Sussidiarietà tradita: il principio elogiato da Mattarella e la realtà dell’accentramento europeo

Il 4 aprile il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha ricevuto al Quirinale la delegazione della Fondazione per la Sussidiarietà, e, nel suo discorso ha riconosciuto il valore della SUSSIDIARIETA’ sottolineandone il radicamento costituzionale. La sussidiarietà – ha affermato – è garanzia di libertà, espressione della solidarietà e cardine del rapporto tra istituzioni e società. Parole nobili, che riecheggiano l’impianto culturale e valoriale della Dottrina Sociale della Chiesa e la visione promossa da realtà come Comunione e Liberazione (CL) e Compagnia delle Opere (CdO).

Ma in un’epoca in cui l’architettura politico-istituzionale si muove a velocità crescente verso l’accentramento e l’uniformazione sovranazionale – in particolare nell’ambito dell’Unione Europea – l’enfasi istituzionale sul principio di sussidiarietà appare sorprendente. O meglio, suona come una celebrazione retorica, una formula evocata ma non applicata. Perché, nei fatti, l’Italia si muove sempre più in direzione opposta: verso la marginalizzazione delle autonomie, l’omologazione culturale, e il controllo centralizzato in nome di agende globali che raramente fanno i conti con la specificità dei popoli e delle loro tradizioni.

Una visione antropologica e comunitaria

Il principio di sussidiarietà – nella sua accezione autentica – non nasce in ambito tecnico-amministrativo, ma da una precisa visione dell’uomo. Così come proposto da CL e CdO, esso affonda le radici nella Dottrina Sociale della Chiesa, e in particolare nell’enciclica Quadragesimo Anno di Pio XI (1931), dove si afferma con chiarezza che “non si deve togliere agli individui e attribuire alla comunità ciò che essi possono fare con le proprie forze e con l’iniziativa personale”.

La sussidiarietà, quindi, non è solo un criterio di organizzazione dello Stato, ma un’espressione della dignità e della libertà della persona. È la possibilità concreta per famiglie, scuole, associazioni, imprese e corpi intermedi di contribuire attivamente al bene comune senza essere schiacciati da un potere centrale che si arroga il diritto di decidere tutto per tutti.

La Compagnia delle Opere, fondata nel 1986, ha incarnato questo spirito con il motto “più società, meno Stato”, promuovendo iniziative educative, imprenditoriali e sociali capaci di rispondere ai bisogni reali. Lungi dall’essere espressione di assistenzialismo, queste opere si fondano sulla responsabilità e sull’iniziativa personale, e mostrano che la società civile può essere protagonista, se libera di agire.

La visione di Vittadini: sussidiarietà come libertà concreta

Su questa scia si muove anche la Fondazione per la Sussidiarietà, nata nel 2002 su iniziativa di Giorgio Vittadini. Per lui, la sussidiarietà è “un altro nome della libertà”: non una formula astratta, ma la possibilità per ogni persona di costruire relazioni, progetti, istituzioni a partire da un desiderio di bene per sé e per gli altri. Ed è proprio questa visione, ricca di esperienza e concretezza, a entrare in tensione con il modo in cui il principio viene oggi utilizzato (o meglio: neutralizzato) dalle istituzioni.

Nel discorso di Mattarella si percepisce infatti una visione positiva, ma al contempo ambigua. La sussidiarietà viene sì esaltata come legame tra Stato e società, ma sempre più confinata al ruolo di supplenza umanitaria: laddove lo Stato non arriva, la società civile può intervenire – purché non disturbi gli equilibri, né si addentri in campi “sensibili” come educazione, economia, cultura.

L’ambiguità del principio in tempo di centralismo europeo

Ed è qui che emerge il paradosso. Mai come oggi si celebra il principio della sussidiarietà, e mai come oggi si assiste alla sua sistematica neutralizzazione. L’Unione Europea, che pure lo proclama come uno dei fondamenti teorici del proprio ordinamento (art. 5 del Trattato sull’Unione), nei fatti lo svuota quotidianamente con regolamenti, raccomandazioni e linee guida che invadono ambiti un tempo riservati all’autonomia dei singoli Stati e delle comunità locali.

Il caso dell’educazione è emblematico. A partire dalle direttive europee sull’inclusione e sulla parità di genere, fino all’attuazione obbligatoria dei punti dell’Agenda 2030, molte scuole italiane – comprese le paritarie cattoliche vicine a CL – si trovano costrette a recepire contenuti e approcci pedagogici non condivisi dalle famiglie e spesso in contrasto con la loro identità culturale e religiosa. Il principio di sussidiarietà, che dovrebbe garantire l’autonomia e il pluralismo educativo, resta sulla carta. L’autonomia scolastica si riduce a mera esecuzione tecnica di indicazioni esterne, mentre lo Stato si trasforma in un tramite passivo delle volontà sovranazionali.

