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Attentati di Parigi e ritorno

by Redazione online
17 Novembre 2015
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DI JEAN CLAUDE PAYE

voltairenet.org

Non sappiamo più se ridere o piangere: dopo l ’11 Settembre 2001, non non c’è più stato nemmeno  un attacco terroristico senza che i colpevoli – che di solito dovrebbero nascondersi – non si facciano riconoscere perché hanno lasciato in giro un documento. Per il sociologo Jean-Claude Paye, l’ apparente e ripetuta stupidità dei terroristi  deve essere interpretata come un artificio retorico del potere per confondere la gente. Questo perché diventa assurdo contestare tutta la commedia ufficiale, non si può e non si deve.

Nell’ambito delle indagini sui massacri di Parigi, è stato trovato un passaporto siriano vicino al uno dei kamikaze, morto allo Stade de France, dopo che il Presidente Hollande aveva già detto che la responsabilità degli attentati era da attribuire allo “Stato islamico”. In questo modo si è trovata la giustificazione per la sua dichiarazione.

Per l’esecutivo francese – che ha dichiarato di voler intervenire in Siria contro il EIS, in pratica contro la Repubblica Araba Siriana e contro il suo Presidente Bashar Assad, costituzionalmente eletto ma che “deve andarsene” – si è trattato di un elemento importante  per motivare la sua operazione militare. Sembra prerogativa del governo francese usare un linguaggio ambiguo, da una parte appoggiare una organizzazione definita nemica e dall’altra chiamare terroristi quelli che prima aveva chiamato “combattenti per la libertà”. Crearsi un nemico è diventato un asse della strategia occidentale, come ci conferma il fatto che nella struttura imperialista, non c’è una separazione tra minaccia dall’interno e minaccia dall’esterno, tra diritto e violenza pura, tra cittadino e nemico.

In Belgio, il predicatore musulmano Jean-Louis Denis è inquisito “per incitamento dei giovani alla jihad armata in Siria,” perché si crede che abbia avuto contatti con Sharia4Belgium, un gruppo definito “terrorista”, cosa che l’imputato nega. Il suo avvocato ha messo in evidenza quanto sia confuso il pensiero della procura su questo caso, dichiarando alla Corte Penale di Bruxelles: “Abbiamo mandato dei  bambini tra le braccia dello stato islamico in Siria e sono i vostri servizi che lo hanno fatto “[1] ed ha sostenuto le sue accuse sottolineando il ruolo svolto in questo affare da un agente infiltrato dalla polizia federale.

Il ritorno dei significati

Per quanto riguarda i massacri di Parigi, sembrerebbe che la principala preoccupazione dei terroristi fosse  farsi riconoscere appena possibile e, purtroppo, questo paradosso nemmeno ci sorprende. Il fatto di trovare un  documento di identità, miracolosamente recuperato, con scritto sopra il nome di chi ha appena fatto un attentato, è diventato un classico.

Si tratta di un evento convulsivo che ripete ogni volta che il colpevole è uno del “movimento jihadista”.

Nella versione ufficiale dell’11 settembre, l’FBI disse di aver trovato il passaporto intatto di uno dei kamikaze vicino a una delle due torri completamente polverizzate dalle esplosioni avvenute ad una temperatura capace fondere le strutture di acciaio di un grattacielo, ma che lasciarono “miracolosamente” integro un pezzo di carta. Nemmeno lo schianto del quarto aereo su un campo di Shanksville, ha impedito alla polizia federale di ritrovare il passaporto di uno dei sospetti terroristi. Questo documento appena bruciato da una parte ha permesso comunque di identificare l’attentatore dal nome e dalla foto. Circostanza questa ancora più inquietante dello schianto dell’aereo che nell’impatto ha aperto un cratere riducendo a pezzettini fusoliera e motore: si è trovato solo –  ma bruciacchiato – il passaporto.

L’incredibile misura della verità

Nel caso di Charlie Hebdo, gli investigatori hanno trovato la carta d’identità dei fratelli Kouachi in una macchina abbandonata a nord-est di Parigi. Da questo documento, la polizia si rese conto che si trattava di individui già conosciuti dai servizi antiterrorismo per essere “pionieri del jihadismo francese”. Solo dopo aver visto i documenti è cominciato  il “pedinamento”. Come è possibile che degli assassini, che hanno compiuto un attentato a sangue freddo che dimostra un elevato livello professionale, possano aver commesso un errore di questo genere?  Disfarsi dei documenti è l’ ABC di qualsiasi rubagalline!

Dopo l’11 settembre, l’incredibile è diventato parte della nostra vita quotidiana. E’ diventato la base della verità. La ragione è negata-vietata. Non si tratta di credere a quanto viene detto, ma di dare la propria adesione a ciò che dice la voce che parla, non importa quale sia il senso di ciò che sta dicendo. Più questo fatto diventa evidente, più la fede in quanto viene affermato deve diventare incrollabile. L’incredibile è diventato la misura e la garanzia della verità.

