Venti anni dopo, la campagna della NATO in Kosovo è una testimonianza degli orrori dell’“intervento umanitario”.

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La tragedia del Kosovo

Venti anni fa questa settimana, la NATO lanciò la sua prima grande campagna militare. Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e altre potenze della NATO bersagliarono la Serbia per 78 giorni. Non si trattava di un’operazione puramente militare: la NATO distrusse anche obiettivi denominati “a duplice uso”, come fabbriche, ponti e persino il principale edificio televisivo nel centro di Belgrado, nel tentativo di terrorizzare il paese e portarlo alla resa.

La Guerra del Kosovo fu l’ultimo capitolo della disgregazione di quella che allora era la Jugoslavia. La maggioranza etnica albanese della provincia affrontò la crescenti repressioni durante gli anni ‘90, mentre la maggior parte delle repubbliche costituenti la Jugoslavia si separavano – attraverso il protrarsi di sanguinosi conflitti nei casi di Croazia e Bosnia. Sebbene la politica ufficiale dei leader kosovaro-albanesi fosse la non violenza, la crescente influenza dei separatisti armati dell’Esercito di Liberazione del Kosovo (UÇK) portò a crescenti attacchi contro le autorità centrali dello Stato e la minoranza serba del Kosovo.

Come avevano fatto in Croazia e in Bosnia, i governi occidentali gettarono benzina sul fuoco sostenendo i separatisti, mentre ritraevano se stessi come costruttori di pace. I leader della NATO erano pienamente consapevoli del fatto che, come l’allora Segretario alla Difesa del Regno Unito George Robertson ammise il giorno dell’inizio dei bombardamenti [in inglese], fino all’inizio del 1999 “l’UÇK fu responsabile di più morti in Kosovo di quante ne fossero state le autorità jugoslave”. Come sapeva anche la NATO, la strategia dell’UÇK era di intensificare il conflitto, proprio per accelerare l’intervento occidentale. Un leader kosovaro-albanese disse alla BBC [in inglese] in seguito: “Più civili venivano uccisi, più le possibilità di un intervento internazionale aumentavano, e naturalmente l’UÇK lo aveva capito”.

Fu così che l’alleanza militare più potente del mondo poté presentare il suo assalto a un piccolo paese europeo come un’operazione “umanitaria”. Inizialmente, l’idea era che il bombardamento avrebbe impedito una crisi di rifugiati. Come disse allora [in inglese] il Primo Ministro Tony Blair: “Se non agiamo ora… dovremmo affrontare le conseguenze dell’aggravarsi del conflitto e centinaia di migliaia di profughi”. Prevedibilmente, l’effetto fu il contrario: lo stesso bombardamento portò esattamente a queste conseguenze, mentre il conflitto all’interno del Kosovo si intensificava.

La risposta della NATO fu quella di aumentare la propaganda, denunciando i serbi come “nazisti” che commettevano un “genocidio” in Kosovo. I leader della NATO vennero aiutati da un’ipocrita copertura mediatica [in inglese], dal momento che la maggior parte dei giornalisti era già pienamente d’accordo con l’idea che l’Occidente fosse una forza del “bene” contro “il male” nel mondo post-Guerra fredda. È una storia che abbiamo ascoltato molte volte da allora: la campagna della NATO in Kosovo è stata considerata un modello apparentemente di successo da coloro che sostennero l’azione militare contro l’Iraq nel 2003, la Libia nel 2011 e la Siria nel 2018.

Ma questa idea è andata ben oltre la sua data di scadenza. L’argomento per un “intervento militare umanitario” è sempre che i fini giustificano i mezzi: che il rischio di morte e distruzione a breve termine sarà giustificato dall’obiettivo finale. Alla fine del conflitto in Kosovo, Blair promise che [in inglese] la comunità internazionale “costruirà un Kosovo che, alla fine, sarà un simbolo di come dovrebbero essere i Balcani”. Dopo venti anni, hanno avuto tutto il tempo di adempiere a quella promessa.

Come dovrebbero essere i Balcani?

La distanza tra retorica e realtà è più ampia in relazione alla pretesa che, come proclama ripetutamente la costituzione del Kosovo approvata dall’UE, il paese sia “una società multietnica”. Questo, dopotutto, è presumibilmente tutto ciò per il quale iniziò la guerra: Blair affermò all’epoca [entrambi i link in inglese] che “veniva combattuta per [il] principio fondamentale… che ogni essere umano, indipendentemente da razza, religione o nascita, ha il diritto inalienabile di vivere libero dalla persecuzione”.

Come disse lui, decine di migliaia di serbi del Kosovo stavano fuggendo dai pogrom [in inglese] che seguirono immediatamente la guerra. Molte altre migliaia sono andate via da allora, perché l’intervento della NATO non ha risolto il conflitto sottostante. La Serbia rivendica ancora la giurisdizione sulla provincia, ma continue violenze a bassa intensità, intimidazioni e vessazioni continuano a rendere impossibile una vita normale per i serbi e le altre minoranze del Kosovo. Eruzioni di violenze gravi si sono verificate nel 2004, 2008, 2009 e 2011.

