L’ascesa di Jolani e la svolta della politica americana
Fino a pochi mesi fa, Abū Muḥammad al‑Jolānī — oggi noto con il nome civile di Ahmed al‑Sharā‘a — figurava nelle liste nere degli Stati Uniti come terrorista di alto profilo, con una taglia da 10 milioni di dollari sulla testa. Leader di Hayat Tahrir al‑Sham ed ex affiliato di Al‑Qaeda, era considerato uno dei principali ostacoli alla stabilità siriana e una minaccia diretta agli interessi occidentali nella regione.
Poi, all’improvviso, il copione è cambiato. Jolani ha adottato abiti occidentali, un linguaggio moderato e una narrazione conciliante. È comparso in interviste esclusive con PBS, ha rilasciato dichiarazioni in cui si diceva “pentito del passato” e pronto a guidare la Siria verso una nuova fase di pace. Pochi giorni dopo, è stato ricevuto da Emmanuel Macron all’Eliseo, quindi incontrato da Donald Trump a Riyadh come se fosse un leader di Stato legittimo. Parallelamente, l’Office of Foreign Assets Control (OFAC) ha rilasciato licenze speciali per operazioni economiche, autorizzando investimenti nel nord-ovest della Siria — proprio nelle aree controllate dal suo governo.
Il 13 maggio 2025, Trump ha ufficializzato la decisione: “le sanzioni contro la Siria saranno sospese per dare al Paese ‘una chance di grandezza’” (New York Post).
Il Dipartimento del Tesoro USA ha quindi emesso autorizzazioni per transazioni con il governo provvisorio.
Già il 6 maggio, Macron aveva accolto Sharā‘a come primo leader siriano riconosciuto formalmente da un Paese europeo, aprendo la strada alla sua piena riabilitazione internazionale (Reuters).
La lezione è amara ma ormai nota: non è la natura dei crimini a determinare la legittimità internazionale, ma la funzionalità geopolitica. Chi si oppone all’agenda occidentale è “terrorista”; chi si adegua, può essere accolto tra i “nuovi moderati”, a prescindere dal proprio passato.
Questa non è una svista diplomatica, ma una strategia sistemica. Jolani non ha cambiato sostanza, ma solo immagine e linguaggio. Ha capito che, per essere accettato, bastava indossare un abito su misura per le cancellerie occidentali e presentarsi come “uomo del dialogo”. E così, il leader di un gruppo responsabile di esecuzioni pubbliche, persecuzioni settarie e violenze indiscriminate è oggi trattato come interlocutore credibile e persino sostenuto.
In questo schema, la “lotta al terrorismo” si rivela un pretesto per ridisegnare alleanze, non un principio etico. I foreign fighters di Hayat Tahrir al‑Sham, che avrebbero dovuto essere processati o estradati, vengono riciclati nei ranghi del nuovo apparato di governo. Alcuni sono persino confluiti nelle Forze Democratiche Siriane (SDF), sostenute fino a ieri dagli USA per combattere l’ISIS, oggi alleate tattiche del governo di Idlib in una pericolosa operazione di ibridazione jihadista.
In definitiva, l’ascesa di Jolani racconta una verità scomoda e disarmante: la legittimità, in politica internazionale, non si guadagna con la giustizia, ma si conquista con l’opportunismo. E la Siria, ancora una volta, ne paga il prezzo.
Sanzioni e violenza in Siria
Le sanzioni occidentali fino al momento dell’avvento del nuovo governo siriano sono gravate soprattutto sui civili: carenza di farmaci, cibo, servizi essenziali. Ma poi sono state sospese. Per quale merito? Sotto al‑Sharā‘a, abbiamo assistito a esecuzioni sommarie, torture, repressione dei giornalisti, arresto di giudi ed avvocati (Damasco) e violenze settarie persistenti.
