Il recente scontro tra Donald Trump e la Federal Reserve (Fed) ha riacceso il dibattito sull’indipendenza delle banche centrali e sul loro ruolo nell’economia. Le tensioni, che vedono Trump esercitare pressioni senza precedenti per un taglio dei tassi d’interesse, mentre la Fed resiste per timore dell’inflazione, evocano precedenti conflitti tra presidenti americani e la Fed. In particolare, il confronto con John F. Kennedy, che nel 1963 sfidò il potere della Fed con l’Executive Order 11110, offre un parallelo illuminante. Questo articolo approfondisce le dinamiche di questi scontri, analizzando come essi riflettano una tensione più profonda tra il potere politico eletto e il potere tecnico-finanziario indipendente, un tema che continua a plasmare il panorama economico e politico degli Stati Uniti.
Conflitto Trump–Federal Reserve (aprile 2025) . Ad aprile 2025 è in atto un acceso scontro tra Donald Trump e la Federal Reserve (Fed), incentrato soprattutto sulla politica monetaria e l’indipendenza della banca centrale. Trump, tornato alla presidenza, sta esercitando pressioni senza precedenti perché la Fed riduca i tassi d’interesse, mentre la Fed di Jerome Powell mantiene un approccio cauto, preoccupata dall’inflazione e decisa a difendere la propria autonomia(reuters.com e apnews.com). Tale conflitto richiama le tensioni già viste durante il primo mandato di Trump, ma si è riacceso con forza nei primi mesi del 2025, alimentato da dichiarazioni pubbliche aggressive, divergenze sulle strategie economiche (in particolare sui dazi e la lotta all’inflazione) e persino da mosse legali inedite.
Pressioni di Trump sui tassi di interesse
Trump ha apertamente criticato la Fed per la sua prudenza e ha pubblicamente chiesto un taglio immediato dei tassi di interesse, accusando Powell di frenare l’economia per motivi politici. In un post del 4 aprile 2025 su Truth Social, Trump ha esortato il presidente della Fed: «CUT INTEREST RATES, JEROME, AND STOP PLAYING POLITICS!» (foxbusiness.com) – ovvero, “Taglia i tassi, Jerome, e smettila di fare politica!”. In questo messaggio, il presidente sottolineava come a suo dire fosse il “momento PERFETTO” per allentare la politica monetaria, elencando il calo di vari prezzi (energia, uova, ecc.) e la tenuta dell’occupazione come prove che l’inflazione fosse in discesa e dunque giustificasse un taglio dei tassi . Trump ha accusato Powell di essere “sempre in ritardo” nelle decisioni e gli ha intimato di “cambiare immagine, e in fretta”, suggerendo che il rialzo dei tassi finora sia stato eccessivo e dettato dalla politica (foxbusiness.com).
Queste pressioni politiche sono inusuali per un presidente USA, dato che per prassi la Casa Bianca evita di interferire pubblicamente con la Fed. La situazione attuale vede invece Trump “invadere il campo della Fed” con esternazioni sui social (huffingtonpost.it). Già a marzo 2025, dopo una riunione della Fed che aveva mantenuto invariato il tasso di riferimento (4,25%-4,50%), Trump aveva reagito stizzito online. Powell in quell’occasione spiegò che, a causa dell’elevata incertezza economica, la banca centrale non aveva fretta di tagliare i tassi; ciò scatenò l’ira di Trump, che su Truth Social scrisse: “The Fed would be MUCH better off CUTTING RATES as U.S. Tariffs start to transition… Do the right thing”(reuters.com). In sostanza Trump insisteva che la Fed avrebbe fatto “molto meglio a tagliare i tassi”, proprio mentre le sue nuove tariffe doganali iniziavano a farsi sentire sull’economia. La Fed, tuttavia, ha ribadito di voler seguire i dati economici e non le pressioni politiche: diversi membri del FOMC (come Tom Barkin, Jeff Schmid, Lorie Logan) hanno dichiarato in aprile che attenderanno prove concrete di un rallentamento o di un calo durevole dell’inflazione prima di ridurre il costo del denaro – una linea di condotta che “non è ciò che il presidente Trump desidera”, come notato da un’analisi di Fortune (ground.news).
