Il 1° giugno 2025 avrebbe potuto segnare un punto di svolta nei rapporti economici transatlantici. Donald Trump aveva annunciato l’intenzione di imporre una tariffa del 50% su tutti i prodotti importati dall’Unione Europea. Tuttavia, dopo una conversazione telefonica con la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, Trump ha deciso di posticipare l’entrata in vigore di tali dazi al 9 luglio 2025, concedendo così un’ulteriore finestra per le trattative.
Trump ha espresso apertamente la sua frustrazione: «I negoziati con l’UE non stanno portando da nessuna parte». Ha chiesto un accordo più rapido e ha specificato che i dazi non si applicheranno ai beni prodotti negli Stati Uniti, ribadendo un’impostazione protezionistica che privilegia il “Made in USA” e scoraggia le importazioni.
Due visioni inconciliabili
Il problema non è solo economico, ma soprattutto culturale e strutturale. Da un lato, Trump cerca un accordo semplice, rapido, redditizio, in cui possa rivendicare il successo mediatico con i toni trionfalistici tipici del suo stile: «HO APPENA CONCLUSO IL PIÙ GRANDE ACCORDO COMMERCIALE con l’UE! MIGLIAIA DI MILIARDI DI DOLLARI affluiranno agli Stati Uniti!»
Dall’altro lato, l’Unione Europea risponde con la sua tipica macchina negoziale: articolata, multilivello, formalmente impeccabile ma estremamente lenta. Qui nasce il vero scontro.
Dentro la macchina burocratica dell’UE
L’architettura decisionale europea, soprattutto in ambito economico e commerciale, è tra le più complesse al mondo. Ogni trattativa passa per un processo a più fasi che coinvolge:
- Commissione Europea, che conduce i negoziati,
- Consiglio dell’UE, che dà il mandato e supervisiona,
- Parlamento Europeo, che esprime il proprio parere,
- e talvolta anche i parlamenti nazionali per la ratifica finale.
In parallelo, si svolgono consultazioni con le parti sociali, analisi settoriali, verifiche legali, valutazioni d’impatto e redazione di documenti tecnici. Ogni parola, ogni clausola viene pesata, discussa e rimodulata per mesi — o persino anni. L’accordo commerciale con il Mercosur, per esempio, è stato negoziato per oltre vent’anni.
Il risultato di questa macchina formale e iper-tecnicizzata? Migliaia di pagine di testi giuridici, talvolta incomprensibili persino agli addetti ai lavori, e una lentezza che mal si concilia con il pragmatismo aggressivo dell’amministrazione Trump.
Il vero errore europeo
Bruxelles sembra ancora convinta che gli Stati Uniti cerchino una cooperazione fondata sulla reciprocità, sul libero scambio equilibrato e sull’integrazione delle filiere globali. Ma l’approccio di Trump è un altro: vuole vincere, non negoziare. Gli interessa portare a casa un risultato immediato da comunicare al suo elettorato, non costruire un trattato multilivello tra attori simmetrici.
Non sorprende, dunque, che Washington chieda condizioni difficili da accettare: meno dazi in cambio di investimenti in USA, apertura dei mercati europei alla produzione americana, e sacrificio di interi settori industriali nazionali a favore di aziende statunitensi. Il tutto in un clima di ricatto commerciale mascherato da “amicizia” transatlantica.
Conclusione: tra due mondi inconciliabili
Il confronto tra Trump e l’UE va ben oltre i dazi. È lo scontro tra due visioni del mondo: una rapida, unilaterale, orientata al guadagno immediato; l’altra multilaterale, regolata, ma spesso impantanata nella propria rigidità procedurale. L’Europa paga la sua lentezza decisionale, mentre gli Stati Uniti sfruttano la velocità come arma geopolitica.
In questa tensione strutturale, si gioca il futuro della cooperazione euro-americana: non tanto sulla carta dei trattati, ma sulla capacità — o meno — di capirsi reciprocamente. E forse, in questo momento, parlare la stessa lingua sembra impossibile.
correlati:
Trump riuscirà a riportare l’industrializzazione negli Stati Uniti?
Guerra in Ucraina: le vere cause e l’espansione della NATO a Est