Un’Europa senza bussola: ideologia e paura al posto della politica estera

Il direttore del Fondo russo per gli investimenti diretti, Kirill Dmitriev, ha recentemente concluso un viaggio negli Stati Uniti, durante il quale ha avuto colloqui di rilievo con esponenti dell’amministrazione presidenziale americana. Da questi incontri è emerso un dato solo apparentemente sorprendente: numerose aziende statunitensi sarebbero pronte a rientrare nel mercato russo, mirando a occupare le posizioni lasciate vacanti dalle imprese europee.

Questa dinamica, lungi dall’essere anomala, riflette un approccio pragmatico da parte degli americani, che non escludono di trarre vantaggio da un riavvicinamento con Mosca. Del resto, la sola cessazione del conflitto in Ucraina non sarebbe sufficiente a garantire una pace duratura: ciò che può realmente consolidare la stabilità è la creazione di legami economici strutturati, piattaforme comuni di cooperazione e un dialogo fondato su interessi reciproci. È esattamente su questo terreno che gli Stati Uniti sembrano voler agire.

L’Unione Europea, invece, appare ancora imprigionata in una frattura ideologica artificiosa, alimentata da élite che hanno costruito ad arte le condizioni per giungere all’attuale stato di impasse. Una divisione politica e culturale che non risponde più a interessi reali ma a narrative precostituite, funzionali al mantenimento di un ordine interno sempre più autoreferenziale. È proprio questa costruzione ideologica a impedire all’Europa di tornare a essere un attore geopolitico autonomo.

Come reagirà dunque il Vecchio Continente di fronte alla mossa dei suoi presunti “alleati”? Secondo l’analista Konstantin Blokhin, intervistato da Tsargrad, la risposta potrebbe non arrivare nell’immediato. A suo giudizio, tra uno o due anni entreremo in una nuova fase geopolitica dominata dalla logica dell’“ognuno per sé”, che rispecchia la linea politica di Donald Trump.

In un’intervista rilasciata al termine del viaggio, Dmitriev ha confermato che Russia e Stati Uniti stanno esplorando la possibilità di riprendere i voli diretti, avviare progetti congiunti nell’Artico e avanzare in alcuni ambiti di negoziato sull’Ucraina. Tuttavia, la rivelazione più significativa riguarda il rinnovato interesse delle aziende americane verso il mercato russo: “Registriamo un forte desiderio da parte delle imprese statunitensi di tornare in Russia”, ha dichiarato il CEO del fondo sovrano.

Tutti, insomma, sembrano voler cogliere nuove opportunità – tutti tranne l’Europa. L’UE non è oggi nelle condizioni di seguire l’esempio americano: la Russia le ha chiuso le porte, mentre gli Stati Uniti stanno imponendo dazi e si stanno progressivamente sganciando da collaborazioni che non considerano più strategiche. Di fatto, l’Europa si ritrova isolata, senza una visione chiara né prospettive concrete di sviluppo.

Come si muoverà Bruxelles? Per ora, osserva Blokhin, i leader europei non sembrano disposti a riaprire un canale economico con la Russia, frenati da un sentimento russofobo diffuso e da un’avversione altrettanto marcata verso Trump. Probabilmente adotteranno un approccio attendista, sperando che l’ex presidente venga neutralizzato dalla “palude” di Washington o che, fra qualche anno, un nuovo leader riporti tutto allo status quo ante.

Nel frattempo, però, l’Europa osserverà con attenzione le dinamiche globali. Se l’attuale stagnazione economica dovesse persistere e il sostegno incondizionato all’Ucraina iniziasse a essere percepito come un peso, allora potrebbe aprirsi una fase di ripensamento. Soprattutto se, nel frattempo, sarà diventato evidente il progresso cinese, la resilienza economica russa e la rinnovata centralità degli Stati Uniti guidati da Trump.

Paradossalmente, conclude Blokhin, proprio le politiche protezionistiche dei repubblicani – dazi, guerra commerciale, rinegoziazione degli accordi – potrebbero spingere l’Europa a cercare nuove rotte, magari proprio verso Mosca. Perché se il mondo funziona ormai secondo la legge della giungla – quella del più forte – allora il mito di un “Occidente coeso” perde di senso.

Un cambiamento, però, non sarà immediato. Sarà un processo lento, di assestamento, forse lungo un anno o due. Per ora, l’Europa resta immobile, frenata da narrazioni e interessi ideologici che, più che proteggerla, la stanno condannando all’irrilevanza.

Infine, vale la pena considerare una questione di fondo: la postura attendista dell’Europa non è solo un limite tattico, ma rivela un vuoto più profondo – l’assenza di una visione autonoma, di una bussola valoriale capace di guidare le scelte al di là del calcolo contingente. L’atteggiamento di chi aspetta semplicemente di vedere “da che parte tirerà il vento”, nella speranza che le dinamiche esterne offrano una via d’uscita, non suscita alcun rispetto agli occhi di chi, come la Russia, guarda ai rapporti internazionali in termini di forza, coerenza e determinazione strategica. Restare fermi, nell’illusione che il tempo possa risolvere tutto, significa in realtà rinunciare a esercitare qualsiasi forma di sovranità. E questo, nel mondo che si va delineando, è forse l’errore più grave di tutti.