Documentazioni ufficiali, video e raccolte testimonianze dipingono uno scenario sconcertante:
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Video mostrano i miliziani che costituiscono oggi il nuovo esercito siriano sparare in aria per terrorizzare la popolazione, posti di blocco interratori alla gente per appurare l’appartenenza religiosa, seguite da esecuzioni in strada .
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Migliaia di alawiti uccisi o sfrattati (vedi video: How Syria’s New Regime Orchestrated The Massacre of Alawites ): case occupate da famiglie provenienti da Raqqa (wikipedia.org).
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Gruppi armati legati al nuovo governo sono stati riconosciuti come responsabili dei massacri di drusi nel sud, con sconvolgenti testimonianze locali .
A seguito di questa situazione il governo ha dichiarato l’avvio di un’inchiesta parlamentare sui massacri di marzo ma poi ha diluito le responsabilità reali.
Questa “revoca sanzioni + indagine post‑eventi”, avvengono mentre la violenza settaria continua contro alawiti, drusi, e altre minoranze, appare come ricompensa politica più che riforma reale.
Perché la revoca delle sanzioni? Le vere logiche dietro l’inversione occidentale
La decisione di revocare le sanzioni alla Siria non è nata da un improvviso moto di compassione verso la popolazione martoriata da oltre un decennio di guerra. Al contrario, è il risultato di una serie di calcoli geopolitici cinici, in cui diritti umani e riconciliazione nazionale sono usati come facciata per interessi economici, strategici e di controllo regionale. Dietro la narrazione ufficiale, tre fattori principali hanno guidato la svolta occidentale.
Uno degli attori chiave in questa operazione di “normalizzazione” è la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan, che da tempo aspira a ritagliarsi un ruolo di potenza regionale attraverso l’uso strategico della crisi siriana. Da anni Ankara finanzia, addestra e arma milizie attive nel nord della Siria, molte delle quali ora confluite nel blocco guidato da Jolani.
La Turchia vede nel nuovo assetto siriano un’occasione irripetibile per ottenere vantaggi su più fronti: apertura commerciale, controllo territoriale de facto attraverso zone di influenza e soprattutto il rimpatrio selettivo di profughi siriani sunniti, usati anche come leva interna. Non è un caso che, prima dell’annuncio di Trump sulla revoca delle sanzioni, Ankara abbia ospitato colloqui riservati tra emissari americani e rappresentanti del governo di Idlib. Il placet turco è stato decisivo, e in cambio Ankara ottiene riconoscimento per la sua funzione di “ponte” tra NATO, mondo arabo e Islam politico.
Un altro tassello chiave, emerso da fonti regionali riportate da The Cradle e Al Akhbar, è la disponibilità del nuovo governo siriano — o almeno di parte di esso — a prendere in considerazione la normalizzazione delle relazioni con Israele, sulla scia degli Accordi di Abramo. In un contesto dove la Siria è ancora ufficialmente in guerra con lo Stato ebraico, tale apertura rappresenta una rivoluzione diplomatica artificiosa ma funzionale, gradita tanto a Washington quanto a Tel Aviv.
La retorica della “Siria post-Assad pronta alla pace” diventa così uno strumento per riprendere il controllo del quadrante siro-libanese, contenere l’influenza iraniana e, al contempo, smantellare la narrazione secondo cui l’Asse della Resistenza avrebbe ancora coesione. In realtà, più che pace, si tratta di una resa condizionata: l’ingresso nei giochi occidentali in cambio del via libera a un potere locale eterodiretto e tollerato da Israele.
Infine, il successo della virata occidentale sarebbe stato impossibile senza un’intensa campagna di rebranding mediatico. A partire dal 2021, media anglosassoni come PBS, The Independent, Financial Times, The Guardian e altri hanno avviato un lento ma costante processo di “umanizzazione” di Abu Muhammad al-Jolani. Interviste in abiti civili, risposte misurate, promesse di lotta all’estremismo: tutto calibrato per rendere accettabile il jihadista convertito in leader moderato.
