Durante la visita del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il presidente Donald Trump ha avanzato una possibile soluzione per il drammatico e ormai cronico problema palestinese. Di fronte alla distruzione pressoché totale di Gaza, oggi ridotta a un luogo inabitabile, e al profondo odio reciproco che rende impraticabile la soluzione dei due Stati, Trump ha suggerito un intervento militare statunitense per occupare la Striscia, farsi carico della sua ricostruzione e successivamente trasformarla in una zona demilitarizzata. Nel frattempo, la popolazione verrebbe temporaneamente accolta nei Paesi limitrofi, in attesa di un eventuale ritorno.
In precedenza, Trump aveva anche proposto il trasferimento definitivo della popolazione palestinese in Giordania ed Egitto, suscitando reazioni indignate da parte di entrambi i governi e di diversi Stati europei.
Ecco come ha riportato Il Sole 24 Ore la reazione israeliana:
“Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha promosso l’idea del presidente Trump di trasferire la popolazione di Gaza in altri Paesi. ‘È un’idea straordinaria e penso che dovrebbe essere realmente perseguita, esaminata e realizzata’, ha detto. ‘L’idea stessa di consentire ai cittadini di Gaza che vogliono andarsene di farlo… cosa c’è di sbagliato in questo?’, ha osservato il premier israeliano. ‘Possono andarsene, possono trasferirsi e tornare. Bisogna ricostruire Gaza e, se si vuole ricostruire Gaza, non si può… questa è la prima buona idea che ho sentito’”.
Ora, proviamo a ragionare in modo realistico, senza conformarci alle narrazioni di comodo. Su questo tema si alternano posizioni irrealistiche o utopistiche, mentre il semplice riconoscimento che Gaza sia divenuta ormai inabitabile rappresenta già un passo straordinario. Le posizioni dominanti, infatti, restano perlopiù ideologiche: da un lato, chi invoca una giustizia astratta; dall’altro, chi difende esclusivamente gli equilibri di forza. Eppure, molti insistono ancora sulla formula dei due popoli, due Stati. Ma è davvero una prospettiva concreta? Se lo fosse, sarebbe comunque realizzabile solo in un futuro remoto, forse tra due generazioni, quando l’odio accumulato si sarà almeno in parte dissolto. Nel frattempo, il rischio di nuovi conflitti sanguinosi rimane elevato.
D’altronde, l’intero assetto del Medio Oriente è stato definito su confini arbitrari tracciati dalle potenze occidentali (basti pensare agli accordi Sykes-Picot), eppure pochi sembrano scandalizzarsi per i cambiamenti di fatto già avvenuti. In Siria, per esempio, si è accettato che il controllo di intere aree sia finito nelle mani di gruppi legati ad al-Qaeda, i quali continuano a perpetrare massacri. Perché, allora, sarebbe considerato inconcepibile ridiscutere i confini di Gaza?
Se vogliamo affrontare la questione con un approccio rigoroso e libero dai consueti schemi, bisogna partire da un dato oggettivo: Gaza è oggi ridotta a condizioni di vita insostenibili, con infrastrutture distrutte, accesso limitato a risorse essenziali come acqua ed energia elettrica e tassi di disoccupazione alle stelle. Riconoscere questa realtà è il primo passo per una riflessione seria. Di fronte a un tale scenario, ha ancora senso parlare della “classica” soluzione delle due entità statali indipendenti? Israele da un lato, Palestina dall’altro. Ma con quali basi concrete, nel breve o persino nel medio periodo? Soprattutto considerando il livello di radicalizzazione, la sfiducia reciproca e l’assenza di una leadership in grado di garantire stabilità.
L’ipotesi di un intervento esterno per risolvere la crisi, per quanto controversa, impone di valutare tutte le alternative possibili. Ma ciò che appare certo è che la semplice riproposizione di vecchie formule, senza tenere conto della realtà sul terreno, rischia di essere solo un esercizio retorico privo di efficacia.
Il precedente storico dei confini arbitrari
In secondo luogo, c’è un’altra importante considerazione da fare: il Medio Oriente, ha confini sorti in gran parte da accordi e trattati coloniali e post-coloniali (Sykes-Picot 1916 essendo il caso più noto). Questi confini hanno generato, per un secolo intero, numerose tensioni e conflitti interni ed esterni, sia su base etnico-religiosa sia per ragioni geopolitiche. Nell’ottica della “sacralità” dei confini, l’idea di poterli modificare o rivedere – o di prevedere un’occupazione militare “terza” – sembra inconcepibile a molti. Eppure, proprio la storia del ventesimo secolo mostra che i confini in Medio Oriente (e non solo) sono stati rimaneggiati più volte e che intere popolazioni sono state ricollocate, spesso a caro prezzo. Da un punto di vista strettamente storico, non è quindi inedito che si ipotizzi una nuova modifica degli assetti territoriali o un intervento esterno su un’area così complicata.
L’idea di un’occupazione “terza” e il ruolo degli Stati Uniti
La proposta di Trump di un intervento diretto degli Stati Uniti a Gaza, con un mandato militare e di ricostruzione, si scontra con criticità evidenti, sia politiche che morali. Tuttavia, adottando una prospettiva puramente pragmatica, è innegabile che la presenza di una potenza esterna in grado di ristabilire l’ordine e favorire la ricostruzione potrebbe essere considerata da alcuni come un “male minore” rispetto alla prosecuzione di uno stato di caos, violenza e disperazione.