Il Kosovo del dopoguerra non è un posto pacifico e – nonostante sia l’unico posto al mondo in cui si possa incontrare qualcuno di nome Tonibler che cammina lungo Bill Clinton Boulevard – negli ultimi anni ha esportato più militanti jihadisti pro capite che altrove in Europa. Secondo un rapporto del 2017 [in inglese] del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, oltre 300 giovani provenienti dal Kosovo sono andati ad unirsi allo Stato Islamico in Siria, alcuni salendo “in cima alle gerarchie dell’ISIS”, mentre altri hanno “effettuato attacchi contro l’Europa occidentale e negli USA”.

Alcuni commentatori hanno accusato l’influenza delle organizzazioni di beneficenza islamiche finanziate dai sauditi fondate in Kosovo dopo la guerra, forse inconsapevoli che l’UÇK era un importatore di jihadisti. Come ha sottolineato [entrambi i link in inglese] l’autore britannico Mark Curtis, le agenzie di intelligence occidentali conoscevano l’attiva collaborazione dell’UÇK con Al-Qaida prima della guerra. La risposta dei governi della NATO all’epoca fu fornire armi e addestramento.

Molti analisti puntano ad uno stallo dello sviluppo economico come un “fattore di spinta” chiave che guida l’aumento dell’estremismo, e in effetti il Kosovo ha il più basso PIL pro-capite nella regione. La disoccupazione è superiore al 30% (circa quattro volte la media europea e peggio della Grecia al culmine della recente crisi economica), superando il 55% [tutti e tre i link in inglese] per la disoccupazione giovanile. Eppure molte più persone hanno lasciato il Kosovo in cerca di lavoro piuttosto che viaggiare all’estero alla ricerca del martirio. Piuttosto che un semplice impoverimento economico, probabilmente il fattore più significativo è un più ampio senso di disincanto rispetto alla realtà del Kosovo “indipendente”.

Lo “stato fallito” costruito dall’Occidente

Il Kosovo oggi è il risultato di anni di intenso intervento internazionale. È stato governato direttamente dalla Missione di Amministrazione Provvisoria delle Nazioni Unite in Kosovo (UNMIK) dalla fine della guerra nel giugno 1999. Nel 2008, il Kosovo si è dichiarato uno stato indipendente – ma questa era un’“indipendenza controllata” sotto gli auspici della Missione dell’Unione Europea sullo stato di diritto in Kosovo (EULEX). Anche dopo che la supervisione formale si è ufficialmente conclusa nel 2012, è proseguita un’estesa supervisione internazionale: uno studio recente ha rilevato che gli Stati Uniti e l’Unione Europea stanno “intervenendo con forza e persistenza negli affari interni [del Kosovo]”. Ci sono ancora circa 4.000 soldati della NATO e oltre 500 membri del personale EULEX in Kosovo, oltre all’ufficio dell’Unione Europea, la missione dell’OSCE forte di 500 uomini e il Team Kosovo delle Nazioni Unite che comprende 19 agenzie e centinaia di dipendenti.

Il Kosovo, in altre parole, è una vetrina per gli sforzi di costruzione di uno stato occidentale – ha ricevuto più aiuti pro capite che altrove – proprio come l’intervento della NATO del 1999 era di per sé una vetrina per quella che Blair definiva la “dottrina della comunità internazionale”. Eppure il risultato, secondo lo studioso di relazioni internazionali Aidan Hehir, è che “l’Occidente ha costruito uno stato fallito in Kosovo”. Oppure, come dice un altro studioso, Arolda Elbasani [tutti e tre i link in inglese]: “Anche quando è dotata di enormi risorse e poteri illimitati, la comunità internazionale non è stata in grado di realizzare una serie di obiettivi: uno stato multietnico, funzionale e democratico”.

Invece, ha prodotto uno stato praticamente mono-etnico, disfunzionale, in cui le minoranze sono fuggite o vivono in enclavi precarie, e dove gli elettori sono stati disillusi dalla corruzione e dalla criminalità ai più alti livelli delle istituzioni dominanti.

Una relazione dell’ONU del 2005 [in inglese] indicava “la criminalità organizzata e la corruzione” come “le maggiori minacce alla stabilità del Kosovo”, osservando che “il governo non ha adottato le necessarie… azioni per combattere il crimine organizzato e prevenire la corruzione”. Questo durante il periodo del dominio diretto dell’UNMIK, quindi se qualcuno doveva agire sarebbe stata presumibilmente la stessa ONU. Le cose non sono migliorate sotto il controllo dell’UE. Un rapporto del 2010 del Consiglio d’Europa sul “Trattamento inumano delle persone e il traffico illecito di organi umani in Kosovo” documentava “collegamenti ombrosi, e in alcuni casi aperti, tra crimine organizzato e politica, compresi i rappresentanti delle autorità”. Le sue conclusioni sono state confermate da un’altra indagine [entrambi i link in inglese] nel 2014.