Il Financial Times, in particolare, ha dato spazio a ricostruzioni parziali e rassicuranti, presentando Jolani come “pragmatico”, “governativo”, “alleato potenziale”. Nessuna menzione delle esecuzioni pubbliche, della persecuzione delle minoranze, del passato jihadista: solo una nuova narrazione utile a giustificare agli occhi dell’opinione pubblica e delle cancellerie europee un’alleanza d’interesse fondata sull’amnesia e sull’opportunismo.
In sintesi, la revoca delle sanzioni non è il frutto di un’evoluzione democratica siriana, ma il risultato di una manipolazione strategica che vede l’Occidente, la Turchia e Israele come beneficiari diretti. E mentre le vittime del conflitto continuano a soffrire, i nuovi equilibri si fondano ancora una volta sulla distruzione controllata, sull’informazione pilotata e sulla selettiva amnesia politica.
Le implicazioni della revoca delle sanzioni e del ritiro USA: verso una Siria frammentata e destabilizzata
La decisione degli Stati Uniti di revocare le sanzioni alla Siria, seguita dall’annuncio di un progressivo disimpegno militare dal nord-est del paese, ha aperto la strada a un nuovo equilibrio regionale tutt’altro che stabile. A beneficiarne sono principalmente la Turchia, i paesi del Golfo e Israele, che ora possono estendere la propria influenza su una Siria ancora frammentata, senza più il vincolo della presenza militare americana come fattore di contenimento o deterrenza.
Le Forze Democratiche Siriane (SDF), alleate di lungo corso degli USA nella lotta contro lo Stato Islamico, si trovano ora in una posizione precaria e strategicamente ambigua. Private del sostegno diretto statunitense, diventano oggetto di pressioni incrociate: da un lato la Turchia, che le considera una minaccia per via del legame con il PKK; dall’altro, le manovre del nuovo governo guidato da al‑Sharā‘a, interessato a cooptare o neutralizzare le loro forze. Nonostante le dichiarazioni ufficiali di Washington, che parlano di un “ritiro responsabile”, il vuoto lasciato è già colmato da potenze regionali con agende conflittuali, che usano le SDF come pedina tattica più che come alleato strategico.
Le “porte girevoli” del jihadismo: infiltrazioni sotto mentite spoglie
Numerose indagini indipendenti e testimonianze sul campo indicano che molti combattenti ex-ISIS sono stati reintegrati nel tessuto militare e amministrativo delle SDF, approfittando della confusione, delle alleanze mutevoli e della mancanza di reali meccanismi di verifica. Il fenomeno, noto come “door revolving”, è stato documentato già a partire dal 2018, con ex miliziani che, catturati o “pentiti”, sono stati riabilitati e assorbiti in reparti di sicurezza o milizie locali. In diversi casi, questi individui hanno mantenuto contatti con le reti jihadiste o sono tornati ad agire in clandestinità, talvolta con il tacito consenso delle autorità militari locali interessate a rafforzare le proprie truppe con combattenti esperti.
In questo contesto, l’accordo triangolare mediato dagli Stati Uniti tra le SDF e il governo di al‑Sharā‘a appare come un tentativo disperato di creare un’illusione di stabilità. Ufficialmente, l’obiettivo sarebbe quello di garantire una transizione ordinata e la protezione delle minoranze nel nord della Siria. In realtà, l’assenza di un meccanismo indipendente di controllo sui soggetti coinvolti rende questo accordo estremamente fragile e facilmente manipolabile. La cooptazione degli ex jihadisti, travestiti da “unità di sicurezza” o “autorità locali”, preannuncia la possibilità concreta che elementi radicali entrino nel nuovo apparato statale siriano, nonostante il maquillage diplomatico che cerca di presentarlo come “pluralista” e “inclusivo”.
