Economia – L’Italia locomotiva d’Europa, lo dimostrano gli indicatori, ma in mezzo ad una Europa morente…

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Un articolo di The Gateway Pundit  enfatizza come l’Italia, sotto la guida di Giorgia Meloni, si sia distinta come l’economia in più rapida crescita in Europa, superando la Germania: “L’Italia del premier conservatore Giorgia Meloni è l’economia europea che cresce più velocemente, staccando la Germania liberale“. di Paul Serran, The Gateway Pundit – 4th April 2024 https://www.thegatewaypundit.com/2024/04/conservative-pm-giorgia-melonis-italy-is-fastest-growing/

The Gateway Pundit sottolinea che il forte miglioramento è avvenuto soprattutto in un periodo di stagnazione economica generale. Tuttavia, evidenzia il ruolo significativo dell’Italia, spesso considerata una delle economie più deboli del continente, che ora emerge come leader grazie a una serie di dati economici positivi.

Ma è veramente così? La percezione quotidiana , se consideriamo la Sanità, la fatica delle famiglie italiane, cose ‘spicciole’ ma visibili come la manutenzione delle strade, la sicurezza ed una serie di fattori ‘sensibili’ ci indurrebbe a vedere il contrario.

Ecco allora un’analisi approfondita che va oltre le dichiarazioni pubbliche, incrociando una varietà di indicatori economici per discernere una narrazione precisa dell’economia italiana attuale:

Cosa dicono effettivamente i numeri?

Secondo gli ultimi dati statistici rilasciati, l’Italia ha registrato una crescita dello 0,5 percento nell’ultimo trimestre del 2023, un risultato che sorprendentemente supera la crescita della Germania, la prima economia europea. Se questi dati dovessero configurare una tendenza, come sostenuto da alcuni economisti come Jörg Krämer di Commerzbank, si tratterebbe di un cambiamento tattico di notevole importanza per il paese, che dal 2019 ha visto un incremento del PIL del 3,8 percento, una percentuale doppia rispetto alla Francia.

Il grafico mostra l'impatto della pandemia di COVID-19 sull'economia italiana, evidenziando una contrazione significativa del PIL nel 2020, anno in cui la pandemia ha avuto il suo impatto maggiore. Successivamente, si osserva una ripresa parziale nei due anni seguenti, segno di una resilienza dell'economia italiana nonostante le sfide poste dalla crisi sanitaria globale
Il grafico mostra l’impatto della pandemia di COVID-19 sull’economia italiana, evidenziando una contrazione significativa del PIL nel 2020, anno in cui la pandemia ha avuto il suo impatto maggiore. Successivamente, si osserva una ripresa parziale nei due anni seguenti, segno di una resilienza dell’economia italiana nonostante le sfide poste dalla crisi sanitaria globale

Nonostante ciò, l’Italia si trova a confrontarsi con sfide macroeconomiche notevoli. La previsione che il deficit di bilancio non rientrerà entro il limite del 3% imposto dall’Unione Europea prima del 2026 pone domande sulla sostenibilità a lungo termine delle politiche adottate. L’overshoot del deficit di bilancio al 7,2% del PIL, pur segnando un calo dall’8,6% del 2022, lascia intravedere la dimensione del percorso necessario per consolidare i miglioramenti in termini di crescita.

Il grafico illustra l’andamento del debito pubblico italiano come percentuale del PIL dal 2017 al 2023, con un marcato incremento nel 2020, evidenziando l’impatto economico significativo della pandemia di COVID-19. Segue un graduale processo di riduzione del debito nei tre anni successivi, indicativo degli sforzi di ripresa e stabilizzazione economica

In un’analisi critica delle affermazioni sulle performance economiche dell’Italia, si deve considerare una molteplicità di variabili – dall’occupazione ai salari, dall’inflazione agli impatti del PNRR. Ogni fattore contribuisce a delineare un quadro che va oltre la semplice cifra della crescita del PIL, richiedendo un’esegesi dettagliata dei cambiamenti in corso nel tessuto socio-economico del paese.

