Trump e il ritorno all’economia reale: una strategia che sfida la finanza globale

Tutti conoscono i dazi imposti da Trump ai diversi Paesi. Tuttavia, la Casa Bianca non ha ancora diffuso un documento organico che illustri nel dettaglio il suo piano economico. Eppure, osservando le misure già adottate e ascoltando le dichiarazioni dei suoi principali consiglieri economici, i contorni della sua strategia iniziano a delinearsi con chiarezza.

L’obiettivo principale della strategia economica di Trump è l’aumento dei salari della classe operaia americana. È una componente fondamentale – anche se non l’unica – alla base della sua politica tariffaria. È un aspetto poco discusso, ma centrale per comprendere la logica profonda del suo approccio: ricostruire la forza del lavoro produttivo, invertendo decenni di delocalizzazione e compressione salariale.

Come ha spiegato Robert Lighthizer, ex rappresentante commerciale degli Stati Uniti:

“Le tariffe non servono solo a colpire i concorrenti sleali, ma a riportare lavoro e industria negli Stati Uniti, migliorando i salari dei lavoratori americani”
(R. Lighthizer, “No Trade is Free”, 2023)

Allo stesso modo, Peter Navarro, consigliere economico di Trump, ha più volte ribadito:

“Riportare i posti di lavoro in America è essenziale per rafforzare la nostra economia e la nostra sicurezza”
(P. Navarro, “Death by China”, 2019)

Naturalmente, resta aperto il dibattito tra gli economisti sull’efficacia reale di queste politiche. Alcuni studi mostrano che i dazi hanno avuto effetti differenziati, favorendo alcuni settori ma penalizzandone altri, anche a causa delle contromisure commerciali adottate da altri Paesi.

Finanza scollegata dalla realtà

In quest’ottica, le pesanti perdite registrate dalle borse non appaiono come un incidente di percorso, ma piuttosto come un effetto previsto – se non addirittura voluto. La domanda da porsi è semplice: può la finanza prosperare mentre l’economia reale affonda?

Durante la pandemia di Covid-19 è accaduto proprio questo, con nostra grande sorpresa: mentre le fabbriche erano ferme e le persone chiuse in casa, i principali indici azionari volavano. Un’anomalia che ha mostrato con chiarezza la disconnessione tra economia finanziaria e reale, alimentata da liquidità facile e speculazione.

Come sottolineato in un’analisi del Fondo Monetario Internazionale:

“L’eccessiva liquidità e il basso costo del denaro hanno gonfiato i mercati, generando una distanza sempre più pericolosa dai fondamentali dell’economia reale.”

Oggi, se i mercati stanno correggendo, non dovrebbe stupire nessuno. È il ritorno alla realtà. Solo le aziende con fondamenta solide, legate a beni reali e produttività tangibile, potranno resistere alla tempesta e guidare la ripartenza.

Ma questo sarà possibile solo se i governi decideranno di sostenere davvero l’economia reale e le famiglie, invece di continuare a sorreggere un sistema finanziario virtuale e autoreferenziale. Come avverte l’economista Nouriel Roubini:

“L’eccessiva dipendenza dalla finanza può portare a crisi sistemiche: serve un ritorno a investimenti in produttività, infrastrutture e innovazione”
(N. Roubini, “Crisis Economics”)

L’Europa ostaggio della sua architettura

In Europa, però, il discorso è ancora più complicato. Paesi come l’Italia sono di fatto ostaggi delle politiche monetarie della Banca Centrale Europea, un’istituzione tecnocratica che agisce in autonomia secondo i vincoli rigidi del suo statuto.

La BCE non risponde al Parlamento Europeo, ma opera come un’entità separata, con una missione – la stabilità dei prezzi – che spesso ignora le esigenze dell’economia reale. In questo contesto, le scelte di politica economica dei singoli Paesi vengono svuotate di efficacia, mentre si rafforza un modello di gestione centralizzata.

Joseph Stiglitz ha criticato duramente questo assetto:

“Un’unione monetaria senza unione fiscale e politica non può funzionare. La BCE agisce come una banca per la Germania, non per l’Europa.”
(J. Stiglitz, “The Euro”, 2016)

Anche il Patto di Stabilità e Crescita – pur in fase di revisione – ha spesso impedito ai governi di attuare politiche espansive nei momenti critici. Ciò ha prodotto stagnazione e malcontento, alimentando il dibattito sulla necessità di una governance europea più flessibile e democratica.

La questione degli accordi commerciali con gli USA

Vedremo se i singoli Stati europei si muoveranno per stringere accordi ad hoc con gli Stati Uniti, alla ricerca di nuovi spazi di manovra in un contesto economico e geopolitico sempre più instabile. Ma qui si apre un nodo cruciale: la politica commerciale è una competenza esclusiva dell’Unione Europea.

Ciò significa che gli Stati membri non possono negoziare autonomamente accordi con Paesi terzi. Ogni intesa deve passare attraverso la Commissione Europea e seguire un iter comunitario preciso. Qualsiasi accordo bilaterale, in linea di principio, risulterebbe contrario ai trattati.

Eppure, di fronte all’inerzia di Bruxelles e all’incapacità delle istituzioni europee di reagire con prontezza, alcuni governi si stanno già muovendo in modo autonomo. È il caso dell’Italia: Giorgia Meloni sarà a Washington il 16 aprile per incontrare Trump e – secondo le sue stesse dichiarazioni – cercherà accordi diretti per l’Italia, presentandosi al tempo stesso come “intermediaria” nei confronti dell’Unione Europea.

In questo quadro, è evidente che l’UE diventa un problema.

Lo riconosce anche l’economista André Sapir, quando afferma:

“La tensione tra interessi nazionali e politica commerciale comune è strutturale. L’UE dovrà decidere se rafforzare l’integrazione o lasciare maggiore libertà agli Stati.”
(A. Sapir, “Europe’s Trade Policy: Between Globalism and Protectionism”, Bruegel, 2018)

E non è una novità: anche in passato si sono manifestate frizioni tra i singoli interessi nazionali e la linea comunitaria. Ma oggi lo scenario è più teso che mai, e la moneta rischia di tornare a essere una vera e propria arma politica.

L’euro, nato per garantire stabilità e coesione tra gli Stati membri, rischia di essere usato come strumento di condizionamento, specie verso quei Paesi che oggi si mostrano meno entusiasti della linea dominante, meno favorevoli al riarmo europeo o più inclini a un dialogo con l’America di Trump.

C’è da scommettere che la reazione della Commissione Europea sarà di netta disapprovazione verso qualsiasi iniziativa unilaterale. Non è escluso che si aprano procedure d’infrazione per violazione dei trattati, nel tentativo di riaffermare l’autorità di Bruxelles.

Ma c’è una questione ancora più profonda. In questo contesto, diventa evidente che la “moneta come arma politica” non è solo una metafora: è il riflesso di una debolezza strutturale dell’euro. Come ha osservato Benjamin J. Cohen:

“L’euro è l’unica grande valuta al mondo senza uno Stato sovrano dietro. La sua capacità di agire come valuta di riserva e di scambio internazionale resta limitata.”
(B. J. Cohen, “Currency Statecraft”, Cornell University Press, 2021)

In un mondo dove la politica si fa anche con le valute, l’euro – moneta senza stato –  rischia di essere più una camicia di forza che uno strumento di libertà.