La narrativa della “lotta all’ISIS”, utilizzata per anni per giustificare la presenza militare e le ingerenze occidentali in Siria, si dimostra oggi un puro strumento propagandistico. Mentre si parla di “pace” e “ricostruzione”, le stesse reti che hanno sostenuto il jihadismo nei primi anni del conflitto vengono ora riciclate nei nuovi assetti di potere, a dimostrazione di quanto poco contino coerenza e verità nelle strategie occidentali. In definitiva, la Siria rischia di essere consegnata a un ibrido tra autoritarismo, settarismo e opportunismo geopolitico, che riproduce – con nuovi volti – la stessa logica di destabilizzazione permanente.
Dubbi sulla “lotta ai foreign fighters”: propaganda, cooptazione e amnesie geopolitiche
La retorica di Washington, incarnata dalle parole del Segretario di Stato Marco Rubio, fissa come condizione l’espulsione di tutti i combattenti stranieri per il riconoscimento politico e l’allentamento delle sanzioni. Ma dietro questa narrativa c’è una realtà molto diversa: una cooptazione sistematica e ben orchestrata che mina alla radice le politiche anti-terrorismo proclamate.
Contrariamente a qualsiasi ipotesi di espulsione, Ahmed al‑Sharā‘a (Jolani) non solo non ha mai messo in discussione il contributo dei foreign fighters di HTS, ma li ha di fatto ambientati nei ranghi istituzionali. Un recente articolo del Washington Post racconta che “Molti di questi combattenti, provenienti dall’Europa, dall’Asia centrale e da oltreoceano, rimangono in Siria, e alcuni di loro sono stati addirittura nominati a posizioni di rilievo nel governo di Sharaa.” (washingtonpost.com). Un’integrazione paradossale che ha trasformato elementi jihadisti in funzionari o militari ufficiali.
Il conflitto tra Iran e Israele, dirompente proprio in questi giorni, ha avuto l’effetto di far scomparire il dibattito sui foreign fighters. A poche settimane dall’adozione dell’accordo di riconciliazione, l’attenzione internazionale si è spostata sulla possibile escalation regionale, lasciando Jaloni libero di rafforzare la presenza straniera sotto le sembianze di “participant validation”. Il risultato è una normalizzazione artatamente costruita, dove la retorica di libertà e riforma maschera una strategia di consolidamento jihadista.
Ma il fenomeno trascende Idlib: anche nelle SDF (Forze Democratiche Siriane) emergono segnali inquietanti. Diversi militanti stranieri, ex ISIS o affiliati ad altri gruppi jihadisti, sono stati integrati tramite meccanismi di “pentimento” o programmi tribali. In mancanza di trasparenza, questi soggetti non sono confinati, ma presenti nei ranghi militari e di sicurezza, a testimonianza di un’infiltrazione strutturale.
I dati di Reuters del giugno 2025 confermano: la riduzione delle truppe USA ha provocato un aumento delle attività dell’ISIS ed esfiltrazioni da prigioni come al‑Hasakah. Le rimozioni dei checkpoint e la diaspora di ex jihadisti tra le SDF hanno creato un terreno fertile per una resurrezione jihadista sotto copertura .
In sostanza, il presunto impegno occidentale nel contrasto al terrorismo diventa un’illusione propagandistica. Quando i foreign fighters si trasformano in ministri, comandanti o soldati “riabilitati”, la lotta all’estremismo perde ogni credibilità. La Siria, tra accordi di facciata e assetti governativi ibridi, mostra le crepe di un’operazione che ha sostituito i fatti concreti con narrative vuote: il pericolo non è debellato, ma riorganizzato ad arte.
La Siria come paradigma del cinismo occidentale
La recente revoca delle sanzioni alla Siria, unita alla legittimazione diplomatica internazionale di Ahmed al‑Sharā‘a (ex Abu Muhammad al‑Jolani), non avviene in un contesto di stabilizzazione o di reale transizione democratica. Al contrario, essa si sovrappone a una recrudescenza delle violenze settarie, a un aumento delle intimidazioni contro le minoranze religiose e a un rafforzamento di milizie armate locali prive di qualsiasi legittimità popolare.