L’occupazione in Italia nel contesto europeo

Le statistiche rilasciate da Eurostat indicano che, nel febbraio 2024, il tasso di disoccupazione in Italia si attestava intorno al 6,0%, che, sebbene rappresenti una decrescita rispetto agli anni precedenti, rimane superiore rispetto a economie europee come quella tedesca e olandese, dove i tassi di disoccupazione si aggirano intorno al 3,0%. Questa discrepanza pone l’Italia in una posizione di svantaggio competitivo poiché una forza lavoro più ampia ed efficientemente impiegata è spesso correlata a maggiore innovazione e produttività.

Sotto la lente di ingrandimento viene anche la qualità dell’occupazione. Nonostante l’aumento dell’occupazione a tempo indeterminato, che rappresenta un segnale positivo in termini di stabilità del lavoro, le questioni legate alla precarietà lavorativa e ai contratti a tempo determinato restano nodi cruciali da affrontare. Il mercato del lavoro italiano è da tempo caratterizzato da una dualità che vede da un lato posti sicuri e ben remunerati e dall’altro una grande quota di lavori precari, spesso associati a salari più bassi e minori tutele sociali. Questa situazione implica che l’incremento del tasso di occupazione non sempre si traduce in un miglioramento della qualità della vita dei lavoratori.

Disoccupazione giovanile e qualità del lavoro

Per quanto riguarda l’inclusione nel mercato del lavoro, una delle sfide maggiori affrontate dall’Italia è la disoccupazione giovanile, che rimane significativamente alta. Nelle regioni meridionali, il tasso di disoccupazione tra i giovani supera talvolta il 30%, il che richiede una riflessione seria sulle politiche di inserimento lavorativo e formazione. Il governo ha tentato di rispondere a questa esigenza attraverso misure come incentivi per l’assunzione di giovani e investimenti nell’istruzione e nella formazione professionale, sebbene i risultati di tali politiche richiederanno tempo per essere valutati.

Paragonando l’Italia ad altre nazioni dell’UE, si osserva come alcuni paesi abbiano tassi di occupazione significativamente superiori, soprattutto tra i lavoratori più anziani e le donne. In Paesi come la Germania e i Paesi Nordici, l’occupazione femminile supera l’80%, un traguardo che l’Italia ambisce a raggiungere.

In definitiva, le politiche del governo Meloni mirano alla crescita e alla stabilità del mercato del lavoro, ma queste dovranno essere sostenute e affiancate da riforme che aumentino la qualità del lavoro, incoraggino  e affrontino la questione della disuguaglianza regionale. Solo con una visione olistica sarà possibile tradurre i progressi in termini di occupazione in una reale crescita economica sostenibile che beneficerà tutti i cittadini italiani.

Analisi dei salari e del potere d’acquisto

Nel tessuto economico di un paese, il livello salariale costituisce uno degli indicatori più rappresentativi del benessere dei lavoratori e della loro capacità di influenzare, attraverso i consumi, la crescita economica nazionale.

Nella disamina dei salari italiani, è importante rilevare che, secondo i dati ISTAT, il tasso di crescita salariale ha mostrato segni di ripresa nel corso dell’ultimo anno. Il salario medio lordo nel 2023 ha infatti registrato un incremento, sebbene sia ancora necessario interpretare queste cifre alla luce dell’inflazione e del costo della vita. Il potere d’acquisto dei lavoratori italiani è infatti strettamente legato al tasso di inflazione, che nel corso del 2023 ha mostrato segnali di stabilizzazione, pur rimanendo una preoccupazione centrale per le famiglie e le imprese.

In questo scenario, la crescita nominale dei salari non sempre si traduce in un aumento del reddito disponibile reale. Ciò implica che, anche se gli stipendi nominali possono aumentare, l’effettivo potere d’acquisto può rimanere stazionario o persino diminuire.