Naturalmente, un’occupazione militare straniera su territorio arabo, per di più da parte di un grande alleato di Israele come gli Stati Uniti, rappresenterebbe un elemento di fortissima tensione, sia a livello regionale che internazionale. Tuttavia, analizzando le opzioni realisticamente attuabili sulla base degli attori coinvolti e delle loro attuali posizioni di forza, bisogna riconoscere che, se l’obiettivo prioritario fosse esclusivamente interrompere il ciclo di devastazione a Gaza, ripristinare i servizi essenziali e offrire una prospettiva minima alla popolazione civile, allora l’ipotesi di un intervento esterno potrebbe quantomeno essere oggetto di discussione, pur restando altamente controversa.
Il problema dei trasferimenti di popolazione
Un altro snodo critico riguarda l’eventuale ricollocazione della popolazione di Gaza in stati vicini, come Giordania ed Egitto. Questa proposta, già paventata in passato, trova opposizioni feroci sia da parte dei governi coinvolti, sia da parte degli stessi palestinesi, comprensibilmente preoccupati di perdere la propria identità, la propria terra e i propri diritti. È altrettanto vero, però, che Gaza – in quanto territorio “sigillato” e spesso utilizzato come campo di battaglia – rende impossibile la vita alla maggioranza dei suoi abitanti. Inoltre c’è un altro dato di fatto, questo è che la ricostruzione richiede sostanziali sforzi economici e infrastrutturali, nonché una cornice di sicurezza che al momento non esiste.
In questa cornice, il temporaneo “smantellamento” di Gaza come teatro di guerra, con la popolazione civile spostata in zone sicure e una ricostruzione affidata a un ente sovranazionale o a un singolo stato potente, potrebbe essere una soluzione drastica, ma forse preferibile all’inferno quotidiano. Anche storicamente, nella storia contemporanea, si sono viste popolazioni fuggire, venire evacuate o ricollocate per poi rientrare, a volte, a conflitto finito. Il problema è che, in Medio Oriente, i conflitti “non finiscono” quasi mai in modo netto, e l’odio accumulato richiede – come tu stesso sottolinei – almeno un paio di generazioni per riuscire ad attenuarsi.
Il ruolo della “comunità internazionale” e la libertà di fede
Infine, c’è l’enorme questione di chi dovrebbe gestire concretamente una simile operazione: gli Stati Uniti da soli? Una coalizione internazionale sotto egida ONU? Con quali costi e quali garanzie per la popolazione locale? Su questo si inserisce la tua considerazione sulla preferenza di un’eventuale “occupazione USA” rispetto a un “lasciare tutto com’è” o a un intervento europeo, spesso percepito (non solo in Medio Oriente) come burocratico e poco incisivo. Il punto, forse, è che chiunque volesse intervenire dovrebbe assicurare non solo la sicurezza fisica, ma anche una vita dignitosa e anche la libertà di fede e questo – almeno in prospettiva – è un cammino verso l’autodeterminazione. È questo, in fondo, il nodo centrale: se non si crea una prospettiva di vita dignitosa per le popolazioni palestinesi, ogni “soluzione” è destinata a peggiorare ancora di più le tensioni.
In conclusione, sviluppando ulteriormente il mio ragionamento, è lecito chiedersi se, a fronte di un disastro umanitario permanente, non sia preferibile una soluzione “shock” – per quanto inaccettabile possa sembrare a chi difende l’integrità dei territori e la sovranità assoluta. Se il fine è evitare altre stragi e al contempo “liberare” (almeno temporaneamente) la popolazione dalla trappola di Gaza, l’idea di un intervento militare esterno che stabilisca un protettorato, si assuma l’onere della ricostruzione e preveda un ritorno scaglionato degli abitanti potrebbe rientrare nella logica del “male minore”.
Non accettare questo da parte europea, quando si accetta tranquillamente e, anzi entusiasticamente, la nuova dirigenza siriana formata da criminali di al Qaeda e la spartizione siriana, è alquanto contraddittorio.
Resta il fatto che la politica regionale e internazionale non ha mostrato, finora, la volontà di attuare piani tanto coraggiosi (o estremi), e che l’opinione pubblica mondiale fatica ad accettare ipotesi di ridisegnamento dei confini o di ricollocazioni di massa. Ma se le soluzioni convenzionali falliscono da settant’anni, chiedersi se sia il caso di cercare vie “fuori dagli schemi” non è affatto irragionevole. Piuttosto, costringe a riconoscere i limiti di un approccio basato sulla retorica, e a valutare apertamente tutti i possibili percorsi, per quanto oggi possano apparire scomodi o impraticabili.
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here is the english version: https://www.vietatoparlare.it/trump-said-the-unthinkable-about-gaza-what-if-he-was-partially-right/
Nota a margine:
Gaza. Esiste un’altra lettura delle parole di Trump su Gaza:
➡️ La normalizzazione delle relazioni dell’Arabia Saudita con Israele in cambio dell’abbandono degli spostamenti forzati, e non in cambio della creazione di uno Stato palestinese in cui nessuno crede, nemmeno coloro che lo invocano costantemente.
➡️ Costringere Hamas e le altre milizie armate a rinunciare al controllo di Gaza e smilitarizzarla in cambio dell’assenza di sfollamenti forzati dell’intera popolazione.
➡️ Salvare il governo di Netanyahu dall’orlo della disintegrazione.
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