Come è stato gestito l’affaire di  Merah o  quello di Nemouche lo dimostra bene. Merah, circondato da decine di poliziotti, sarebbe uscito, svincolando alla sorveglianza delle forze speciali, a uscire da casa sua e poi rientrarvi per essere ucciso da un “cecchino” che gli avrebbe sparato per “legittima-difesa” con delle “armi non letali”. Sarebbe uscito di casa per raggiungere una cabina telefonica pubblica, in modo da  “dissimulare la sua identità”, per fare la sua dichiarazione di colpevolezza al telefono, parlando con un giornalista di France 24 [2].

Per quanto riguarda Nemmouche, l’autore della strage al Jewish Museum di Bruxelles, è stato riferito che non si sarebbe sbarazzato delle armi, perché aveva pensato di rivenderle. E proprio per vendere queste armi avrebbe scelto di viaggiare con i mezzi di trasporto internazionale più controllati: un autobus che collega Amsterdam, Bruxelles e Marsiglia.

Un “controllo doganale inaspettato” avrebbe permesso di fermarlo ed arrestarlo.

L’ improbabilità e l’ “unità nazionale”

Comunque sia, quello che ci fanno vedere ha un grado di irrealizzabilità che ci lascia in uno stato di incredulità. Ci pietrifica come lo sguardo di una Gorgone, ci fa sentire che c’è qualcosa non va nel discorso. Ci fa vedere che c’è un errore anche se noi non dobbiamo tenerne conto, non perché ci stiamo sbagliando ma perché vediamo le cose solo “a pezzetti”.

Alla fine, di tutto quello che succede realmente intorno agli attentati, lo spettatore vede solo quello che viene presentato sul palcoscenico. C’è qualcosa che sfugge in tutta questa rappresentazione ed ha un effetto che ci lascia sbalorditi, ma questo non è dovuto alla natura drammatica dei fatti ma alla nostra impossibilità di decifrarli, di decifrare qual è la realtà.

Quindi lo spettatore non può far altro che ricercare una verosimile unità nella storia cercando di dar credito a quello che gli viene raccontato.

Avviene una fusione tra lo spettatore e chi racconta le cose. Conviene rinunciare a mettere distanza tra se stessi e quello che viene  detto e mostrato, conviene evitare di fare troppe domande o cercare di ristabilire il giusto significato di una parola. L’unità nazionale, la fusione tra chi sorveglia e chi viene sorvegliato, può relizzarsi solo in questo modo.

Mettere in piazza tutti i difetti, tutti gli errori che troviamo nel discorso del potere su questi attentati ha come effetto la creazione di una psicosi e la soppressione di qualsiasi meccanismo di difesa non solo verso certi comportamenti specifici, ma verso “qualsiasi azione o dichiarazione del potere” per esempio, verso certe leggi come quelle sull’informazione che dichiarano la vita privata fuori dalle libertà fondamentali.

Un atto di guerra contro la popolazione

Approvata nel giugno 2015, la legge sull’informazione, un progetto pronto da più di un anno, ci è stata presentata come risposta all’attentato di Charlie Hebdo. La legge autorizza particolarmente l’installazione di “scatole nere” presso i fornitori di servizi Internet per catturare i metadati degli utenti in tempo reale e permette anche l’installazione di microfoni, luci di localizzazione, telecamere e spyware. Sono soggetti a queste particolari tecniche di ricerca – non gli agenti di una potenza straniera – ma la popolazione francese.

Quest’ultima  quindi è trattata come un “nemico” dal potere esecutivo, quello stesso Potere che decide e “controlla” quei dispositivi segreti. Con il pretesto della lotta contro il terrorismo, questa legge legalizza misure già in atto, mettendo a disposizione dell’Esecutivo un dispositivo permanente, e praticamente illimitato, di sorveglianza clandestina sui cittadini.

L’assenza di qualsiasi risultato nella prevenzione degli attentati  dimostra che il vero motivo di quella legge era dare un colpetto di riaggiustamento all’ Hexagon (alla Francia) e non terroristi. Deviando la natura dei servizi di informazione, del controspionaggio e trasformandoli in strumenti di “sorveglianza sui cittadini”, questa legge è un atto di guerra ideale contro la cittadinanza.

I massacri  appena avvenuti a Parigi, invece, sono la realtà.

 

Jean-Claude Paye

Fonte: http://www.voltairenet.org/
Link: http://www.voltairenet.org/article189291.html
15.11.2015

 fonte comedonchisciotte.org  – autore della traduzione Bosque Primario.

Note

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 [1] Julien Balboni, « Procès de Jean-Louis Denis : ’’Le parquet fédéral a envoyé des jeunes en Syrie” » , DH.be, le 12/11/2015.

[2] Leggere : Jean-claude Paye et Tülay Umay, « L’affaire Merah (4/4) : Le changement en se taisant : la parole confisquée », Réseau Voltaire, 30/10/2012.

Tags: attentatiparigi
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