Dazi di Trump, inflazione e divergenze sulle politiche economiche
Le politiche economiche di Trump stanno alimentando lo scontro. In particolare, la decisione del presidente di imporre dazi massicci su molti paesi (una “guerra dei dazi” annunciata all’inizio di aprile 2025) ha creato turbolenze sui mercati finanziari e complicato il compito della Fed. I dazi di Trump – definiti dal presidente come misure di “reciprocità commerciale” – minacciano di far salire i prezzi di importazione, aggiungendo pressioni inflazionistiche, mentre allo stesso tempo possono frenare crescita e investimenti. La Fed si trova quindi di fronte a un dilemma: da un lato deve considerare il rischio di inflazione più alta causata dai dazi, dall’altro il rischio di un rallentamento economico o recessione dovuto alle stesse politiche protezionistiche (washingtonpost.com e reuters.com). Come ha sintetizzato Austan Goolsbee (presidente della Fed di Chicago), non esiste “un manuale” su come una banca centrale debba rispondere a shock commerciali di tale portata, che mettono in conflitto i due obiettivi del mandato Fed (stabilità dei prezzi vs. piena occupazione) (reuters.com). In altre parole, le tariffe di Trump creano una situazione in cui qualunque mossa della Fed comporta rischi: contrastare l’inflazione alzando (o non abbassando) i tassi potrebbe indebolire ulteriormente l’economia, ma stimolare l’economia tagliando i tassi potrebbe far impennare l’inflazione.
Powell e altri funzionari hanno esplicitamente evidenziato gli effetti destabilizzanti dei dazi. In un discorso di inizio aprile, Powell ha definito i nuovi dazi “più grandi del previsto” e ha avvertito che essi “probabilmente risulteranno in una maggiore inflazione e una crescita più lenta”. Il capo della Fed ha sottolineato la difficoltà di calibrare la politica monetaria in un contesto di tale incertezza, finché non sarà chiaro “quali prodotti saranno colpiti, a che livelli tariffari e per quanto tempo, e quali ritorsioni metteranno in atto i partner commerciali” (aa.com.tr). Queste dichiarazioni indicano la preoccupazione della Fed che i dazi di Trump possano aggravare l’inflazione in modo persistente, richiedendo dunque una stretta o comunque sconsigliando allentamenti prematuri. Infatti, le previsioni aggiornate della Fed a marzo 2025 hanno rivisto al rialzo l’inflazione attesa (2,7% nel 2025, sopra il target del 2%) e al ribasso la crescita (PIL +1,7%), in buona parte “a causa dei piani di Trump di imporre dazi” . Powell ha parlato di un clima di “incertezza insolitamente elevata” dovuto allo “scompiglio” delle nuove politiche, notando che il deterioramento del quadro (meno fiducia e prezzi in aumento) è “in larga misura” attribuibile ai dazi voluti dall’amministrazione Trump (reuters.com). Dal canto suo, Trump minimizza i rischi inflazionistici delle proprie azioni e continua a sostenere che la Fed dovrebbe piuttosto preoccuparsi di sostenere la crescita. Egli considera i dazi uno strumento per correggere squilibri commerciali e ritiene che la banca centrale debba compensarne gli effetti negativi stimolando l’economia. Questo contrasto di visione ha portato Trump persino a contraddirsi: da un lato celebra i dazi come una vittoria per l’America, dall’altro implicitamente ammette che potrebbero frenare l’economia chiedendo interventi espansivi della Fed (foxbusiness.com e reuters.com).
Un episodio emblematico si è verificato tra il 2 e il 5 aprile 2025: Trump ha annunciato tariffe punitive generalizzate (definendo il giorno dell’annuncio “Liberation Day”), provocando uno shock nei mercati azionari e obbligazionari, tanto che gli operatori hanno iniziato a scommettere su tagli dei tassi da parte della Fed per evitare una recessione. Pochi giorni dopo, di fronte al crollo dei Treasury e alle proteste degli imprenditori, Trump ha fatto marcia indietro annunciando una pausa di 90 giorni sull’entrata in vigore di molti dazi. Questo dietro-front ha temporaneamente attenuato il panico finanziario, ma non ha risolto il clima di incertezza: gran parte delle tariffe rimangono sul tavolo e si prospetta una nuova resa dei conti a fine pausa, in luglio. La Fed, da parte sua, ha preso atto di questo scenario volatile: i funzionari a metà aprile ribadiscono di voler mantenere i tassi stabili in attesa di “maggiore chiarezza” sull’outlook economico. In sostanza, la banca centrale si trova costretta a navigare a vista a causa delle mosse imprevedibili della Casa Bianca. Questo contesto conflittuale (politica fiscale/protezionista vs. politica monetaria) accresce le tensioni tra Trump e la Fed, poiché ciascuno vede l’altro come potenzialmente responsabile di indebolire l’economia: Trump accusa la Fed di frenare la crescita mantenendo i tassi “troppo alti”, mentre la Fed vede nelle iniziative di Trump un fattore di destabilizzazione per prezzi e mercati (reuters.com e washingtonpost.com).
