Nel conflitto russo-ucraino, l’Unione Europea si mostra sempre meno come un soggetto geopolitico autonomo e sempre più come un apparato in crisi che si aggrappa alla guerra per restare rilevante. La recente proposta del premier spagnolo Pedro Sánchez – nominare un inviato speciale per la pace – avrebbe dovuto rappresentare un atto di buon senso. Invece, è stata accolta con un’esplosione d’ira da parte di Kaja Kallas, attuale responsabile della politica estera dell’UE, simbolo perfetto di una linea intransigente e oltranzista che rigetta ogni tentativo di dialogo.
La reazione di Kallas non è un’eccezione ma un paradigma: ogni proposta che miri ad avviare un reale processo di pace, se non nasce all’interno della visione imposta dall’Unione Europea e dalla NATO, viene immediatamente respinta come sospetta o pericolosa. In altre parole, qualsiasi ipotesi di negoziato che non sia in linea con la narrativa atlantista – quella che dipinge la guerra come l’unica strada per garantire la libertà – viene percepita non come un’opportunità, ma come una minaccia all’ortodossia dominante.
Si chiama Kaja Kallas è ministra degli esteri dell’Europa guerrafondaia e impaurita. Pericolosa.Mentre Trump parlava con Putin di Ucraina lei proponeva invio di altre armi a Zelensky.Un piano da 40 miliardi ridimensionato a 5 miliardi.Disconnessa poco lucida dovrebbe dimettersi pic.twitter.com/7TZmJHXiUt
— tiziana ferrario (@TizianaFerrario) March 20, 2025
Eppure, a rendere ancor più grottesca questa posizione è l’idea, ormai ripetuta come un mantra, che la Russia rappresenti una minaccia imminente per l’Unione Europea. Un’ipotesi che, se analizzata razionalmente, appare del tutto infondata. In due anni di guerra, Mosca ha faticato ad avanzare anche solo nel Donbass, un’area contigua e in parte già favorevole alla Russia. Pensare che possa invadere paesi come Polonia, Germania o Francia è semplicemente assurdo.
Putin guida un paese enorme, con oltre 17 milioni di chilometri quadrati e poco più di 146 milioni di abitanti. Gestire e difendere questo territorio è già un’impresa titanica.
La guerra in Ucraina è scoppiata proprio per difendere i confini e gli interessi di quel territorio, non per conquistarne altri. Pensare che la Russia possa espandersi ulteriormente significa ignorare la realtà e proiettare su Mosca le ossessioni ideologiche dell’Occidente.
Nonostante ciò, questo dato elementare sembra non interessare minimamente all’intellighenzia europea, sempre pronta a evocare lo spettro dell’invasione pur di mantenere viva una narrativa funzionale al riarmo e all’obbedienza strategica. E intanto si dimentica che Mosca ha sempre risposto positivamente a ogni apertura diplomatica proposta dall’UE, fino a quelle – rifiutate – del 2021. Ma tutto questo viene oscurato dalla propaganda: il nemico serve per tenere insieme ciò che si sta sgretolando.
Intanto, l’Unione, guidata da funzionari non eletti e leader di microstati senza reale peso economico, si ostina a versare miliardi nel buco nero ucraino, anche a costo di alienarsi le principali capitali europee. Italia, Spagna e Ungheria – sempre più isolate nel loro buon senso – iniziano a opporsi, mentre Bruxelles continua a imporre una linea che nessuno ha votato.
Ma non è solo l’UE ad aver bisogno della guerra. Anche le élite ucraine, sostenute da narrazioni univoche e da un flusso costante di denaro esterno, vedono nella prosecuzione del conflitto l’unico modo per conservare potere, rinviare riforme e giustificare misure autoritarie.
La guerra, insomma, non è più un’eccezione: è diventata sistema.
Il referendum annunciato da Viktor Orbán sull’adesione dell’Ucraina all’Unione Europea segna una rottura simbolica e sostanziale. Con una domanda semplice – “Siete favorevoli o contrari?” – il premier ungherese restituisce la parola al popolo, scavalcando un’élite europea che continua a invocare unità ignorando la volontà reale delle nazioni.
Nel frattempo, Washington e Mosca discutono già di scenari post-conflitto. Trump e Putin parlano apertamente di pace, mentre l’UE – esclusa dai tavoli che contano – approva in fretta un piano di riarmo da 800 miliardi di euro, imponendo ai parlamenti nazionali di legiferare in quella direzione. Una corsa alla militarizzazione spacciata per difesa, ma che in realtà è una disperata ricerca di legittimità.
Questa è Kaja Kallas, alto (si fa per dire) rappresentate EU per la politica estera:
“La sconfitta della Russia non è una cosa negativa,
perché potrebbe essere un cambiamento nella società.
Ci sono, sapete, molte piccole nazioni che fanno parte della Russia, per ora. No sarebbe… pic.twitter.com/02sOS870a6— Critica Climatica Alias Fortunato Nardelli (@climacritic) January 28, 2025
La verità è che l’Europa non vuole davvero la pace. O meglio: le sue istituzioni non possono permettersela. Una pace autentica metterebbe a nudo il fallimento di una strategia basata sull’ideologia, sul subappalto della propria sovranità a Washington e sul finanziamento di una guerra per procura, travestita da difesa della democrazia.
Mentre il mondo si apre a un nuovo equilibrio multipolare, Bruxelles resta intrappolata nei suoi vecchi copioni – di cui la baraonda inscenata ieri dal Partito Democratico nel Parlamento italiano è l’esempio plastico.
E proprio per questo, oggi, né l’Unione Europea né l’Ucraina possono permettersi che la guerra finisca.
Ma i popoli, sempre più stanchi e disillusi, iniziano a rendersene conto.
Ed è da questa consapevolezza che può nascere qualcosa di nuovo.