Preambolo: l’accusa e l’equivoco
Nel suo ultimo intervento per TomDispatch, William Hartung lancia un allarme drammatico: secondo lui, la nuova amministrazione Trump sarebbe completamente ostaggio di una cerchia di oligarchi high-tech, decisi a fondare l’identità futura dell’America sulla guerra tecnologica permanente. A suo avviso, imprenditori come Alex Karp (Palantir), Elon Musk e Peter Thiel non solo stanno influenzando pesantemente la politica del governo, ma lo stanno trascinando verso un progetto distopico: quello di una “Repubblica tecnologica” che sostituisca i valori dell’Occidente con l’efficienza della macchina e la supremazia dell’intelligenza artificiale applicata alla guerra.
Il pezzo prende le mosse dal recente libro di Karp, The Technological Republic, che invoca un nuovo “scopo nazionale” fondato sulla cooperazione totale tra settore tech e governo, in nome della supremazia geopolitica. L’ispirazione? Il Progetto Manhattan, ovvero la realizzazione della bomba atomica durante la Seconda guerra mondiale. La visione proposta è radicale: applicare la potenza dell’AI a sistemi d’arma automatizzati, puntando a un vantaggio militare permanente sugli avversari globali, a partire dalla Cina.
Hartung dipinge questo scenario come pericoloso, cinico, elitista — eppure fa una forzatura cruciale: attribuisce questa visione anche al mondo MAGA, come se l’America di Trump fosse alleata o addirittura promotrice di questo nuovo tecnomilitarismo distopico.
Ma è proprio qui che emerge la contraddizione centrale dell’articolo. Ecco perché, nel nome di una verità più aderente alla realtà, è necessario mettere in discussione le premesse e le deduzioni di questa narrazione.
Musk, Vance e Karp: davvero la stessa visione?
Una delle chiavi retoriche dell’articolo di Hartung è l’idea che i principali alleati dell’amministrazione Trump – in particolare Elon Musk e il vicepresidente J.D. Vance – condividano l’ideologia tecnocratica di Alex Karp, CEO di Palantir. Ma questa tesi, presentata come un dato evidente, è in realtà profondamente infondata.
J.D. Vance, convertito al cattolicesimo e autore del celebre Hillbilly Elegy, ha sempre posto al centro del suo impegno politico la crisi delle comunità americane, lo smarrimento delle radici e la necessità di ricostruire legami veri, non automatismi digitali. Non ha mai auspicato un’America retta dal dominio della tecnologia: il suo pensiero ruota intorno alla persona umana, alla giustizia sociale, alla fedeltà alla tradizione. La sua visione è antropologica e comunitaria, non tecnocratica e ingegneristica.
Elon Musk, pur essendo un imprenditore che vive di innovazione tecnologica, non è assimilabile a Karp: Musk sogna la colonizzazione dello spazio, la sopravvivenza dell’uomo su altri pianeti, e spesso ha messo in guardia contro i pericoli dell’AI. Ha una visione dell’uomo come esploratore, non come soldato gestito da algoritmi. E per quanto controverso, il suo libertarismo tecnologico non è bellicismo organizzato.
Infine, Donald Trump ha impostato la sua politica su una critica aperta al complesso militar-industriale, opponendosi a nuove guerre e denunciando il potere delle élite globaliste, comprese quelle digitali. Il suo progetto ruota attorno alla sovranità, ai confini, alla nazione concreta – non certo a una “repubblica delle macchine”.
Quella di Hartung è quindi una saldatura ideologica arbitraria, costruita per colpire un intero campo politico con il pretesto delle alleanze, ma ignorando completamente le differenze di fondo tra visioni, valori e finalità.
1. Il vero volto del progetto tecnocratico
Alex Karp afferma che la superiorità occidentale non è fondata su idee o valori, ma sulla capacità di applicare in modo organizzato la violenza. Un’affermazione che nega le radici culturali e spirituali dell’Occidente, riducendolo a mera potenza operativa. La sua proposta è chiara: un nuovo Progetto Manhattan per l’AI militare, per mantenere l’egemonia tecnologica globale.
