Sulla pace tradita e sulla responsabilità spirituale dell’Europa

Discussioni ‘alte’, risultati bassi

Vedo con amarezza che, nei luoghi più alti del potere, si moltiplicano discussioni proclamate con enfasi come serie, responsabili, persino raffinate e, soprattutto, giuste. Dibattiti sulla guerra russo-ucraina, sul riarmo, sulla sicurezza dell’Europa, che si presentano sempre come detentori della verità, senza mai tentare una reale comprensione delle ragioni dell’altro. Mai.

Eppure, per quanto vengano diffuse come autorevoli e indiscutibili, queste discussioni risultano banali. Non perché io la pensi diversamente, ma perché sono umanamente prive di respiro, incapaci di quella sapienza semplice e profonda che sola permette di cogliere ciò che davvero conta nel tempo presente.

Questa incapacità – o forse questo cinismo – questa mancanza di equilibrio, o meglio ancora di un centro di gravità permanente, come direbbe Franco Battiato ne La voce del padrone, si manifesta inevitabilmente nei frutti che genera. E i frutti sono lì, davanti a noi: distopici, visibili nell’ansia e nell’angoscia che abitano sempre più volti e cuori.

Un’occasione rifiutata

Mentre è evidente che la scelta più giusta, la più conforme alla verità dell’uomo e alla vocazione dell’Europa, sarebbe stata integrare la Russia nello spazio comune della difesa e della cooperazione europea. Non come gesto politico contingente, ma come atto di giustizia e di riconoscimento reciproco.

La Russia non è un corpo estraneo all’Europa: essa è parte della stessa linfa storica e spirituale. Come l’Ungheria, la Romania, la Serbia o la Bulgaria, appartiene a quello spazio eurasiatico dove la fede cristiana ha messo radici profonde. Escluderla, demonizzarla, relegarla a un oriente barbaro, è mutilare l’identità del continente e spezzare l’unità che da secoli si cerca di costruire — non con le armi, ma col sangue dei martiri, la sapienza dei santi e la fatica dei giusti.

Riarmo e disorientamento spirituale

Non c’è pace dove si prepara la guerra. Il riarmo, in questo momento, è non solo imprudente, ma profondamente immorale. È più pericoloso armare le mani di uomini confusi che lasciarle vuote.

Perché quando il cuore è colmo di rabbia e il linguaggio si fa aggressivo, l’arma non difende: distrugge.

Un popolo privo di guida spirituale, governato da élite che rifiutano la diplomazia e si nutrono di ostilità ideologica, non può che correre verso il disastro. Se un uomo in collera impugna un’arma, la tragedia è già in atto.

Sento, con amarezza, che il nostro popolo — un tempo fiero e radicato nella fede — ha ceduto al sonno della coscienza.

La prova del COVID, più che sanitaria, è stata spirituale: ha mostrato come l’Italia, un tempo culla del sacro, abbia smarrito il timore di Dio e la consapevolezza del Mistero. I segni sono stati ignorati, la parola è stata svuotata, il legame con la presenza viva di Cristo è stato dimenticato.

Il realismo come adesione alla realtà

Realismo non è calcolo, ma adesione alla realtà tutta intera: visibile e invisibile. È curare la coscienza, nutrire la speranza, custodire il rapporto con il senso del Mistero nel quotidiano. La storia non si cambia con le strategie, ma con la conversione del cuore.

Si parla spesso di occasione perduta, ma è più giusto parlare di occasione rifiutata.

Già dal 1994 l’allargamento della NATO procede come un disegno deliberato, non come conseguenza inevitabile. Chi poteva scegliere di costruire collaborazione, ha scelto di costruire barriere. Questa è la distorsione originaria: una visione del mondo che percepisce l’altro come minaccia invece che come sfida con cui si misura la propria forza, la propria comprensione della realtà tutta intera.

La pace come rispetto e conoscenza

La sapienza antica, che nella filosofia anche i pagani conoscevano, insegna che la pace si coltiva nei rapporti buoni, nel rispetto, nello scambio di beni, nella conoscenza reciproca. Trump, in modo forse imperfetto ma intuitivo, ha accennato a una via fondata sull’interesse reciproco (anche se circoscritto soprattutto alla dimensione mercantilistica). Ma almeno fa cosa gli conviene , mentre la vecchia Europa dimostra di non sapere neanche quello.

L’ambiguità del potere

A tema, non posso non rilevare, con preoccupazione, l’ambiguità del nostro governo. La presidente Meloni si è spinta a evocare l’articolo 5 per l’Ucraina anche al di fuori dei vincoli formali della NATO: un atto che confonde le acque e contraddice la prudenza cristiana. Non si possono indossare più maschere: “Sia il vostro parlare: sì, sì; no, no” (Mt 5,37). Stare con i piedi in troppe scarpe non è cristiano, e quindi non è realistico.

La parola come fondamento di civiltà

Il cambiamento autentico comincia da qui: dal ridare dignità alla Parola.

La parola, quando è incarnata e nutrita dalla Verità, cambia il mondo. La parola è seme, è gesto, è vita. Senza di essa, anche la politica diventa rumore.

La parola non è un semplice suono o strumento di comunicazione: è atto di verità, è gesto spirituale, è responsabilità.

Quando la parola decade, la realtà si disgrega. Quando la parola perde le sue radici nel bene e nel vero, diventa menzogna, propaganda, vuoto. E un popolo nutrito di parole vuote diventa cinico, disilluso, manipolabile.

San Basilio ammoniva: “Non c’è nulla di più distruttivo della menzogna pronunciata con autorità”. La parola detta senza cuore, senza riferimento al Logos divino, è parola sterile, e spesso parola violenta.

