Zelensky rifiuta la proposta di tregua di Putin e minaccia

Il rifiuto di Zelensky alla tregua del 9 maggio: un gesto rivelatore

Volodymyr Zelensky ha respinto la proposta di tregua avanzata da Vladimir Putin in occasione del Giorno della Vittoria, il 9 maggio, giorno in cui la Russia e gran parte del mondo celebrano la sconfitta del nazismo nella Seconda guerra mondiale. La proposta russa era per una pausa di tre giorni nei combattimenti, ma il presidente ucraino l’ha liquidata come una “manipolazione” e ha invece avanzato la richiesta di un cessate il fuoco di 30 giorni.

A prima vista, la risposta potrebbe apparire ragionevole: più giorni di tregua significherebbero, in teoria, più vite salvate. Ma osservando più a fondo, emerge una contraddizione lampante. La richiesta non è una proposta negoziale, bensì un rilancio armato. È l’Ucraina, attraverso Zelensky, a presentarsi come parte in vantaggio, in una posizione tale da dettare condizioni come se fosse sulla soglia della vittoria. Una posizione che stride con la realtà di una guerra prolungata, logorante e sanguinosa da oltre tre anni.

La vera vittoria, diceva Sun Tzu ne “L’arte della guerra”, è quella che si ottiene senza combattere. Eppure qui assistiamo a una postura diametralmente opposta, che non solo rifiuta il gesto simbolico di tregua in un giorno altamente significativo, ma lo trasforma in una minaccia. In un video ufficiale, Zelensky non si limita a rigettare l’invito alla tregua, ma arriva persino a lanciare velate minacce verso coloro che parteciperanno alla commemorazione del 9 maggio.

L’odio ideologico e il riscrivere la storia

È noto come Zelensky, fin dall’inizio del conflitto, abbia mostrato un’avversione profonda – quasi ideologica – verso tutto ciò che è russo: lingua, letteratura, cultura e tradizione religiosa. Non si tratta di semplici misure difensive: in Ucraina è stata vietata la lingua russa, è stata perseguitata la Chiesa ortodossa ucraina fedele al Patriarcato di Mosca, e ogni manifestazione di simpatia verso il mondo russo è vista con sospetto, quando non viene direttamente repressa. Politici, intellettuali, blogger e semplici cittadini che dissentono dalla narrazione ufficiale o che mostrano apertura verso il “nemico” sono perseguitati, in alcuni casi anche eliminati.

L’esempio più noto è l’attentato che ha ucciso Darya Dugina, figlia del filosofo Aleksandr Dugin, in un’operazione che porta la firma dei servizi speciali ucraini, secondo fonti occidentali autorevoli come il New York Times. Un omicidio che non ha nulla di militare e che ci fa comprendere il vero volto di questa guerra: un conflitto dove l’annientamento dell’altro non si limita al piano militare, ma punta a cancellarne la memoria, la cultura e perfino la narrazione storica.

Per questo, parlare oggi di negoziati ha senso solo se vi è una reale volontà di cercare un clima propizio, un’atmosfera – per dirla con parole semplici – di distensione. Non bastano le dichiarazioni diplomatiche, serve una predisposizione interiore, uno sguardo umano sull’altro. Questo, ad esempio, sembra averlo intuito l’amministrazione statunitense, che da qualche mese ha ripreso contatti con Mosca attraverso canali paralleli, suggerendo il bisogno di una de-escalation.

Zelensky, al contrario, non perde occasione per ribadire il proprio disprezzo verso Putin, auspicandone persino la morte e incentivando azioni dirette contro ufficiali e politici russi. Non è questa la strada della pace. Il vero ostacolo ai negoziati non è la distanza politica, ma l’odio radicato verso il mondo russo, che impedisce ogni apertura e spinge a una revisione storica pericolosa. E qui si inserisce perfettamente l’episodio del 9 maggio.