Questa visione è l’opposto della filosofia del mondo MAGA, che rivendica la centralità della cultura americana tradizionale, della famiglia, del lavoro e della fede. L’America di Trump non vuole una civiltà della macchina, ma un ritorno alla civiltà del popolo.
2. Trump e i tecnocrati: una visione inconciliabile
L’articolo compie un’operazione fuorviante: identifica Trump con l’élite tecnocratica che egli stesso ha criticato per anni. In realtà:
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Trump ha denunciato apertamente i colossi tech per censura e manipolazione politica;
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ha cercato la pace con Corea del Nord e Russia, criticando le guerre senza fine;
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ha posto l’interesse nazionale prima dell’espansionismo globale.
L’assimilazione tra trumpismo e tecnocrazia militarizzata è una costruzione ideologica che non regge alla prova dei fatti.
3. Il popolo cancellato: il cuore rimosso del discorso
L’aspetto più inquietante dell’articolo è che non parla mai del popolo. L’identità nazionale viene ridotta a una questione di superiorità tecnologica, mentre la domanda più vera — chi siamo? cosa ci unisce? — viene ignorata.
L’America di Trump ha molti difetti, ma almeno riconosce che una nazione è fatta di uomini, non di algoritmi. L’unità nazionale non può essere costruita su una corsa agli armamenti, ma su radici condivise, valori e legami reali.
4. La falsa alternativa: tra AI e globalismo, nessuna via per l’uomo
La critica di Hartung al progetto tecnocratico sarebbe condivisibile, se non proponesse come alternativa un ritorno al vecchio paradigma liberal-globalista: salute globale, clima, inclusione. Tutti temi importanti, ma usati come nuova ideologia per mantenere il potere delle stesse élite, mascherando l’assenza di un vero sguardo umano.
In entrambi i casi — AI o governance globale — manca l’uomo, manca il popolo, manca la realtà.
Conclusione
L’articolo che voleva denunciare un pericolo — quello di una deriva tecnocratica e militarista — finisce per rivelarne un altro, ancora più profondo: una cultura che non crede più nel popolo, né nella verità, che ha smarrito l’idea che esista un ordine della realtà a cui riferirsi. Una cultura che crede di poter fondare la salvezza solo sulla potenza della macchina, dimenticando che una società vive non solo di efficienza, ma di senso, di legami, di speranza.
Sì, i pericoli evocati da Hartung sono reali: l’uso dell’AI in ambito bellico, il rischio di concentrazione del potere, la tentazione di escludere l’uomo dal cuore delle decisioni. Ma se esiste ancora — come crediamo — un fondamento realistico della realtà, allora è il popolo, nella sua esperienza concreta e viva, ad avere l’ultima parola. Ed è proprio questo fondamento che l’articolo di Hartung rimuove, presentando come inevitabile una deriva che invece può essere giudicata, orientata, corretta.
È fortemente riduttivo pensare che gli Stati Uniti, o qualsiasi altro popolo, siano destinati a diventare una tecnocrazia senz’anima. Una nazione si regge su altro: su valori condivisi, su cultura, su fede, su un’idea dell’uomo come essere dotato di dignità e destino. È questa la stella polare di un popolo — non l’efficienza di un algoritmo o la superiorità operativa.
Il pregiudizio di fondo dell’articolo è quello tipico delle grandi transizioni tecnologiche: da un lato un allarme catastrofista, dall’altro una fiducia cieca nel progresso umano. Ma la storia ci insegna che questa tensione è sempre stata corretta da uomini capaci di riconoscere la realtà per quello che è, uomini che non hanno separato tecnica e senso, potere e giustizia.
Anche oggi, se questi rischi esistono — ed esistono — non dobbiamo dimenticare che c’è Altro che opera. E in fondo, anche il progetto MAGA, con tutte le sue contraddizioni, è una reazione a questa disumanizzazione. In esso è presente, almeno in parte, l’intuizione che la salvezza non viene dal potere, ma da un ritorno alla realtà: ai confini, alla cultura, alla famiglia, alla fede, a Dio.
In definitiva: la proposta del mondo MAGA — pur imperfetta — è almeno un segnale di controtendenza, una domanda umana che riaffiora. Non è una visione definitiva, non è immune da errori. Ma è umana. E soprattutto, non è un’America senza popolo.