In questo scenario, la presenza di Jolani accanto a leader internazionali non rappresenta un progresso, ma piuttosto l’ufficializzazione di un compromesso in cui la lotta al terrorismo viene piegata alle esigenze di convenienza strategica. Ampie e dettagliate testimonianze riportate dalla giornalista investigativa Lindsey Snell — che da anni documenta la situazione nel nord della Siria, spesso con immagini e interviste esclusive — raccontano una realtà fatta di repressione, espulsioni, discriminazioni sistematiche e abusi commessi da forze affiliate al nuovo governo. I racconti di profughi alawiti, cristiani e drusi, costretti a fuggire da zone “ripulite” con il silenzio-assenso delle autorità locali, smentiscono la narrazione idilliaca diffusa in Occidente.
Ampie e dettagliate testimonianze raccolte dalla giornalista investigativa Lindsey Snell raccontano una realtà in cui le violenze non si fermano:
“Trump ha revocato le sanzioni alla Siria nonostante la continua violenza settaria da parte del suo nuovo governo..” (jadaliyya.com)
Snell segnala testimoni oculari di miliziani affiliati al regime al‑Sharā‘a che effettuano spari indiscriminati, occupazione di case di minoranze e respingimento sistematico delle comunità alawite, druse e cristiane — un quadro di pulizia etno-religiosa strutturata, con tanto di silenzio complice da parte delle autorità internazionali.
Questo scenario è corroborato da fonti alternative come The Cradle e Reuters, che documentano una campagna di terrore sistematico contro le minoranze alawite, con raid, rappresaglie e assassini:
“Un gruppo di alawiti fedeli ad Assad aveva lanciato una rivolta nascente… che aveva scatenato una serie di omicidi per vendetta… centinaia di alawiti morti.” (reuters.com e Washington Post)
“La violenza settaria si è sviluppata nei confini meridionali della capitale siriana… rapimenti e omicidi non erano stati segnalati in precedenza.” ” ( reuters.com e The Cradle.co)
In questo contesto, l’ipocrisia degli Stati Uniti e dei loro alleati appare lampante. I tanto invocati “diritti umani”, branditi come arma contro regimi scomodi, vengono sistematicamente sacrificati sull’altare del pragmatismo geopolitico. Si legittima un ex capo jihadista in nome della stabilità, mentre si ignora volutamente l’oppressione esercitata sulle comunità che non si allineano al nuovo ordine imposto.
Non è la prima volta che si assiste a questo paradosso dell’ingerenza occidentale: lo abbiamo già visto in Libia, dove la rimozione di Gheddafi ha generato uno Stato fallito e aperto la strada a guerre per bande; in Afghanistan, dove i talebani sono tornati al potere vent’anni dopo l’intervento NATO; e ora in Siria, dove si è sostituito Assad non con un progetto di ricostruzione nazionale, ma con un fragile ibrido di poteri eterodiretti, milizie settarie e accordi diplomatici imposti dall’esterno.
La realtà è che la Siria si è avviata verso un prolungato periodo di instabilità, segnato da nuove linee di frattura etnico-religiosa, dall’influenza crescente di potenze straniere in concorrenza tra loro (Turchia, Israele, Arabia Saudita, Iran) e da un’incapacità strutturale di ricostruire una forma statuale coesa e legittimata.
In definitiva, l’Occidente, pur presentandosi come paladino dei valori universali, continua a esportare non libertà, ma caos. Distrugge l’ordine esistente in nome della democrazia e della pace, ma al suo posto lascia rovine geopolitiche, frammentazione sociale e una geografia umana lacerata. Non si tratta di un fallimento casuale, ma di un modello ricorrente: sostituire governi stabili, seppur autoritari, con scenari instabili dominati da interessi stranieri e poteri incontrollabili.
Fonti principali:
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Inchieste sui massacri degli alawiti – Reuters, Wikipedia investigativa
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Revoca sanzioni – France24, Al Jazeera, Reuters
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Analisi ruolo foreign fighters – Washington Post, FT, WSWS
- Reportage e video di Lindsey Snell