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Caso Skripal ed atteggiamenti ondivaghi: occidente in Siria, ma in ordine sparso e senza meta

by Patrizio Ricci
6 Ottobre 2021
in Post vari
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Caso Skripal: credere nella colpevolezza della Russia sembra basarsi non su prove ma su ipotesi

GUERRA IN SIRIA/ L’errore degli Usa (e Israele) che consegna il Medio oriente a Putin

Il caso Skripal è alquanto nebuloso. Ma soprattutto, rivela preoccupanti nessi politici con quanto sta accadendo in Siria, dove gli Usa hanno sbagliato tutto.

04 APRILE 2018  – PATRIZIO RICCI

Chi ha avuto un minimo di attenzione sulla vicenda, avrà capito che il caso Skripal è alquanto nebuloso. Non si è chiarito come mai durante l’attentato (4 marzo) era in corso un’esercitazione militare che — guarda caso — simulava un attacco con gas nervini proprio a Salisbury (vedi la comunicazione sul sito del governo inglese e la conferma della Bbc che alla data del 9 di marzo l’esercitazione si era “appena conclusa”). Né si è chiarito come può essere considerata “prova inoppugnabile” la provenienza russa di un gas nervino la cui formula ormai non è più in possesso esclusivo di Mosca. Ed infine, non si è chiarito come mai la premier inglese Teresa May ha potuto lanciare le sue accuse già il giorno dopo l’avvelenamento di Salisbury (con tanto di corollario di provvedimenti che intendeva prendere) mentre l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opcw) non ha ancora identificano l’agente chimico (vedi qui la comunicazione del direttore Opcw datata 20 marzo in cui annuncia i risultati degli esperti in “2 o tre settimane”).

Certo i nostri paesi non possono trasformarsi in un Far West ma bisognerebbe, allo stesso modo, tener conto che l’omicidio extragiudiziale rientra anche nelle tattiche della Cia, tra l’altro rese pubbliche nel 1997, come parte del Freedom of Information Act. Naturalmente è giusto voltare pagina ma allora, usando lo stesso metodo di giudizio, dovrebbe indurre qualche sospetto anche la sequenza di nove diplomatici russi morti in soli due mesi tra il febbraio e marzo 2017, tutti deceduti per infarto o in circostanze non del tutto chiarite.

Ma qui non si vuole certo stabilire il colpevole, né quantomeno decidere chi sia il primo nella classifica dei buoni e dei cattivi. Quel che si vuole sottolineare è invece che esiste una stretta connessione tra il caso Skripal e la crisi siriana, in cui al centro c’è la Russia, in un vortice di strumentalizzazione delle notizie.
Infatti, è evidente che il caso dell’avvelenamento dell’ex spia russa e di sua figlia a Salisbury è secondario rispetto allo scopo primario, che è quello di dimostrare una Russia sempre più aggressiva, che fa arrivare i suoi tentacoli sin nel cuore dell’occidente.

Non sfugge infatti che l’incidente di Salisbury è avvenuto non appena i riflettori dei media si sono spenti a Ghouta (Damasco). Precisamente quando la popolazione ha cominciato a riportare le proprie testimonianze sull’oppressione subita per anni e sulla crudeltà dei cosiddetti “ribelli”: è a questo punto — quando le fonti primarie differivano totalmente dalla narrativa ufficiale — che i riflettori, improvvisamente, si sono spenti a Ghouta e si sono riaccesi a Londra.

Ciò che corre non è di poco conto: la fine della guerra in Siria sta avvenendo con un Iran rafforzato e con la Russia che in Medio oriente acquista sempre più forza e influenza. Gli Stati Uniti pensavano di eliminare questa problematicità continuando il supporto alle milizie armate, sennonché ciò che ha complicato ulteriormente le cose è stato l’intervento della Turchia contro gli alleati statunitensi, i curdi.

La campagna militare “Ramoscello d’ulivo” di Ankara contro le Syrian Democratic Force (Sdf) ovvero le forze curde (che per Ankara sono forze terroriste), è iniziata negli stessi giorni in cui cominciava l’operazione siriana su Ghouta. L’offensiva turca ha causato circa tremila morti tra le Unità di difesa popolare (Ypg) ed ha comportato il saccheggio finale di Afrin da parte dei ribelli del Free Syrian Army.