Il Giorno della Vittoria è un patrimonio universale, non solo russo. È la memoria viva della sconfitta del nazismo, ed è dunque tragico vedere Zelensky trattarlo come una ricorrenza nemica. Ancora più inquietante è il tono minaccioso rivolto a chi parteciperà a Mosca alla celebrazione: una minaccia che – alla luce della presenza prevista del presidente cinese Xi Jinping – può essere letta anche come un messaggio destabilizzante nei confronti dei futuri equilibri multipolari.

L’infelicità di questa posizione sta proprio nel suo simbolismo. Zelensky agisce come se la sconfitta del nazismo non fosse affare suo. Ma forse davvero non lo è, considerando il peso che le frange più radicali del nazionalismo ucraino hanno assunto negli ultimi dieci anni. Minoritarie, sì, ma radicate e determinanti, soprattutto nel settore militare e nell’indottrinamento educativo. È da lì che proviene l’impronta ideologica che oggi permea la società ucraina, sostenuta – in modo ambiguo ma efficace – anche dai centri decisionali europei.

L’esclusione della Russia dalla commemorazione ufficiale in Germania ne è un esempio eloquente. E lo sono anche le parole del futuro cancelliere tedesco Friedrich Merz, che ha parlato della necessità per la Germania di “riprendere il suo ruolo” in Europa, legando questa aspirazione al riarmo e a una postura marcatamente ostile verso Mosca. È un ritorno inquietante: la storia europea sembra riscritta al contrario, con chi ha sconfitto il nazismo oggi demonizzato, e chi lo ha occultato o sdoganato trattato come un paladino della libertà.

In sintesi, il rifiuto della tregua proposta per il 9 maggio non è solo una scelta tattica, ma un gesto rivelatore. Esso smaschera l’impossibilità di una pace che non sia preceduta da un cambio di paradigma, da un recupero della verità storica e da un abbandono dell’odio ideologico. Senza tutto questo, la pace rimane solo una parola vuota, buona per i comunicati stampa ma tradita quotidianamente nella realtà dei fatti.

Appendice: ecco la sincerità del desiderio di pace…

Durante un incontro tenutosi a inizio mese, il presidente avrebbe suggerito che il Regno Unito fosse disposto a inviare fino a 10.000 militari in Ucraina. Tuttavia, in successive consultazioni, i ministri della Difesa europei hanno chiarito che non esiste alcuna possibilità realistica di radunare una forza di 64.000 uomini, come ipotizzato inizialmente, e che persino mettere insieme 25.000 soldati rappresenterebbe già un traguardo ambizioso, comprendendo tra questi anche 5.000-10.000 britannici.

Secondo una fonte ben informata sulle discussioni avvenute a Bruxelles, tale obiettivo di 25.000 uomini sarebbe già da considerare come un passo in avanti importante per una missione congiunta.

Alla luce di queste difficoltà, il settimanale The Times ha riportato che ora è più probabile un invio mirato di istruttori militari britannici e francesi nell’Ucraina occidentale, piuttosto che lo schieramento di una forza multinazionale di terra destinata alla difesa di città strategiche o infrastrutture critiche. Questo approccio riflette le crescenti preoccupazioni sui rischi operativi connessi a un impegno diretto sul campo.

Di conseguenza, il sostegno occidentale si starebbe sempre più orientando verso il rafforzamento dell’apparato militare ucraino, attraverso operazioni di riarmo, addestramento e supporto alla difesa aerea e marittima, piuttosto che con un coinvolgimento diretto in prima linea.

Ma come vedete il desiderio di pace o il riconoscimento delle ragioni altrui e le proprie colpe nel conflitto sono tuttora una chimera.

Tutto questo naturalmente c’entra con il nostro QUOTIDIANO e chiunque pensa di leggere queste cose come ‘notizie’ internazionali si sbaglia. Io mi dedico a questo lavoro unicamente per dare un giudizio sul nostro QUOTIDIANO attraverso le politiche adottate in campo internazionale. Esse sono la cartina al tornasole del nostro essere e di come si concepiscono coloro che ci guidano e ci influenzano come popolo. Di coloro che ci guidano e che sono principalmente dediti a non farci sentire un POPOLO.