Aumento dei prezzi di energia e alimenti

Un elemento che ha particolarmente influito sulla capacità di spesa delle famiglie italiane è stata l’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, come l’energia e gli alimenti. L’aumento di questi prezzi ha portato a una diminuzione del potere d’acquisto, nonostante i tentativi di contenimento dei costi operati dal governo attraverso misure di sostegno e interventi diretti sui mercati.

In risposta a queste sfide, il governo ha implementato misure volte a stimolare la crescita economica e, di conseguenza, a sostenere il potere d’acquisto dei cittadini. Tra queste vi sono interventi sul fisco, con riduzioni dell’imposta sul reddito per alcune fasce di lavoratori, e incentivi volti a promuovere l’assunzione di personale qualificato, in un’ottica di potenziamento delle competenze e di stimolo alla produttività. La sfida del governo Meloni è quella di armonizzare la crescita dei salari con la stabilità dei prezzi, assicurando che il recupero economico sia effettivamente percepito dalle famiglie italiane.

L’inflazione e il suo impatto economico

Avviando l’indagine sull’inflazione in Italia, è indispensabile porsi nel contesto dei dati forniti dall’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT). Secondo l’ISTAT, l’indice dei prezzi al consumo (CPI) ha registrato un lieve aumento dello 0,1% a febbraio 2024 rispetto al mese precedente, con un tasso di inflazione annuo dell’1,3%. Questo tasso rappresenta una decelerazione rispetto al picco inflazionistico osservato nell’anno precedente, dove il 2023 ha chiuso con un’inflazione media del 5,7%, in netta diminuzione rispetto all’8,1% del 2022.

Questi dati riflettono una tendenza che sembra aver invertito la direzione rispetto agli anni immediatamente successivi alla pandemia, quando l’Italia, come molti altri paesi, ha sperimentato un’inflazione elevata a causa di vari fattori tra cui interruzioni della catena di approvvigionamento, aumenti dei prezzi dell’energia e variazioni nella domanda di consumo.

Il tasso di inflazione dell’1,3% in Italia, se confrontato con l’inflazione media dell’Eurozona, la quale si aggira attorno all’1,5%, suggerisce che il paese si trova in una fascia mediana dell’inflazione nell’area dell’euro. L’inflazione incide direttamente sul costo della vita, riducendo il potere d’acquisto dei cittadini, in particolare per quelle famiglie a basso e medio reddito che destinano una quota significativa del loro budget ai beni di prima necessità, i cui prezzi sono particolarmente sensibili alle variazioni inflazionistiche.

Rigida politica monetaria europea

Nel frattempo, la reazione alla pressione inflazionistica deve anche confrontarsi con le esigenze di politica fiscale e monetaria. La BCE, nell’ambito dei suoi interventi per l’area euro, ha mostrato una certa apertura verso un approccio più rigido nei confronti dell’inflazione, con potenziali aumenti dei tassi di interesse che possono avere ripercussioni sul debito pubblico degli stati membri, Italia inclusa.

Il saldo del debito pubblico rispetto al PIL è un altro indicatore chiave per valutare la salute economica di un paese. Sebbene l’Italia abbia visto ridurre il proprio rapporto debito/PIL nel 2024, il deficit di bilancio ha superato le previsioni del governo, attestandosi al 7,2%, ben al di sopra dell’obiettivo ufficiale e al di sopra della soglia del 3% richiesta dall’Unione Europea. Questo ci induce a considerare il ruolo che l’inflazione gioca nella gestione del debito: un’inflazione moderata può contribuire a “erodere” il valore reale del debito nel tempo, ma deve essere gestita con attenzione per non innescare un circolo vizioso di aumento dei tassi di interesse, crescita del debito e ulteriore pressione inflazionistica.

