"Per la riconciliazione in Siria ci vorrà del tempo"

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Sacerdote ad Aleppo, in Siria, padre Ziad Hilal, gesuita, di passaggio a Parigi, dà le sue ragioni di speranza nonostante una guerra che ha già fatto 400.000 morti e milioni di sfollati.

D: Quale città troverà al ritorno ad Aleppo, dove lei è prete, dopo aver vissuto sei anni in un’altra città martire: Homs?

R: La metà orientale di Aleppo è in buona parte distrutta dai combattimenti che sono durati fino all’evacuazione dei ribelli, negoziata lo scorso dicembre. Occorrerà del tempo affinché gli abitanti ritornino: come si può vivere senza acqua nè elettricità? Vi restano solo le famiglie povere che non hanno la possibilità di andare altrove. La parte ovest, dove abito, è stata meno danneggiata dai combattimenti, ma la vita è complicata anche qui. L’acqua è tagliata regolarmente, a volte per più di venti giorni consecutivi.

Alcuni scavano dei pozzi, dove ci si viene a rifornire coi bidoni. Per la rete elettrica che è fuori servizio, ciascuno conta sul suo gruppo elettrogeno. Occorre tuttavia potersi procurarsi la benzina o il gasolio per farli funzionare. Adesso, le zone petrolifere della Siria sono controllate dai jihadisti dello Stato islamico [ISIS, o Daech, Ndt] e la benzina che viene importata è soggetta alle sanzioni internazionali contro il governo siriano.

D: La ricostruzione è così lenta anche a Homs, evacuata anch’essa dai ribelli nel 2014?

R: Fino a quando la sicurezza nel Paese non sarà completamente ristabilita, la ricostruzione non può veramente iniziare. Solo alcuni quartieri ed edifici simbolicamente importanti per gli abitanti, come le chiese o le moschee, vengono riparati. Molte persone sono perciò ridotte a vivere nel mezzo delle rovine.

D: Quanti cristiani restano, dei circa 130.000 che erano ad Aleppo nel 2011?

R: Ad Aleppo vivono ancora circa 30.000 cristiani. Gli altri sono fuggiti all’estero o in zone della Siria risparmiate dalla guerra.

D: I Cristiani sono presi di mira particolarmente?

R: ISIS ha assassinato molti cristiani e ne ha rapito centinaia a partire dal 2015 in tredici città della valle del Khabour, nel nord del Paese. Peraltro, non abbiamo più di notizie di tre sacerdoti e di due vescovi rapiti tre anni fa. Non va neppure dimenticato che alla Chiesa la Siria ha dato parecchi martiri, come il padre gesuita Frans Van der Lugt, assassinato a Homs nel 2014. Tuttavia, in generale i cristiani non sono particolarmente nel mirino più che gli altri Siriani, in maggioranza musulmani. La guerra colpisce tutti. Ma spesso, i cristiani che abitano in territori controllati dall’ISIS, o da altri gruppi integralisti, sono costretti a scegliere tra la conversione all’islam e il pagamento di una tassa speciale (la Jizya), in aggiunta ad altri obblighi. Molti cristiani preferiscono fuggire da questa oppressione.

D: Dopo sei anni di una guerra spaventosa, lei e i suoi parrocchiani non vi sentite a volte abbandonati da Dio?

R: Sono gli uomini che producono la violenza. Noi manteniamo la nostra speranza in Dio: se non per noi stessi, almeno per la prossima generazione. Nella Bibbia, ogni momento difficile incoraggia il popolo di Dio a rafforzarsi. In Oriente, capita ancora che gli archeologi scoprano chiese sotterranee dei primi tempi del cristianesimo. Questo ci ricorda che la Chiesa è sopravvissuta alle persecuzioni e alle violenze anche in passato. Non c’è nulla di nuovo sotto il sole.

D: Ma come continuare a sperare?

R: Un mio compagno gesuita ci ha raccontato del fervore dei fedeli assiepati per la Messa della Domenica di Pasqua, nella cattedrale latina di Aleppo, che ha ospitato 1.200 persone e nella cattedrale maronita della città, che è ancora senza tetto. Mi ha detto a qual punto il messaggio della Pasqua – la morte e risurrezione di Cristo – abbia toccato i parrocchiani nella loro carne. Anche noi, i Siriani, attendiamo la resurrezione. Anche se qualcosa è morto dentro di noi, possiamo cercare di rialzarci il giorno dopo, con il Cristo risorto.

D: La società siriana potrà rialzarsi da una guerra che ha fatto circa 400.000 morti e obbligato a fuggire milioni di abitanti?

R: Per la riconciliazione ci vorrà del tempo. Questo è il motivo per cui dobbiamo cominciare adesso! Associazioni cattoliche come JRS (Jesuit Refugee Service) o la Caritas Siriana sono già molto attive in questo campo. Fanno un formidabile lavoro umanitario e sociale. Invitano, per esempio, i bambini e i genitori di diverse fedi e opposte opinioni politiche, al dialogo, a dibattere riguardo al rispetto per l’altro, sulla non-violenza. Migliaia di bambini hanno partecipato a questo tipo di riunioni. Quando la guerra sarà finita, ci si potrebbe ispirare ed imparare da esempi stranieri per guarire le ferite profonde della guerra civile, come ad esempio la Commissione per la Verità e la Riconciliazione, istituita in Sud Africa alla fine dell’apartheid.

Gli effetti e i danni della guerra non sono solo materiali: le lesioni più gravi sono invisibili, esse feriscono profondamente gli spiriti. Sarà necessario guarire la nostra società per salvarla. Prendersi cura dei bambini traumatizzati, ai quali è stato messo nella testa che il vicino era il nemico; le donne, che non sanno nemmeno se sono vedove o se i loro mariti ritorneranno, e in quali condizioni; gli uomini incapaci di riadattarsi alla vita normale, perché la guerra è diventata il loro lavoro. Questo conflitto ha piantato semi di dolore che permarranno per lunghi anni.

D: Gli interventi stranieri – russi e iraniani a fianco del governo siriano, occidentale al fianco dell’opposizione e di alcuni ribelli – possono sbloccare la situazione?

R: Già dal 2011, penso che la soluzione debba essere politica. Purtroppo, per mancanza di una cultura del dialogo in Siria, la violenza si è imposta. Diverse forze straniere hanno supportato le fazioni rivali. Nonostante le centinaia di migliaia di morti e i milioni di sfollati, continuo a credere che una soluzione politica sia possibile. Occorre non rinunciare mai al dialogo. Ogni guerra ha una fine! La più vicina a noi, la guerra civile in Libano, durata quindici anni, ha finalmente trovato un esito negoziato tra i belligeranti. Come ha detto Papa Francesco, quando si perde speranza, dobbiamo ancora cercare in questa perdita una ragione per sperare.

 

  ( trad. dal francese di Gb.P.) 

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