Tensioni sull’indipendenza della Fed
Alla base di questo scontro vi è anche una questione istituzionale cruciale: l’indipendenza della Federal Reserve. La Fed, per legge e tradizione, opera in modo autonomo dalla politica, prendendo decisioni tecniche sui tassi nell’interesse di stabilità economica di medio termine, senza perseguire obiettivi di parte. Trump però ha più volte segnalato di voler avere voce in capitolo sulle mosse della banca centrale. Durante la campagna elettorale 2024 dichiarò esplicitamente che, da presidente, avrebbe dovuto avere un “say” (una parola) sulla politica dei tassi. Una volta eletto, ha messo in pratica questa filosofia intervenendo a gamba tesa nel dibattito monetario. Powell, pur nominato da Trump nel 2017 alla guida della Fed, si è trovato nuovamente sotto il tiro presidenziale. Egli ha reagito difendendo l’autonomia dell’istituto: “La capacità della Fed di fissare i tassi senza interferenze politiche è necessaria per servire tutti gli americani, e dobbiamo tenerci del tutto fuori dalla politica”, ha affermato Powell, aggiungendo di confidare che il Congresso sostenga fermamente l’indipendenza della banca centrale (apnews.com). In altre parole, Powell ha voluto ribadire che la Fed risponde a un mandato di legge (piena occupazione e stabilità dei prezzi per il benessere generale) e non agli umori di una singola amministrazione o partito.
Trump, tuttavia, sembra intenzionato a mettere in discussione anche i vincoli istituzionali che proteggono la Fed. Non potendo rimuovere liberamente il presidente della Fed (il cui mandato di 4 anni – per statuto – è rinnovabile, ma può essere interrotto solo “per giusta causa”), l’amministrazione Trump ha intrapreso un’iniziativa legale senza precedenti: nell’aprile 2025 i legali della Casa Bianca hanno chiesto alla Corte Suprema degli Stati Uniti di riconoscere al Presidente il potere di licenziare i vertici di alcune agenzie federali indipendenti. Questo caso – che inizialmente riguarda due funzionari (uno dell’authority del lavoro NLRB e uno del Merit Systems Board) – potrebbe stabilire un precedente applicabile anche alla Fed, mettendo a rischio la posizione di Powell. Il 10 aprile il presidente della Corte Suprema John Roberts ha temporaneamente dato ragione a Trump su un aspetto procedurale, accettando di sospendere il reintegro dei due funzionari mentre la Corte esamina la questione. La Casa Bianca sostiene che “il presidente non dovrebbe essere costretto a delegare il proprio potere esecutivo a dirigenti che sono in palese contrasto con i suoi obiettivi di policy nemmeno per un giorno”. Si tratta di un chiaro riferimento anche a figure come Powell, che ai occhi di Trump starebbero ostacolando la sua agenda (in questo caso, non allentando il credito durante la sua ambiziosa – e rischiosa – politica commerciale). Questa escalation sul piano legale è sintomatica di quanto sia profondo lo strappo: la presidenza Trump sta mettendo in discussione l’architettura di indipendenza della Fed instaurata dopo il 1935 (business-standard.com), cosa che allarma molti osservatori finanziari e membri del Congresso di entrambi i partiti (apnews.com).
In sintesi, le tensioni tra Trump e la Federal Reserve nel 2025 sono reali e multiformi. Si manifestano in dichiarazioni pubbliche abrasive (Trump attacca Powell sui social, accusandolo di sabotare l’economia, mentre Powell risponde – più sobriamente – ricordando il mandato apolitico della Fed), in divergenze sostanziali di politica economica (stimolo aggressivo con tassi bassi e dazi vs. controllo dell’inflazione e stabilità di lungo termine), e perfino in bracci di ferro istituzionali (tentativi di intaccare l’indipendenza statutaria della banca centrale). I fronti di attrito principali riguardano i tassi di interesse (Trump li vorrebbe più bassi immediatamente, la Fed li mantiene fermi e prevede solo graduali tagli più avantifoxbusiness.com), l’inflazione (Trump la ritiene sotto controllo o transitoria, la Fed teme un rialzo dovuto ai dazi (aa.com.tr e reuters.com) e l’autonomia decisionale della Fed (Trump vorrebbe piegarla alle esigenze politiche del momento, la Fed rivendica la propria indipendenza costituzionale (apnews.com e business-standard.com). Gli sviluppi più recenti – dalle oscillazioni sui dazi alle inusuali istanze legali – confermano che lo scontro è in corso e destinato a proseguire, con possibili implicazioni importanti per l’economia americana e l’equilibrio dei poteri di governance economica. Le fonti giornalistiche ed analisti concordano nel ritenere che ci troviamo di fronte a un conflitto aperto: un presidente deciso a forzare la mano della banca centrale, e una Federal Reserve determinata a non farsi politicizzare (reuters.com e apnews.com).