Passando all’analisi dei salari, un altro elemento da considerare è il rapporto tra inflazione e crescita salariale. Sebbene l’incremento nominale dei salari possa apparire come un segno positivo, bisogna valutare se tale crescita sia in grado di compensare l’incremento del costo della vita.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e i suoi effetti

I progressi descritti da Gateway Pundit sono abbastanza falsati da aiuti esterni, ovvero dai cosiddetti fondi di ‘resilienza’ europea (che per metà dovremo restituire), senza contare che la prevista militarizzazione dell’Europa assorbirà risorse, drenandole dalla vita concreta dei cittadini italiani.

Sebbene il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) dell’Italia rappresenta un ambizioso progetto finanziato dalla Next Generation EU, volto a promuovere la ripresa post-pandemia attraverso un’ampia gamma di investimenti e riforme (l’Italia riceverà complessivamente 194,4 miliardi di euro attraverso il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR)), non possiamo evitare di sottolineare che questo è uno dei casi in cui si interviene sul problema che si è contribuito a generare con interventi a dir poco schizofrenici, autoritari e affatto scientifici nella fase di gestione della pandemia. Questo prima , ma anche dopo, perchè il piano di resilienza prevede un’iniezione di fondi, destinati non tanto ad intervenire su quei settori come la sanità, l’istruzione ma destinati soprattutto a a modernizzare settori chiave come l’infrastruttura (si  drenano gli italiani ad adeguare le proprie abitazioni in virtù di teorie del tutto opinabili), la digitalizzazione e l’ambiente.

L’erogazione di prestiti agli Stati membri si trasforma sempre più in uno strumento attraverso il quale l’Unione Europea esercita una pressione crescente, imponendo il proprio diktat e orientando lo sviluppo della politica europea verso una direzione autoritaria.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) concepito nell’ambito del programma Next Generation EU, prevede una dotazione finanziaria complessiva di 191,5 miliardi di euro destinati all’Italia, di cui circa 69 miliardi di euro sotto forma di sovvenzioni e 122,5 miliardi come prestiti. Il PNRR si propone di indirizzare risorse significative verso investimenti e riforme che dovrebbero stimolare la crescita economica e modernizzare il paese in una prospettiva di transizione ecologica, digitalizzazione, inclusione sociale e coesione territoriale. Ovviamente, continuerà sempre di più la concentrazione di capitali in mano a pochi e saranno privilegiate le multinazionali estere.

La distribuzione delle risorse del PNRR avviene attraverso sei missioni principali, tutte indirizzate ideologicamente secondo la nuova religione ecologista, la visione di genere ed il controllo sociale, che toccano la digitalizzazione e l’innovazione, la rivoluzione verde e la transizione ecologica, le infrastrutture per una mobilità sostenibile, l’istruzione e la ricerca, la coesione e l’inclusione, e infine la salute. Inoltre, il piano si accompagna a un insieme di riforme strutturali mirate a rimuovere gli ostacoli che hanno storicamente frenato la crescita del paese, tra cui la riforma della pubblica amministrazione, la giustizia e il fisco.

A parere di Bruxelles, il PNRR si prefigge di incidere positivamente su vari aspetti. Ad esempio, si prevede un aumento dell’occupazione grazie alla realizzazione di nuovi progetti, in particolare in settori come le tecnologie verdi e digitali, che potrebbero richiedere nuove competenze e quindi la formazione e l’assunzione di personale qualificato. La transizione verso un’economia più sostenibile e innovativa è inoltre attesa come un volano per l’attrazione di investimenti esteri diretti, che porterebbero nuova linfa al tessuto produttivo italiano.

La ‘condizionalità’ del PNRR

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) dell’Italia, pur rappresentando una bouée de sauvetage finanziaria nel contesto della crisi post-pandemica (autoindotta), solleva questioni critiche sotto l’ombra di una leadership europea sempre più contestata. Tra queste, spiccano le sfide, i vincoli e le condizionalità che non solo minacciano di erodere la sovranità nazionale dell’Italia, ma ne condizionano anche profondamente l’autonomia politica, a causa dell’oneroso debito pubblico e di una governance europea la cui direzione sembra discutibile.

