhè sofferente era estranea allo stesso ebraismo: niente morte per il Messia e quindi niente necessità di un ritorno alla vita. E allora? Allora si deve concludere che i testimoni della Pasqua hanno constatato ‘qualcosa’ che si sono fermamente convinti di aver incontrato: realmente Gesù in persona dopo la sua morte e sepoltura. Altrimenti mai avrebbero pensato di parlare di una risurrezione”.[6]Joachim Jeremias, altrettanto celebre esegeta, scrive: “Il primitivo annuncio cristiano sulla risurrezione di Gesù, con un intervallo di tempo che lo separa dalla risurrezione universale di tutti i morti, rappresenta una novità assoluta per il giudaismo. Anzi, non solo per questo, ma per tutta intera la storia della religioni”.[7] Altri celebri esegeti, quali R. Schnackenburg, A. T. Robinson, K. Lehmanns si pronunciano all’unanimità in questo senso. David Flusser, ebreo, il maggiore esperto israeliano dei tempi del secondo Tempio, quelli dell’origine del cristianesimo, ha scritto: “Non c’è nulla nell’intero giudaismo dei tempi di Gesù , nulla in nessuna corrente a noi conosciuta, che sappia qualcosa di un ‘Figlio dell’uomo’ che dovesse morire e risorgere”.[8]

Nel corso stesso del Vangelo i discepoli avevano manifestato la loro ignoranza circa il significato di una “resurrezione dai morti” : “Essi tennero per sé la cosa (l’episodio della trasfigurazione) domandandosi che significato avesse l’espressione ‘resurrezione dai morti’” (Mc 9,10).

In conclusione, le testimonianze degli esegeti più autorevoli riconoscono l’irruzione nella storia di un evento che la ragione umana e la tradizione veterotestamentaria non avevano mai non solo atteso, ma neppure immaginato.

[1] K. Aland e B. Aland, Il testo del Nuovo Testamento, Marietti ed. Genova, 1987. Pag. XII.

[2] Mi riferisco ad un prezioso gioiello del grande pensatore svizzero, il breve testo Solo l’amore è credibile (tr. it. Borla, Torino 1965).

[3] Kurt Schubert, ‘Auferstehung Jesu’ im Lichte der Religionsgeschichte des Judentums, in Resurrexit, Actes du symposium international sur la résurrection de Jésus, Roma 1970. Libreria Editrice Vaticana, Roma 1974. P. 207-223.

[4] Joachim Jeremias, Die älteste Schicht der Osterüberlieferungen, in Resurrexit, op. cit. p. 185-206

[5] Op. cit. p. 208. Tr it. Vittorio Messori, in Dicono che è risorto, SEI Torino 2000..

[6] Ibidem.

[7] Op. cit. p. 194. Tr. it. Vittorio Messori.

[8] Citato in Vittorio Messori, Dicono che è risorto, Sei, Torino 2000, p. 63

Patrizio Ricci
Patrizio Riccihttps://www.vietatoparlare.it
Con esperienza in testate come il Sussidiario, Cultura Cattolica, la Croce, LPLNews e con un passato da militare di carriera, mi dedico alla politica internazionale, concentrandomi sui conflitti globali. Ho contribuito significativamente all'associazione di blogger cristiani Samizdatonline e sono socio fondatore del "Coordinamento per la pace in Siria", un'entità che promuove la pace nella regione attraverso azioni di sensibilizzazione e giudizio ed anche iniziative politiche e aiuti diretti.

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