Ma allora, se le cose stanno così e se è solo questione di conflittualità tra la politica di Trump e il contrasto che si limiterebbe a tenere alta o bassa l’inflazione e la stabilità, perché anche il presidente John F. Kennedy era in contrasto con la FED?
E qui viene il nodo cruciale:
il contrasto tra i presidenti americani e la Federal Reserve non nasce solo da divergenze tecniche su inflazione o tassi di interesse, ma riflette spesso una tensione più profonda: quella tra il potere democratico eletto e il potere tecnico-finanziario indipendente.
Nel caso di John F. Kennedy (JFK) lo scontro con la Federal Reserve ha radici più complesse e strutturali, che alcuni interpretano anche come un tentativo di sfidare il monopolio privato della creazione di moneta.
Il caso Kennedy: il famoso ordine esecutivo 11110 (1963)
Nel 1963, JFK firmò l’Executive Order 11110, che autorizzava il Tesoro degli Stati Uniti a emettere moneta direttamente, sotto forma di “United States Notes”, senza passare dalla Federal Reserve. L’ordine esecutivo aggiornava una legge già esistente del 1920 (Silver Purchase Act) e fu interpretato da alcuni come un primo passo per riportare sotto il controllo statale la creazione del denaro, limitando il potere della Fed, che è una banca centrale formalmente indipendente ma con struttura privata (le sue 12 banche regionali sono possedute da banche commerciali).
In circolazione vennero effettivamente messi alcuni biglietti da 2 e 5 dollari con la dicitura “United States Note”, non “Federal Reserve Note”.
Sebbene alcuni storici sostengano che l’ordine fosse più tecnico che rivoluzionario, nella visione di altri – soprattutto economisti eterodossi o critici del sistema bancario – questo gesto fu un attacco diretto al potere della Fed e dei grandi interessi bancari privati. Quest’ultima evidentemente è l’interpretrazione più corretta anche solo considerando la potenziale perdita di potere monetario e , quindi, politico finora gestito dalla FED. Chi ha il potere monetario, ha il potere politico, senza il potere di poter disporre della moneta , la politica viene di fatto sottomessa o condizionata dal potere monetario.
Nota: JFK era anche critico verso l’influenza del complesso militare-industriale e delle grandi lobbies economico-finanziarie, come dichiarò nel suo famoso discorso segreto del 27 aprile 1961 (“We are opposed around the world by a monolithic and ruthless conspiracy…”).
Cosa c’entra questo con Trump oggi?
Trump non ha mai proposto di togliere alla Fed il potere di emettere moneta (non è arrivato al livello di JFK), ma la natura del suo scontro è simile per certi versi:
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sfida l’indipendenza della Fed,
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critica i suoi orientamenti “controproducenti” per il popolo americano,
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e sospetta che le sue decisioni servano interessi elitari o globalisti piuttosto che quelli del cittadino medio.
In più, Trump – come Kennedy – è percepito (nel bene o nel male) come una figura “esterna” o “anti-sistema” rispetto all’establishment di Washington, e quindi tende ad entrare in rotta di collisione con le istituzioni indipendenti come la Fed, la CIA, o il Dipartimento di Stato.
In sintesi:
Il contrasto tra JFK e la Federal Reserve non fu solo una questione tecnica su inflazione o tassi, ma rifletteva una volontà di recuperare sovranità monetaria da parte dello Stato.
Il contrasto di Trump oggi ha toni diversi, ma ricalca lo stesso schema: un potere politico eletto che si scontra con un potere economico autonomo e tecnocratico, accusandolo (esplicitamente o implicitamente) di non servire il popolo, ma un’élite.
Fonti: Reuters, Washington Post, Fox Business, Associated Press e altri reuters.com washingtonpost.com foxbusiness.com apnews.com, che documentano le dichiarazioni e gli eventi citati.
Nota:
Nel prossimo articolo “Chi controlla il denaro controlla il Paese – Trump, Kennedy e Jackson contro la Banca Centrale” che pubblicherò domani, faremo un confronto dettagliato tra le posizioni di JFK, Trump e altri presidenti come Andrew Jackson, anche lui celebre per aver combattuto una “banca centrale” considerata ostile al popolo.
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