Trump sotto accusa per i dazi, ma nessuno parla del vero obiettivo

Trump e i dazi: un progetto di rifondazione economica contro la deriva globalista

In questi giorni, i mercati registrano fluttuazioni significative e i media internazionali reagiscono amplificando ogni segnale di instabilità. La narrativa dominante presenta la politica economica del Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, come una minaccia per l’ordine economico mondiale. Tuttavia, dietro questa rappresentazione allarmista si cela una realtà più complessa: non ci troviamo di fronte a un gesto isolato o privo di visione, ma a un disegno strategico che mette in discussione le fondamenta stesse dell’attuale sistema globalizzato e finanziarizzato.

 

Trump, con le sue scelte economiche, propone un ripensamento radicale del rapporto tra economia, produzione e sovranità nazionale. Un giudizio che trova riscontro anche in molte analisi di economisti eterodossi come Dani Rodrik, Ha-Joon Chang, Joseph Stiglitz e Armando Savini, le cui riflessioni critiche sull’iper-globalizzazione, sulla finanziarizzazione e sulla perdita di controllo democratico delle economie nazionali, hanno contribuito a formare la mia interpretazione delle politiche economiche in atto.


Una crisi sistemica in corso

Le politiche economiche dell’attuale amministrazione statunitense possono essere comprese solo alla luce di una crisi sistemica in atto. Il modello globalista sviluppatosi dagli anni ’90 in poi, e cresciuto attorno all’espansione delle catene del valore e alla finanziarizzazione dell’economia, ha mostrato profonde vulnerabilità: interdipendenze incontrollabili, squilibri cronici, perdita di capacità produttiva interna e crescente instabilità sociale.

L’attuale crisi non nasce dalle azioni di Trump, ma dal sistema che egli cerca di correggere. La sua strategia mira a riportare al centro la produzione, il lavoro e la tenuta sociale, rompendo la dipendenza da un’economia sempre più astratta e dominata dalla speculazione.


La sovranità economica come condizione di resilienza

I dazi introdotti dall’amministrazione Trump non rappresentano un ritorno al protezionismo fine a sé stesso, bensì un mezzo per riequilibrare la struttura economica americana. La finalità è ridurre la dipendenza da catene di approvvigionamento globali fragili e geopoliticamente esposte, ricostruire una base industriale nazionale e rafforzare settori strategici.

 

La visione sottesa è chiara: una nazione può dirsi realmente sovrana solo se mantiene un controllo minimo ma essenziale sui pilastri della propria economia. In quest’ottica, la delocalizzazione non è più un’opportunità, ma una debolezza strutturale. Economisti come Rodrik e Chang sostengono da tempo la necessità di ristabilire un equilibrio tra Stato, mercato e società, ridefinendo il ruolo delle politiche pubbliche nel contesto economico globale.


Oltre la globalizzazione ideologica: verso un nuovo modello multipolare

Il Presidente Trump non mira a chiudere gli Stati Uniti al mondo, ma a superare un modello di globalizzazione divenuto ideologico, iperliberista e, in molti casi, controproducente. L’obiettivo è rinegoziare i rapporti commerciali su base bilaterale e paritaria, svincolandosi da accordi multilaterali che negli anni hanno compromesso la capacità di intervento statale e favorito soprattutto gli interessi delle grandi multinazionali.

Anche il premio Nobel Joseph Stiglitz ha sottolineato come l’attuale assetto della globalizzazione abbia prodotto effetti distorsivi, con costi sociali rilevanti nei paesi sviluppati. Il ritorno alla realtà produttiva proposto da Trump – seppur in forma ancora parziale – si colloca in una prospettiva di globalizzazione regolata e sostenibile, piuttosto che nella sua forma estrema e automatica.


Finanziarizzazione e speculazione: un nodo da affrontare

Un elemento centrale nella strategia dell’amministrazione Trump è la volontà di ridurre il peso eccessivo della finanza speculativa, che ha negli anni sostituito l’economia reale come motore principale della crescita. Le turbolenze dei mercati osservate in concomitanza con le sue politiche non sono la conseguenza del fallimento delle sue idee, ma la reazione di un sistema che vede messa in discussione la propria rendita.

La finanziarizzazione ha prodotto un’economia disconnessa dalla produzione, in cui gli utili si generano da algoritmi e strumenti derivati piuttosto che dal lavoro e dall’innovazione industriale. In questo senso, l’azione di Trump – pur con tutte le sue criticità – appare come un primo tentativo di rimettere ordine in una dinamica ormai fuori controllo.

 

La dedollarizzazione come sfida geopolitica

A ciò si aggiunge un fenomeno in espansione: la dedollarizzazione. Sempre più paesi – in particolare del blocco euroasiatico – stanno riducendo la loro dipendenza dal dollaro nelle transazioni internazionali. Questo processo, seppur graduale, indebolisce il potere strutturale degli Stati Uniti. La risposta di Trump consiste nel rafforzare l’economia interna e nella ridefinizione degli scambi commerciali in chiave sovrana. Anche questo è parte della strategia: fronteggiare un nuovo ordine multipolare con basi economiche più solide e indipendenti.


