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Qatar e Arabia Saudita guidano la riscossa sunnita

by Patrizio Ricci
30 Ottobre 2015
in Post vari
0
Qatar e Arabia Saudita guidano la riscossa sunnita

Era il 2012 ma a qualcuno era già chiaro. Non per il ‘pubblico’ delle grandi potenze occidentali lasciato volutamente all’oscuro, per poter ‘manovrare’ meglio sulle divisioni e scatenare l’inferno contro Assad e pensando ‘poi si vedrà’…

Ho ripescato un articolo ‘profetico’, da rileggere alla luce dei fatti attuali che fanno vedere chiaramente la deriva settaria della guerra di Siria. Un conflitto che fa leva sulle storiche ed insolute divisioni tra sciiti e sunniti e il desiderio di questi ultimi del ‘Califfato’:

12/04/2012

Qatar e Arabia Saudita guidano la riscossa sunnita

La paura della primavera araba è passata. Le potenze del Golfo come portabandiera del wahabismo. L’attivismo di Doha in Libia e i legami con i Fratelli musulmani. L’Iran è avvisato.

di Giampaolo Tarantino

Le acque si sono calmate. L’onda lunga della “primavera araba” ha soltanto lambito le coste del Golfo Perisco e adesso i paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (Gulf cooperation council, Gcc) possono concentrarsi sul nuovo quadro regionale. La situazione è ancora gravida di incognite ma lo tsunami che si è abbattuto su Medio Oriente e Nord Africa [carta] presenta sicuramente delle ghiotte occasioni per le ambizioni egemoniche dall’Arabia Saudita, grande potenza regionale e peso massimo del Gcc.

Oltre all’Arabia Saudita, fanno parte del Gcc Kuwait, Qatar, Bahrain, Oman e Emirati Arabi Uniti. L’organismo è stato fondato nel 1981 con il progetto di rafforzare la collaborazione in campo economico e per “imitare” il mercato unico europeo. A livello strategico, il Gcc doveva difendere i regimi sunniti del Golfo dall’espansionismo iraniano. Per un ventennio, lo scudo ha retto e ha permesso alle petromonarchie di rendersi impermeabili alle turbolenze mediorientali, sfruttando le enormi risorse finanziarie a disposizione.

Le rivolte arabe del 2011 hanno rotto questa fase di quiete. Davanti ai regime change in Tunisia, Egitto e Libia e alla rivolta in Siria, la priorità assoluta diventa preservare lo status quo. Dopo il caos scoppiato nel vicinissimo Yemen, l’effetto domino delle insurrezioni ha raggiunto gli stessi paesi del Golfo con proteste in Bahrein, Oman e perfino Arabia Saudita.

Quando migliaia di sudditi del Bahrein, seguendo l’esempio dei loro fratelli egiziani a piazza Tahrir, occupano la centralissima Pearl Square nella capitale Manama, il sovrano Hamad bin Isa al Khalifa chiede aiuto al Gcc, che invia un contingente militare guidato da mille soldati sauditi per sedare la rivolta. Questa repressione e gli aiuti economici elargiti alla popolazione hanno soffocato sul nascere le velleità rivoluzionarie sorte anche in Arabia Saudita e Oman spaventando le case regnanti del Golfo.

Passata la grande paura, sono emersi scenari favorevoli per il regno di Abdullah e i suoi alleati. I cambi di regime in Tunisia, Egitto e Libia hanno aperto un buco nero geopolitico in Nordafrica. Un vuoto di potere che piace soprattutto a Riyad.

I Saud hanno trovato nel Qatar un alleato di ferro. Il piccolo e ricchissimo emirato sta emergendo come un importante attore sullo scacchiere internazionale. I rapporti tra qatarini e sauditi non sono stati facili ma recentemente i due paesi hanno rinsaldato i loro legami. In quest’ottica, il Qatar rappresenta una sorta di faccia più moderna della conservatrice Riyad capace, però, di fare gli interessi sauditi: Doha, infatti, è un partner economico e politico molto ambito da cui farsi rappresentare nei consessi internazionali.

Il Qatar e l’Arabia Saudita vogliono accrescere in Nordafrica e nel Maghreb l’influenza wahabita, una dottrina su cui i sauditi hanno costruito la loro legittimità politica. Riyad fa del proselitismo religioso una delle principali missioni dello Stato, finanziando gruppi e partiti islamisti nella regione, in Asia (dai talebani afghani alle madrasse pakistane) e nel mondo.

Anche il Qatar cosmopolita e ricchissimo fa la sua parte, come dimostra l’attivismo in Libia. Doha ha contribuito in maniera determinante a convincere la Lega araba ad appoggiare l’imposizione di una no-fly zone; è stata la prima capitale arabo a riconoscere il Cnt e ha partecipato alla missione militare con centinaia di uomini, mettendo pure oltre 400 milioni di dollari a disposizione dei ribelli. Aljazeera, il suo influente canale satellitare, ha avuto un ruolo di primo piano nel sostegno alla causa della rivolta e nella creazione di un clima internazionale favorevole all’intervento militare. Oggi il capo militare di Tripoli è Abdel Hakim Belhadj, proveniente dal circolo di Derna, uno dei più importanti centri di ispirazione del fondamentalismo musulmano: secondo le intelligence occidentali sarebbe vicinissimo ai servizi di Doha.

L’emirato del Golfo vede nella Libia una grande possibilità economica. Il Qatar ambisce a controllare una parte delle enormi risorse petrolifere del paese, di cui punta alle esportazioni di gas verso l’Europa. Tripoli è un potenziale ponte per avvicinarsi alle nazioni europee e a nuovi mercati.

L’emiro Hamad bin Khalifa al Thani sta anche cercando di colmare il divario tra gli Stati del Golfo e i Fratelli musulmani in Egitto. Il Qatar ha ospitato importanti figure della Fratellanza per decenni – basti pensare a Yusuf al-Qaradawi – e ha promesso 10 miliardi di dollari di investimenti, una volta che nel paese sarà tornata la stabilità.

Stesso discorso in Tunisia dove, il 14 gennaio scorso, per celebrare il primo anniversario della rivoluzione che ha deposto Ben Ali è giunto anche lo stesso al Thani che si è detto pronto a “dialogare” con gli uomini di Ennahda. È evidente che, dopo le rivolte del 2011, l’Islam politico si sta rafforzando. A Tunisi e al Cairo hanno trionfato i partiti islamisti; in Libia si intravede un maggiore peso della religione nei fondamenti dello Stato e nella futura struttura del potere.

Anche grazie alla “primavera araba”, sembra essere arrivata l’ora della “rivincita sunnita”. L’ultimo decennio dell’Islam è stato contraddistinto dall’affermarsi dell’influenza sciita: da Hezbollah in Libano, passando per l’Iraq post-Saddam, fino alla Siria, alleato di ferro dell’Iran. Se anche il regime di Assad guidato dalla minoranza alawita (una setta sciita) dovesse cadere, si frantumerebbe la “mezzaluna sciita” lasciando campo libero al rafforzamento del potere sunnita nel mondo arabo.

fonte Limes

 

Patrizio Ricci

Associato alla Freelance International Press (FLIP), Autore sul Sussidiario, La Croce, LPLNews24. Cofondatore del Coordinamento Nazionale per la pace in Siria, Membro del direttivo Osservatorio per le Comunità Cristiane nel Medioriente…

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