“Sequestro dello Stato” ed evasione occidentale

Molti di questi problemi sono personificati dall’ex leader dell’UÇK, Hashim Thaçi. Subito dopo la guerra, l’UÇK divenne il “Corpo di protezione del Kosovo”: Thaçi lo comandò, oltre a dirigere il governo provvisorio. Ha guidato il Kosovo verso l’autodichiarata indipendenza come primo ministro nel 2008, e dal 2016 è Presidente del Kosovo. Una volta celebrato in Occidente [in inglese] come il “George Washington del Kosovo”, Thaçi è stato identificato nell’indagine del Consiglio d’Europa del 2010 come capo del “Gruppo Drenica” – ex leader dell’UÇK trasformatisi in “imprenditori criminali” che si sono dati agli omicidi, ai sequestri e agli imprigionamenti illegali, che esercitano un “controllo violento sul commercio dell’eroina” e che ha “progetti su una forma di “sequestro dello stato””.

Persino analisti solidali [in inglese] hanno riconosciuto il problema del “sequestro dello stato” in Kosovo, in base al quale “le risorse statali e le istituzioni sono utilizzate a fini privati”, coinvolgendo reti “pervasive” di corruzione e clientelismo che frenano lo sviluppo. Comprensibilmente, molti sono frustrati dalla mancanza di progressi. La colpa per i problemi del Kosovo sta nell’Occidente.

Il sindaco di Pristina, Shpend Ahmeti, ha sicuramente ragione quando sostiene che [in inglese] il problema locale del “sequestro dello stato” è il risultato della preferenza dell’UE per la “stabilità rispetto alla democrazia”. Come suggerisce anche Hehir, è proprio perché il Kosovo è stato una vetrina per la costruzione dello stato internazionale che i supervisori occidentali del Kosovo sono stati riluttanti ad affrontare i suoi problemi. Sicuramente nel periodo del dominio diretto, la priorità era mantenere una facciata di stabilità piuttosto che rischiare il conflitto che deriverebbe dall’affrontare la sordida realtà della politica di stampo mafioso del Kosovo. Data la mancanza di miglioramenti, sembra probabile che la “scoperta” tardiva da parte dell’UE delle connessioni criminali estremamente conosciute dell’UÇK, e la loro crescente preoccupazione per il “sequestro dello stato” da parte delle stesse persone di cui si sono prese cura perché prendessero il potere, siano solo ulteriori tentativi di schivare la responsabilità.

Ironia della sorte, una conseguenza di questo approccio evasivo è che la missione EULEX, creata con lo scopo preciso di combattere la corruzione e sostenere lo Stato di diritto, è essa stessa rimasta impantanata in scandali di corruzione. Nel 2014, il procuratore di EULEX Maria Bamieh ha richiesto un’indagine sulla corruzione contro i suoi stessi colleghi, ma EULEX ha risposto licenziandola. Bamieh dice [in inglese] che gli è stato detto dal Ministero degli Esteri del Regno Unito di ignorare le prove di corruzione. Nel 2017, il giudice principale di EULEX Malcolm Simmons si è dimesso, accusando la corruzione e le interferenze politiche, ma poi è diventato oggetto di contro-accuse [in inglese] di condotta criminale, e rivelazioni che non era mai stato qualificato per agire come giudice internazionale.

Qualunque sia la verità di queste varie accuse, sembra chiaro che, come riferito [in inglese] da un ex dipendente di EULEX, “c’è poca richiesta di responsabilità, perché in definitiva ci si preoccupa di più di tenersi il posto di lavoro”. Altri hanno anche identificato la relazione tra organizzazioni internazionali con “poteri espansivi” ma nessuna “linea di autorità o responsabilità” e il più ampio “senso di malessere generale e malfunzionamento” nella società kosovara. Nella schiacciante descrizione di Elbasani: “Lo staff internazionale viaggiava in giro per il Kosovo in auto di lusso, frequentava caffè esclusivi che si rivolgevano specificamente a loro e vivevano stili di vita esclusivi [che] li rendevano un mondo a parte rispetto all’impoverito e disfunzionale sistema politico che avevano contribuito a creare”.

Le persone attaccate dalla NATO nel 1999 di certo non festeggeranno questo mese, ma sembra altrettanto improbabile che l’anniversario genererà molto entusiasmo tra coloro che dovevano essere aiutate dall’intervento.

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Articolo di Philip Hammond pubblicato il 22 marzo 2019 su Spiked
Traduzione in italiano a cura di Raffaele Ucci per Saker Italia.

[le note in questo formato sono del traduttore]

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Patrizio Riccihttps://www.vietatoparlare.it
Con esperienza in testate come il Sussidiario, Cultura Cattolica, la Croce, LPLNews e con un passato da militare di carriera, mi dedico alla politica internazionale, concentrandomi sui conflitti globali. Ho contribuito significativamente all'associazione di blogger cristiani Samizdatonline e sono socio fondatore del "Coordinamento per la pace in Siria", un'entità che promuove la pace nella regione attraverso azioni di sensibilizzazione e giudizio ed anche iniziative politiche e aiuti diretti.

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