La condizionalità legata al PNRR, sebbene presentata come un necessario baluardo alla responsabilità fiscale, rischia di sottomettere l’Italia a un’influenza politica ed economica europea senza precedenti. Questo implica una subordinazione agli interessi e alle agende politiche di Bruxelles che, nell’attuale contesto di degenerazione delle leadership, potrebbe risultare particolarmente deleterio per l’indipendenza e l’identità politica dell’Italia. L’alto debito pubblico del Paese diventa così una doppia spada di Damocle: da un lato, un freno alle ambizioni di sovranità e autonomia decisionale; dall’altro, un vincolo che relega l’Italia a una posizione di dipendenza dagli umori e dalle decisioni dell’Unione Europea.

La storia economica italiana, caratterizzata da ritardi nell’implementazione dei piani di investimento pubblico e nella realizzazione delle riforme strutturali, complica ulteriormente il quadro. Questa tendenza storica evidenzia la necessità critica di meccanismi di governance efficaci e di un monitoraggio costante, capaci di garantire non solo l’attuazione delle riforme previste dal PNRR, ma anche l’uso efficiente e trasparente delle risorse finanziarie messe a disposizione.

L’efficacia dell’implementazione del PNRR e la capacità dell’Italia di perseguire un cammino di crescita autonoma e sostenibile sono, dunque, strettamente legate alla sua abilità di superare queste sfide strutturali e di governance.

Vincoli europei e imposizione della ‘frugalità’

Mentre il PNRR offre all’Italia un’opportunità per rilanciare la sua economia, i vincoli e le condizionalità imposti dall’UE rappresentano un serio motivo di preoccupazione. La subordinazione politica e finanziaria che ne deriva mette in discussione la capacità dell’Italia di navigare il proprio futuro economico con le mani libere, sottolineando l’urgente necessità di riforme interne che rafforzino la governance e l’efficienza nella gestione dei fondi e delle politiche pubbliche. Solo così l’Italia potrà realmente trarre beneficio da questo piano, senza perdere di vista la propria sovranità e il proprio posto nel concerto delle nazioni europee.

Inoltre, va considerata la necessità di rimborsare i prestiti ottenuti nell’ambito del PNRR. Sebbene una parte del finanziamento sia sotto forma di grant, i prestiti dovranno essere ripagati nel lungo termine. Di conseguenza, l’Italia dovrà garantire che gli investimenti generino un ritorno economico tale da sostenere i futuri impegni di rimborso senza gravare eccessivamente sul debito pubblico del paese, già tra i più elevati in Europa.

Le politiche europee: stimolo o freno?

Le politiche dell’Unione Europea si pongono in una posizione di duplice effetto sul panorama economico italiano, oscillando tra sostegno e costrizione. Da un lato, i finanziamenti erogati tramite il PNRR appaiono come un catalizzatore per la crescita, promettendo un’iniezione di risorse in momenti cruciali. Dall’altro, la direzione geopolitica presa dall’UE, caratterizzata da scelte ideologiche di stampo progressista e da un impegno bellico rinnovato nei confronti di potenze come Russia e Cina, delinea un quadro di ostacoli non indifferenti per l’economia nazionale. L’adesione a politiche ambientali ambiziose, sebbene lodevoli in teoria, in pratica si scontrano con la realtà di una scienza non univoca e spesso oggetto di dibattito, portando a interrogarsi sulla loro effettiva sostenibilità e applicabilità.

