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Home Editoriale ULTIMI POST

Financial Times: ogni stato dovrebbe finanziare da solo la propria ripresa

16 Giugno 2020
in ULTIMI POST
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Financial Times: ogni stato dovrebbe finanziare da solo la propria ripresa
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Un articolo del Financial Times a firma di di Martin Sandbu sottolinea l’incongrua decisione del governo italiano di non finanziarsi autonomamente ma invece di aspettare l’aiuto europeo.  Questa constatazione – frutto della logica – è in fondo  ciò che il prof Bagnai e molti altri economisti vanno ripetendo da quando è cominciata la crisi per il Covid-19. Da quando la UE ha congelato il fiscal compact ed ha concesso agli stati di fare spesa in deficit, non esiste ragione per non autofinanziarsi. Questo vuol dire emettere titoli di stato nella misura che si ritiene opportuna per la ripresa economica. Purtroppo tutto ciò non si sta facendo ed il ritardo sta strangolando la ripresa. Martin Sanbdu spiega come questa inopinata decisione del governo giallo-rosso sia una incauta decisione puramente politica.

@vietatoparlare

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Financial Times – Non c’è chiarezza nella tesi a favore di una risposta europea alla recessione

di Martin Sandbu, pubblicato sul FT il 4 giugno 2020  (Case for common EU response to slowdown is not clear cut)

In questo periodo le solite regole fiscali non trovano applicazione, quindi ogni paese potrebbe finanziare da solo la propria ripresa.

Quelli che invocano una forte risposta della UE alla recessione da coronavirus sembrano vicini alla vittoria da un punto di vista politico. Francia e Germania hanno concordato un consistente pacchetto di spesa finanziato dall’emissione di titoli, e a seguire la settimana scorsa la Commissione Europea si è espressa per un’ancora più ambiziosa proposta per 750 miliardi di euro di recovery fund. Da un punto di vista economico, però, la questione è lungi dall’essere conclusa.

L’argomento a favore di una spesa comune a livello UE è stato che i paesi maggiormente colpiti dalla pandemia sono tendenzialmente quelli con le finanze pubbliche più deboli. Il timore è che questo possa ostacolare la loro capacità di impegnarsi in quell’ampio programma di spesa in deficit che i paesi UE più forti, e soprattutto la Germania, hanno rapidamente intrapreso, nonostante siano stati relativamente meno colpiti dal Covid-19.

Quando la settimana scorsa la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha presentato la sua proposta, l’ha giustificata dicendo che “l’impatto asimmetrico della crisi è esacerbato dalle diverse capacità dei paesi membri di sostenere le loro economie”.

Ma i paesi membri che sostengono la linea dura dal punto di vista fiscale hanno rapidamente fatto notare che anche i tassi dei titoli italiani sono a livelli molto bassi. Il denaro è a buon mercato e le regole fiscali sono state sospese. Dunque perché non consentire a ciascun paese di finanziare da solo il proprio programma di ripresa?

“Il punto è che ai paesi in questione, e in particolare all’Italia, non sono stati posti vincoli”, ha detto Jacob Kirkegaard, membro senior del Peterson Institute for International Economics. Se alcuni paesi sono stati più lenti degli altri a mettere in atto ampi pacchetti fiscali per il salvataggio delle loro economie, questo è causato “più dall’inerzia politica che dai mercati dei titoli”, secondo Kirkegaard.

Prendendo in considerazione le previsioni ufficiali di aumento della spesa per il prossimo anno, fa anche notare che c’è una relazione molto debole tra il peso del debito pubblico all’ingresso nella crisi e la potenza dello sforzo fiscale con il quale ciascun paese europeo sta cercando di combattere le ricadute economiche del Covid-19.

La forte azione intrapresa dalla Banca Centrale Europea, che si è impegnata ad acquistare titoli sostanzialmente nella stessa misura dell’intero nuovo debito che presumibilmente verrà emesso dai governi dell’eurozona quest’anno, ha fatto sì che i costi rimanessero bassi.

“Gli attori del mercato continueranno ad acquistare i titoli dell’Italia e degli altri paesi perché sono consapevoli che la BCE è presente”, ha detto Kirkegaard, quindi una certa misura di “solidarietà” verso i paesi membri più vulnerabili è già in atto. Ma questo significa anche che in senso strettamente economico c’è meno bisogno di trasferimenti fiscali dall’alto.

I sostenitori dell’indebitamento e della spesa comune potrebbero aver percepito la potenziale debolezza dell’argomento sullo “spazio fiscale”, perché ne stanno sempre più enfatizzando un altro: il fatto cioè che la segmentazione delle misure di sostegno alle imprese messe in atto dai diversi paesi in relazione al coronavirus rappresenti una minaccia all’integrità del mercato unico europeo. Il piano della Commissione include un programma di “sostegno alla solvibilità” con iniezioni di capitale nelle aziende in difficoltà.

Anche questo argomento potrebbe essere esagerato, ritiene Kirkegaard, il quale ammette che ci sia un “chiaro rischio” di destabilizzazione della parità di condizioni in UE, ma dice anche che il suo effettivo verificarsi è una “questione di carattere empirico”.

“Sulla carta queste garanzie sui prestiti sono molto, molto ampie”, dice, ma l’effettivo tasso di utilizzo potrebbe essere notevolmente inferiore. Piuttosto che la sostenibilità economica, egli ritiene che la vera domanda sia se la sospensione delle normali regole sugli aiuti di Stato si protrarrà ancora a lungo, anche dopo la fine dell’anno.

La maggior parte degli osservatori si aspetta che il piano della Commissione passerà perché i paesi più “frugali” – Danimarca, Svezia, Austria e Paesi Bassi – troveranno difficile resistervi ora che è sostenuto dalla Germania. Piuttosto, è possibile che raddoppino gli sforzi per garantire che il denaro venga speso bene.

Nel caso dello strumento del sostegno alla solvibilità, per esempio, “non si vuole che esso diventi veicolo per una politica industriale interna mirata a salvare le aziende nazionali strategiche che versano in cattive condizioni”, ha detto un rappresentante di un paese nordico.

Sebbene l’argomento economico non sia inattaccabile, il recovery fund ha un significato politico. “Dobbiamo essere onesti”, ha detto Kirkegaard, “i popoli del Sud hanno bisogno di vedere nella UE anche una forma di assicurazione comune”.

Martin Sandbu
Scrittore capo di economia, Financial Times Martin Sandbu è il capo scrittore di economia del Financial Times. È stato Senior Research Fellow presso il Zicklin Center for Business Ethics Research presso la Wharton School, University of Pennsylvania, e Postdoctoral Research Fellow presso il Earth Institute, Columbia University. Sandbu ha scritto e tenuto conferenze su politica economica, sviluppo economico e risorse naturali, etica aziendale e filosofia politica. Il suo lavoro è stato pubblicato su riviste accademiche di economia, filosofia e scienze politiche ed è autore di numerosi rapporti politici. È apparso su BBC World Service, NPR Morning Edition, CNBC e molti altri programmi televisivi.

retriev_content_to_ (https://www.ft.com/content/2f33bd8d-51ac-484b-9115-c50d2ae802cb)

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Patrizio Ricci associato Freelance International Press (FLIP), socio dell’ass. Blogger Samizdatonline, Autore sul Sussidiario, La Croce, LPLNews24. Coofondatore del Coordinamento Nazionale per la pace in Siria, Membro del direttivo Osservatorio per le Comunità Cristiane nel Medioriente…

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