Adesso i turchi non hanno intenzione di fermarsi: venerdì scorso, il presidente turco Erdogan ha detto che l’operazione proseguirà ancora più a nord, fino a liberare dai curdi la località di Manbij, ovvero proprio dove sono stanziate le forze americane.

Paradossalmente gli americani, non potendo agire in alcun modo contro Erdogan — perché è un alleato prezioso nella Nato e un alleato chiave nel Medio oriente — accusano Putin. Lo incolpano perché ha rotto le uova nel paniere su tutti i fronti: ha trovato, tramite i negoziati di Astana, un accordo per la Siria con Turchia ed Iran, e il format dei negoziati sta funzionando. Ma soprattutto non tollerano che abbia chiuso un occhio sull’operazione turca “Olive Branch”, accettando una soluzione win-win con i turchi che — seppure comporti la cessione di Afrin — porterebbe, per forza di cose, a far sloggiare gli americani dal nord del paese. Da parte loro, i curdi non dimenticheranno che gli Stati Uniti avevano promesso di proteggerli, invece hanno lasciato che le forze turche li massacrassero.

Ma il raffreddamento delle relazioni con i curdi per gli Usa non è il solo problema: sempre nel nord della Siria, ad Al Mansur  (che si trova a 15 km da Raqqa), la tribù locale Al Bukhamis si è rivoltata in armi contro le milizie curde delle Forze democratiche siriane (Sdf) e la rivolta sembra allargarsi. Dicono che la gestione amministrativa curda è dispotica, tanto da fargli rimpiangere la gestione dei tempi di Assad che concedeva una relativa autonomia. E a lamentarsi non sono solo le tribù: anche l’arcivescovo Hindo ha accusato su Fides le scelte operate dall’occidente, che avrebbe portato ad una sorta di pulizia etnica dei cristiani nei luoghi dove da sempre sono vissuti.

Così gli americani, che avevano puntato tutto su un stato curdo per indebolire la Siria e l’Iran, ora si vedono mancare la terra sotto i piedi. Perciò quello che vedremo da adesso in poi non è nient’altro che la reazione a tutto questo, svolta su più direzioni e con vari metodi. In questa linea, si inseriscono le minacce Usa di due settimane fa di un intervento diretto contro la Siria, una pioggia di tomahawk lanciati dalle flotte schierate nel Mediterraneo e nel Golfo Persico. Non è avvenuto nulla, sembra per merito del capo del Pentagono gen. Mattis, ora — a quanto pare — il meno “falco” dello staff presidenziale.

E’ segno che allo stato attuale in Medio oriente non si può essere sicuri veramente di niente. La strategia statunitense sembra cambiare cammin facendo: gli Usa hanno appena decretato una tregua con Isis e sembrano ignorarne gli spostamenti. Le conseguenze dirette dell’allentamento sono gli attacchi quotidiani dell’Isis contro le forze siriane nella provincia di Deir Ezzor, da poco liberata: tutti provengono dal territorio detenuto dagli Usa al nord dell’Eufrate e da Al Tanf, a sud.

In definitiva, gli Usa stanno cominciando a vedere la Russia come un serio ostacolo. A Putin non si perdona di aver vanificato il piano Usa-Israele per il “Grande Kurdistan” (che avrebbe dovuto costituire un protettorato statunitense-israeliano nella regione a nord dell’Eufrate): è per questo che potrebbero aver attanagliato gli alleati europei contro Putin in una nuova guerra fredda.

Capite che in tutto ciò, ben poco c’entra il popolo siriano o la morte di donne e bambini, presi ignobilmente sempre a pretesto per alimentare ulteriormente il conflitto. Allo stesso modo, fatue sono le illusioni di chi guarda la comunità internazionale come la manna che cade dal cielo: è proprio la cosiddetta “comunità internazionale”, stando a quanto ripetiamo, documentandolo da un bel po’ di tempo a questa parte, ad alimentare l’incendio.

© Riproduzione Riservata.

Patrizio Ricci

Associato alla Freelance International Press (FLIP), Autore sul Sussidiario, La Croce, LPLNews24. Cofondatore del Coordinamento Nazionale per la pace in Siria, Membro del direttivo Osservatorio per le Comunità Cristiane nel Medioriente…

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