Una strategia scritta da tempo
L’Iran rappresenta da decenni un obiettivo cardine della strategia statunitense in Medio Oriente. Questa direttrice politica è emersa con chiarezza nelle dichiarazioni dell’ex generale Wesley Clark, che nel 2007 rivelò un piano elaborato dal Pentagono all’indomani dell’11 settembre: colpire sette paesi in cinque anni, con l’Iran come tappa finale. Una roadmap di destabilizzazione pianificata, confermata da documenti strategici come Which Path to Persia? della Brookings Institution (2009), che delineano scenari e strumenti per provocare un cambio di regime a Teheran.
Soon after 9/11, former General Wesley Clark visited the Pentagon and saw plans for regime change in seven countries in five years: “Iraq, Syria, Lebanon, Libya, Somalia, Sudan & finishing it off with Iran.”
All seven operations have now come to pass.pic.twitter.com/VQhGIHEgji
— Dave Benner, Nemesis of Neocons (@dbenner83) June 13, 2025
La logica dell’egemonia: l’Iran come nemico ideale
Fin dalla Rivoluzione Islamica del 1979, l’Iran è stato descritto come una minaccia “esistenziale”: non tanto per il suo programma nucleare (mai provato essere offensivo), quanto per la sua sfida all’ordine liberale occidentale. Il suo sostegno a movimenti come Hezbollah, la sua influenza sciita in Iraq e Yemen, e la retorica anti-israeliana, lo rendono un bersaglio perfetto nella narrativa imperial-statunitense, alla costante ricerca di “nemici utili” per giustificare spese militari e interventi all’estero.
“Which Path to Persia?”: il manuale dell’inganno
Il documento pubblicato dalla Brookings nel 2009 rappresenta una vera e propria guida operativa al rovesciamento del governo iraniano. Tra le opzioni considerate:
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Sanzioni paralizzanti per colpire l’economia e incentivare il malcontento interno.
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Diplomazia “manipolativa”, con offerte costruite per essere respinte, così da presentare l’Iran come attore irrazionale.
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Sostegno segreto a gruppi oppositori, anche armati, per fomentare l’instabilità interna.
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Attacco militare limitato ma spettacolare, senza invasione, per minare la leadership e indebolire le difese.
Queste strategie, per quanto formalmente “analitiche”, presuppongono l’uso sistematico della menzogna e della provocazione, trasformando la diplomazia in arma e la pace in trappola.
Il fallimento sistemico: un’aggressività controproducente
A distanza di oltre un decennio, i risultati di queste politiche sono evidenti: nessun cambio di regime, nessuna democratizzazione, nessuna stabilizzazione regionale. Al contrario:
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L’Iran ha rafforzato la propria influenza regionale, tessendo un’alleanza con Russia e Cina.
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Le sanzioni non hanno piegato Teheran, ma hanno favorito un’economia di resistenza autonoma, orientata verso l’Eurasia.
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Le proteste interne non si sono tradotte in rivoluzioni, nonostante le campagne mediatiche occidentali e il supporto occulto a frange oppositrici.
In pratica, le politiche USA hanno ottenuto l’effetto opposto a quello dichiarato: un Medio Oriente più polarizzato, instabile e pericolosamente vicino a un conflitto su larga scala.
2025: la continuità del paradigma bellico
Oggi, nel 2025, l’approccio USA non è cambiato, nonostante i fallimenti evidenti. Il dossier JCPOA è tornato al centro dell’attenzione solo per essere usato come leva negoziale e strumento di ricatto. Le dichiarazioni dell’amministrazione Trump-Vance, secondo cui “non importa se l’Iran vuole il nucleare, ma vogliamo la sua resa totale”, rivelano una logica da guerra preventiva, più ideologica che strategica.
Intanto, l’intelligence militare NATO coopera con Israele nell’identificazione di obiettivi in Iran, e l’AIEA perde credibilità rivelandosi permeabile a pressioni politiche, come denunciato da fonti iraniane e media alternativi. La costruzione dell’“inevitabilità” della guerra sembra seguire lo stesso schema visto in Iraq nel 2003, ma con implicazioni ben più gravi.
Israele e l’effetto domino
Il sostegno incondizionato di Washington a Israele è un fattore aggravante. La guerra a Gaza, le provocazioni contro Hezbollah, l’infiltrazione di agenti nel sud dell’Iraq, e la campagna sistematica contro scienziati nucleari iraniani, mostrano che Tel Aviv è tutt’altro che spettatrice neutrale. Un attacco diretto all’Iran, anche mirato, rischierebbe di scatenare una guerra regionale multipolare, con l’entrata in campo di milizie sciite, proxy e potenze globali.
La posta in gioco: sovranità o dominio
L’approccio statunitense nega all’Iran il diritto alla sovranità, trattandolo come una colonia recalcitrante da riportare all’ordine. Ma dietro la retorica sulla “democrazia” si nasconde la paura del multipolarismo: un Iran forte e autonomo è un ostacolo al dominio unipolare USA in Medio Oriente, esattamente come lo sono oggi Russia e Cina in Eurasia.
Conclusione: cambiare rotta prima dell’abisso
Le rivelazioni di Clark e le strategie esplicitate nel documento della Brookings mostrano che l’aggressività USA verso l’Iran è sistemica, non contingente. La logica della forza ha prodotto solo caos, rancore e coalizioni anti-occidentali.
Nel 2025, l’unica via razionale è una diplomazia autentica, basata sul riconoscimento della sovranità e su garanzie reciproche di sicurezza. Continuare sulla strada della coercizione e del ricatto non porterà a un Iran più debole, ma a un mondo più vicino al conflitto globale.
Nota finale:
Per approfondire, si rimanda alla lettura integrale del documento Which Path to Persia? (Brookings Institution, 2009) e all’analisi dei contenuti pubblicati su X e Telegram da esperti come Scott Ritter, Tulsi Gabbard e canali indipendenti come Nova Project, che mettono in luce l’ipocrisia delle narrative occidentali sul caso Iran.