Europa, euro e squilibri strutturali

Nel dibattito sulle tensioni economiche globali, un punto spesso trascurato riguarda il ruolo dell’euro e l’architettura profondamente asimmetrica dell’Unione Monetaria Europea. Lungi dall’essere uno strumento neutro di integrazione economica, la moneta unica ha operato sin dall’inizio come un meccanismo squilibrato, costruito attorno alle esigenze dell’economia tedesca.

Il tasso di cambio dell’euro, risultante dalla media di economie con strutture produttive e livelli di competitività molto diversi, si è storicamente mantenuto su valori inferiori rispetto a quelli che avrebbe avuto un ipotetico marco tedesco. Se la Germania avesse conservato la propria valuta nazionale, la forza della sua industria e il suo persistente surplus commerciale avrebbero inevitabilmente condotto a un apprezzamento della moneta. Questo avrebbe ridotto la competitività delle sue esportazioni, contribuendo a riequilibrare gli scambi commerciali internazionali.

Con l’euro, invece, la Germania ha beneficiato di un tasso di cambio sistematicamente “sottovalutato” rispetto alla sua reale potenza economica. Questo vantaggio ha amplificato la sua capacità di esportazione, alimentando un surplus commerciale strutturale, mentre altri paesi – soprattutto del Sud Europa – si sono trovati penalizzati da un tasso di cambio “troppo alto” per le loro economie, meno produttive e più esposte alla concorrenza internazionale.

Il problema è aggravato dalla perdita di uno strumento fondamentale: la svalutazione. I paesi mediterranei, in passato abituati a ricorrere alla flessibilità valutaria per compensare i propri ritardi strutturali, si sono ritrovati vincolati a una moneta rigida e a politiche fiscali restrittive, spesso imposte da un’ortodossia tecnocratica distante dai bisogni reali. Il risultato è stato un progressivo indebolimento del tessuto produttivo, accompagnato da crisi del debito e da un’austerità prolungata che ha compromesso la coesione sociale.

 

A questo si aggiunge un altro elemento cruciale: il tasso di cambio euro/dollaro, mantenuto artificialmente basso proprio grazie alla presenza, nell’eurozona, di economie più deboli. Questo ha ulteriormente favorito l’export tedesco verso i mercati americani, contribuendo a un significativo surplus commerciale con gli Stati Uniti. In altre parole, l’euro ha funzionato come un moltiplicatore di vantaggi per la Germania, mentre ha limitato la capacità di reazione delle economie meno competitive.

In questo contesto, i dazi introdotti da Trump vanno letti non come un attacco alla libera concorrenza, ma come una misura correttiva rispetto a un sistema artificiale e fortemente sbilanciato. Si tratta di una risposta politica a uno squilibrio economico persistente, una forma di riequilibrio che tenta di compensare il vantaggio competitivo generato da un cambio euro/dollaro distorto.

Questa strategia, naturalmente, non è priva di rischi: tra questi, una possibile destabilizzazione dell’euro, qualora le tensioni commerciali si intensifichino. Ma il nodo di fondo resta: può una moneta unica sopravvivere senza una reale unione politica e fiscale? Finché l’Eurozona resterà un’unione monetaria incompiuta, incapace di garantire convergenza reale e solidarietà tra i suoi membri, le pressioni per un ritorno alle valute nazionali – oggi considerate marginali – potrebbero progressivamente guadagnare legittimità e forza.

Non si tratterebbe, in tal caso, di un rigurgito ideologico o nostalgico, ma della presa d’atto che l’integrazione forzata in assenza di meccanismi correttivi genera divergenze anziché armonia. E che la sovranità monetaria, lungi dall’essere un retaggio del passato, potrebbe rivelarsi uno strumento indispensabile per la sopravvivenza stessa delle democrazie economiche nazionali.


Un nuovo paradigma in gestazione

Le politiche economiche del Presidente Trump non sono esenti da rischi né da forzature. Tuttavia, il loro valore risiede nella capacità di rompere il conformismo e rimettere in discussione un sistema che ha mostrato limiti evidenti. Il tentativo di ristabilire la centralità della produzione, di rafforzare la sovranità economica e di affrontare le distorsioni generate da trent’anni di globalismo incontrollato costituisce un passaggio necessario, al di là delle appartenenze ideologiche.

 

Solo il tempo dirà se questa direzione produrrà risultati duraturi. Ma ciò che appare certo è che Trump, nel bene e nel male, ha riaperto una domanda cruciale: chi detiene oggi il potere nell’economia globale? Gli Stati sovrani o un sistema tecnocratico e finanziario transnazionale? E soprattutto: a chi risponde quel potere?

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