Al contrario, quando la parola nasce dalla verità, anche se semplice, essa genera il nuovo. È come un seme che cade nel terreno e, nel silenzio, dà frutto. Il Vangelo è tutto incentrato sul potere della parola: il Cristo stesso guarisce, libera, perdona… con una Parola. Per questo san Gregorio Nazianzeno insegnava: “Parla solo se le tue parole sono più forti del silenzio”. Non c’è niente di più rivoluzionario della parola vera.

Verità e rinascita

Il dire la verità — il “pane al pane e il vino al vino” — è atto spirituale. È riconoscere che la realtà è buona, anche se ferita, e che la verità è una via che conduce alla vita. Quando si comincia a chiamare le cose col loro nome, si rinasce. È allora che inizia il cambiamento: non perché lo si impone, ma perché lo si testimonia.

Oggi, più che mai, la missione cristiana è ridare significato alle parole: giustizia, pace, verità, amore, libertà. Risanarle, purificarle, restituirle alla loro origine. E ciò è possibile solo se le parole sono connesse al Mistero, cioè a quella Presenza che ci precede, ci abita, e ci attende.

«Il Verbo si è fatto carne» — afferma san Giovanni — non per abbellire il mondo con un’idea, ma per redimerlo con una presenza viva. Sant’Ireneo diceva che «la gloria di Dio è l’uomo vivente, e la vita dell’uomo è la visione di Dio». Ma vedere Dio significa essere trasformati, riscoprire e riaprire ogni cosa alla luce di quella visione: non in modo semplicemente “più religioso”, ma più autentico, più vero. Eppure, su questo punto, ampi settori della Chiesa oggi sembrano smarrirsi. Non solo appaiono distratti rispetto a tale Presenza, ma spesso adottano lo stesso armamentario ideologico del mondialismo e del globalismo — visioni care a quel potere che, nella sua componente più distruttiva, sogna ancora un “nuovo ordine mondiale”.

Una logica alternativa

Forse, in un’epoca in cui si lavora perchè le parole perdano concretezza, i vertici politici sono sordi e i poteri utilizzano un linguaggio ambiguo e manipolatorio, la vera alternativa consiste nel recuperare una diversa logica di civiltà. È quanto accadde storicamente durante quei secoli confusi che seguirono il crollo dell’Impero romano: non furono le grandi strategie politiche o militari a risollevare l’Europa, bensì l’opera paziente e concreta di uomini come Benedetto da Norcia. Essi risposero al caos generale ricostruendo dalle fondamenta, insegnando di nuovo mestieri dimenticati, trascrivendo manoscritti che salvarono le conoscenze classiche e scientifiche dell’antichità, e ricreando luoghi in cui le parole recuperassero un significato autentico, radicato nella realtà quotidiana.

Ripartire dalla parola

Oggi, come allora, il punto centrale è proprio questo: riscoprire la necessità di chiamare ogni cosa col proprio nome, con una parola che sia di nuovo chiara, vera, libera da ideologie e propaganda. Ma tale recupero richiede uno sforzo personale di giudizio, di coscienza e di educazione, che deve partire dalla base: dalla capacità di leggere nuovamente buoni libri, di reimparare a comprendere il teatro, la musica, i classici e tutto ciò che ha formato storicamente la nostra identità comune.

Non si tratta dunque di una fuga spiritualistica dal mondo, ma di una scelta civile e culturale fondata sulla consapevolezza che una società può rigenerarsi soltanto a partire da piccoli nuclei di cultura viva e di parola autentica. La lezione benedettina, presa sul serio in questo senso storico e laico, indica oggi una strada possibile: discreta, concreta, paziente, radicalmente alternativa rispetto al clamore vuoto dei media e alle logiche aggressive degli apparati politici e militari.

Questo cammino, però, non è affatto scontato né semplice. Apparentemente su simili temi tutti potrebbero dichiararsi d’accordo, ma quando si passa ai giudizi concreti sulla realtà, soprattutto su questioni cruciali che toccano la nostra vita comune, emergono visioni spesso conformi alla logica dominante. Proprio per questo il lavoro da compiere è immenso, e consiste innanzitutto in un serio sforzo di comprensione e di giudizio personale, educativo e culturale. Probabilmente solo a questo livello profondo e concreto la parola “unità” può assumere un senso reale, perché altrimenti l’unità è solo sulle cose religiose,ma NON unità visibile in un modo comune di vedere, giudicare e agire nella realtà.

La parola come atto politico

Perciò non solo recuperare il significato autentico delle parole, ma soprattutto usarle in modo autentico è essenziale. Il valore esistenziale e culturale che esse custodiscono non è solo un atto morale, ma anche un atto politico nel senso più alto e autentico: significa esistere e sapere a chi si appartiene , ma significa anche ricominciare dal proprio io in rapporto con la realtà, segno del Mistero, significa cominciare con un compito soprattutto di comprensione. Significa gettare le basi per una rinnovata civiltà in mezzo alle rovine del nostro tempo.

Credetemi, su una cosa non ho dubbi: non possiamo continuare a usare le parole in modo ozioso, menzognero, infedele alla realtà — soprattutto quando parliamo di qualcosa di essenziale come il tempo. Ogni strategia che mette da parte la verità è destinata al fallimento: non genererà mai un bene reale.

Comprendere e amare l’altro è tutt’altro. È, anzi, l’opposto dell’abuso delle parole, delle formule ambigue come “pace giusta” e di tutte le banalità che le accompagnano. L’unica cosa che conta davvero è la vita dell’uomo, senza “se” e senza “ma”. Perché non può esserci amore autentico, né comprensione vera, senza perdono e senza uno sguardo su di sé segnato dall’umiltà.