In un’Unione Europea sempre più dominata da logiche ideologiche e tecnocratiche, l’Ungheria si trova nuovamente nel mirino. La pressione esercitata da Bruxelles non è più solo diplomatica: ha assunto un carattere simbolico e sistemico, che punta a soffocare ogni forma di dissenso nel cuore dell’Europa. La sovranità nazionale, un tempo considerata fondamento del progetto europeo, viene oggi trattata come una deviazione intollerabile.
Il caso ungherese: il veto come colpa
Ne è prova l’offensiva portata avanti dal Belgio e da altri Paesi membri per revocare all’Ungheria il diritto di veto. Come riportato da La Nuova Bussola Quotidiana il 31 maggio scorso:
“Il primo ministro belga Alexander De Croo ha dichiarato che il diritto di veto dell’Ungheria nella politica estera europea rappresenta un problema da affrontare. Secondo De Croo, ‘il veto blocca decisioni importanti’, e questo blocco viene interpretato come ‘un ostacolo alla credibilità dell’UE’.”
Ma la verità è un’altra. Il diritto di veto è uno strumento politico fondamentale per garantire che nessuno Stato membro venga schiacciato da una maggioranza ideologica. Togliere questo diritto significa sancire il passaggio da un’Unione di Stati a una tecnocrazia centralizzata.
Orban, che ha più volte difeso il ruolo della sovranità nazionale come baluardo contro le derive globaliste, diventa così un bersaglio da delegittimare a ogni costo. Bruxelles non agisce più come un arbitro super partes, ma come un monopolista ideologico che impone un’unica narrazione, riducendo la complessità a mera conformità.
Bulgaria: le proteste contro l’euro come segnale politico
Intanto, nei Balcani, la Bulgaria sta vivendo una fase di risveglio civico. Le manifestazioni contro l’introduzione dell’euro, come riporta l’AGI, segnalano un’inquietudine crescente verso la cessione irreversibile della sovranità monetaria.
“Migliaia di persone sono scese in piazza a Sofia per protestare contro l’ingresso della Bulgaria nell’Eurozona, sostenendo che ciò comporterà la perdita di controllo economico e aumenterà i prezzi. Alcuni manifestanti portavano cartelli con scritto: ‘Salvate il lev!’ e ‘No all’euro-dittatura!’”.
Non si tratta solo di timori economici, ma di una chiara consapevolezza identitaria: entrare nell’euro oggi significa consegnarsi a una governance che esclude ogni controllo democratico reale. La moneta unica non è più percepita come un’opportunità, ma come un meccanismo di omologazione culturale e politica.
In questo contesto, anche la sinistra bulgara – tradizionalmente scettica sull’euro – sembra voler abbandonare la sua storica posizione critica per ragioni di opportunismo politico. Una scelta che non è tecnica ma esistenziale: una rinuncia consapevole alla difesa della sovranità popolare.
La rivolta delle ‘periferie’
Quello che accade in Ungheria e Bulgaria non è un fatto isolato. È la manifestazione di un malessere diffuso che attraversa l’intera periferia europea, da tempo sottomessa a decisioni prese altrove, senza possibilità di negoziazione reale. La protesta non è isteria, ma un tentativo di riprendere parola in uno spazio pubblico espropriato.
La sovranità, in questo contesto, non è un privilegio ma una condizione di dignità. Chi la difende non è un retrogrado, ma un resistente. E resistere oggi significa opporsi a un’Unione che pretende “nuove forme di democrazia” funzionali alle proprie agende, come dichiarato apertamente dai suoi stessi funzionari.
Oltre il postmoderno: un nuovo ordine di forza
Il vero problema, però, trascende il caso europeo. Il mondo, nella sua interezza, sta transitando verso un nuovo paradigma: l’ordine globale non è stato distrutto, è semplicemente svanito come un miraggio della postmodernità.
Non ci troviamo davanti al caos, ma a una nuova forma di sistemicità, in cui non è più centrale ciò che è giusto o razionale, ma ciò che può essere imposto. In altre parole, chi ha forza sufficiente per determinare le regole del gioco, non ha più bisogno di giustificarsi.
Questa è la logica attuale: una volontà di potenza vestita da governance, che premia la conformità e punisce il dissenso. In questo scenario, la sopravvivenza delle identità nazionali, delle autonomie e delle tradizioni politiche diventa un atto di coraggio. E chi si oppone, anche solo simbolicamente, a questa uniformità imposta, sta compiendo un gesto profondamente politico.