La necessità per l’Italia di conformarsi a rigidi standard ambientali, unitamente alle restrizioni commerciali imposte dal contesto geopolitico attuale, rischia di relegare il paese in un angolo del commercio internazionale, limitato da sanzioni, dazi e una rete intricata di alleanze e antipatie politiche. Questo scenario non fa che aggiungere ulteriori ostacoli alla crescita economica italiana, già provata da anni di incertezze.

Italia pedina di altri nel contesto geopolitico occidentale

Ulteriormente, il rapporto tra Italia e Unione Europea, così come la posizione del paese nel contesto geopolitico più ampio, sembra essere stato segnato negli ultimi anni da una forma di acquiescenza politica. Le precedenti amministrazioni italiane hanno spesso dimostrato una tendenza alla conformità, accettando senza significativa opposizione i numerosi diktat provenienti sia da Bruxelles che dall’oltreoceano. Questa sudditanza politica non solo ha limitato la capacità di negoziazione dell’Italia, ma ha anche soffocato l’opportunità di utilizzare strumenti potentemente efficaci quali la denuncia pubblica, l’espressione franca e aperta e l’appello alla verità.

L’Italia, in questa delicata congiuntura storica, si trova così a dover bilanciare tra la necessità di capitalizzare sui fondi europei per la propria ripresa e crescita economica, e il rischio di vedersi ancor più stretta in un ginepraio di condizionalità politiche e ideologiche che ne limitano la sovranità e l’azione sullo scacchiere internazionale. La sfida per le future leadership italiane sarà quella di ritrovare una voce autonoma e assertiva, capace di navigare gli impegni europei senza perdere di vista gli interessi nazionali, e di impiegare con saggezza la forza della parola e della verità per difendere la propria posizione in Europa e nel mondo.

Navigare a vista: il destino di chi non ha una grande meta desiderata

Purtroppo, assistiamo a una costante avversione dell’Unione Europea nei confronti di qualsiasi tentativo di cambiamento, anche quando questo si prospetta essere positivo. Ci troviamo in un’Europa in cui la direzione di guida rimane incerta: è la NATO a dettare le linee guida, o l’Unione si trova divisa tra due signorie, rimanendo ambigua su chi realmente serva? Questa situazione di ambivalenza non fa che complicare ulteriormente il panorama politico e geopolitico, lasciando gli Stati membri, tra cui l’Italia, in una posizione di incertezza su quale rotta seguire e a quali interessi dare priorità.

Varrebbe la pena che la leadership politica italiana ricordasse la nozione di profitto descritta da Peuy, ove nel suo scritto “L’Argent” (Il denaro), Péguy accende il riflettore sul predominio della dimensione economica nella società occidentale. Il denaro, secondo lui, aveva trasformato il lavoro da un’attività onorata a una prestazione priva di significato. Nel Medioevo e nell’Antichità, il lavoro era associato all’onore, ma il denaro aveva alterato questa percezione. In sintesi, per Charles Péguy, il profitto non era solo una questione di bilanci finanziari, ma coinvolgeva anche valori umani, spirituali e sociali. La sua visione complessa e profonda continua a ispirare la riflessione su questi temi.

La domanda che mi faccio sempre, quando sento parlare di economia è questa: come prescindere dall’uomo verso cui l’economia è rivolta? Mentre se una siffatta concezione della vita e del profitto nella vita,  fosse predominante o almeno presa sul serio, forse vedremmo tutto sotto un’altra luce e sicuramente ci sarebbe più giustizia sociale e meno catastrofi.

 

Patrizio Riccihttps://www.vietatoparlare.it
Con esperienza in testate come il Sussidiario, Cultura Cattolica, la Croce, LPLNews e con un passato da militare di carriera, mi dedico alla politica internazionale, concentrandomi sui conflitti globali. Ho contribuito significativamente all'associazione di blogger cristiani Samizdatonline e sono socio fondatore del "Coordinamento per la pace in Siria", un'entità che promuove la pace nella regione attraverso azioni di sensibilizzazione e giudizio ed anche iniziative politiche e aiuti diretti.

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