Tra i documenti rilevanti si segnala il Framework for European Cooperation in Education and Training (ET 2020 e il successivo ET 2030), che orienta l’intera strategia educativa europea, promuovendo una “educazione inclusiva, equa e di qualità” in linea con l’Obiettivo 4 dell’Agenda 2030, e imponendo standard uniformi che rischiano di marginalizzare approcci formativi alternativi fondati su visioni antropologiche diverse da quella tecnocratica.

Ma non è solo una questione di contenuti. È il metodo a essere radicalmente snaturato: la libertà di educare, di interpretare la realtà, di proporre una visione alternativa, viene subordinata a una tecnocrazia normativa sempre più pervasiva, fondata su una presunta neutralità razionale che cancella ogni specificità.

Questo stesso meccanismo di svuotamento si ripete in altri ambiti chiave: sanitario, ambientale, produttivo, informativo, dove in nome di obiettivi dichiarati universali si erodono progressivamente le libertà locali, riducendo lo spazio di manovra delle istituzioni democratiche nazionali e delle iniziative della società civile.

Un capitolo particolarmente rilevante è rappresentato dalle politiche migratorie, anch’esse integrate in una visione “globalista” promossa dall’UE e da organismi sovranazionali, fondata sul principio della libera circolazione delle persone come fattore neutro di crescita. In realtà, l’accoglienza di flussi migratori non governati – giustificata da esigenze demografiche o da presunti doveri umanitari – ha avuto, in numerosi casi, l’effetto di abbassare il costo del lavoro, precarizzare il mercato occupazionale e introdurre nuove tensioni sul piano sociale e della sicurezza. Si tratta, ancora una volta, di una strategia tecnocratica mascherata da “solidarietà”, che di fatto scarica sui territori e sulle comunità locali la gestione di problemi complessi generati da decisioni calate dall’alto.

Le linee guida europee sulla mobilità globale e sull’integrazione interculturale non tengono conto delle reali capacità di assorbimento sociale ed economico dei territori, né delle esigenze identitarie delle comunità, compromettendo la coesione e alimentando un senso diffuso di disorientamento e insicurezza. In tale scenario, il principio di sussidiarietà viene completamente eluso: i cittadini, i comuni, le associazioni, vengono esclusi dai processi decisionali e poi lasciati soli a fronteggiare le conseguenze.

Siamo così di fronte a una vera e propria “sussidiarietà rovesciata”, dove la società civile non è protagonista, ma semplicemente chiamata a tamponare i danni di un’agenda ideologica ed economica che risponde a logiche estranee al bene comune. È la visione tecnocratica che, in nome di una governance globale, finisce per comprimere le libertà locali e svuotare la democrazia dal basso, in nome di una visione dell’Europa come spazio unico e uniforme, dal quale le differenze culturali, religiose, educative e produttive devono progressivamente scomparire.

Le omissioni del discorso di Mattarella

In questo contesto, alcune omissioni nel discorso presidenziale appaiono non casuali:

  1. Silenzio sulle pressioni sovranazionali: Mattarella non menziona l’influenza crescente delle istituzioni europee sull’educazione e sull’organizzazione sociale italiana, tema cruciale per chi difende la sussidiarietà come libertà dal basso.

  2. Assenza di una critica all’omologazione culturale: mentre si parla di “comunità larghe e aperte”, non si affronta il rischio di appiattimento identitario derivante da un modello unico, imposto da Bruxelles, che spesso contrasta con la tradizione cristiana e culturale dei popoli europei.

  3. Nessun accenno al conflitto tra autonomia e regolamentazione UE: il principio della sussidiarietà viene evocato senza chiarire come possa conciliarsi con l’attuale impianto giuridico europeo, che tende a comprimere le libertà locali in nome dell’uniformità normativa.

  4. Libertà educativa solo evocata: non si affronta il concreto rischio che l’educazione venga ridotta a veicolo di ideologia, anziché restare un ambito affidato alla responsabilità delle famiglie e delle comunità.

  5. Globalizzazione vista solo in positivo: si parla di un “noi” inclusivo, ma non si problematizza l’effetto che l’integrazione economica e culturale può avere sulla tenuta delle identità locali.

Recuperare la sussidiarietà reale

La sussidiarietà vera – quella di CL e CdO – non è compatibile con uno Stato che si fa intermediario tra il cittadino e Bruxelles. Non è compatibile con un’educazione pilotata da agende ideologiche. Non è compatibile con una cultura politica che considera la società civile utile solo quando non disturba.

Per questo, oggi più che mai, è urgente riscoprire e rilanciare la sussidiarietà nella sua forma integrale. Essa non è un favore concesso dall’alto, ma un diritto naturale alla libertà e alla responsabilità. È l’opposto dell’uniformazione, è la valorizzazione delle differenze. È la condizione per cui la società non si limiti a reagire, ma costruisca.

Il paradosso è che questo principio – nato per difendere i piccoli contro i grandi, le comunità contro l’apparato – viene oggi evocato da chi, nei fatti, alimenta la concentrazione del potere. È tempo, allora, di smascherare le contraddizioni, e di ripartire da ciò che la sussidiarietà realmente è: uno strumento per ridare dignità ai popoli, spazio alla libertà, voce alle realtà vive che ancora abitano il nostro Paese.