SCONVOLGENTE INCHIESTA DI REUTERS: Siria, la strage degli alawiti e il silenzio dell’Occidente

Massacro sistematico in 40 località: l’inchiesta Reuters che sconvolge la narrativa dominante

Una delle più dettagliate e sconvolgenti inchieste giornalistiche sulla Siria degli ultimi anni arriva – sorprendentemente – da una fonte mainstream come Reuters. Per la prima volta, si documenta con nomi, numeri, mappe e testimonianze dirette un’ondata di massacri settari contro la minoranza alawita, perpetrata non da milizie irregolari fuori controllo, ma da forze regolarmente integrate nel nuovo governo siriano, sostenuto da parte della comunità internazionale.

Il massacro degli alawiti: tre giorni di sterminio pianificato

Tra il 7 e il 9 marzo 2025, un’ondata di violenza settaria senza precedenti ha attraversato le regioni costiere della Siria, lasciando dietro di sé una scia di morte e devastazione. In soli tre giorni, 1.479 alawiti sono stati massacrati in modo sistematico, spesso secondo liste manoscritte che indicavano nomi, famiglie e indirizzi delle vittime. L’inchiesta Reuters ha identificato almeno 40 località in cui si sono consumati questi crimini, molti dei quali con modalità che nulla hanno a che vedere con l’improvvisazione: irruzioni notturne, perquisizioni casa per casa, esecuzioni sommarie, corpi mutilati lasciati esposti, donne e bambini assassinati senza pietà.

La dimensione logistica e pianificata delle uccisioni evoca più un’operazione repressiva di natura militare che una vendetta tribale. Molti degli attacchi sono iniziati all’alba, spesso con l’isolamento preventivo dei villaggi tramite l’interruzione dell’elettricità e l’assedio da parte di colonne armate. In alcune aree, intere famiglie sono state sterminate e le abitazioni date alle fiamme. Alcuni villaggi sono stati completamente svuotati dei loro abitanti alawiti e in seguito ripopolati da residenti sunniti, secondo un meccanismo che ha il sapore sinistro della pulizia etnica.

Uno dei casi più emblematici è quello di Al-Mukhtareyah, piccolo centro agricolo nei pressi di Latakia, dove 157 persone sono state uccise in meno di un’ora, equivalenti a un quarto dell’intera popolazione. Secondo i registri locali, tra i morti figurano intere stirpi familiari: 28 membri della famiglia Abdullah, 14 della famiglia Darwish, 11 della famiglia al-Juhni. I testimoni raccontano di piogge di proiettili, bambini trascinati via, donne costrette ad assistere alle esecuzioni dei figli prima di essere uccise a loro volta. I pochi sopravvissuti parlano di fucilazioni di massa nei campi di agrumi, con i cadaveri abbandonati a marcire tra i frutti.

Ma Al-Mukhtareyah è solo uno dei tanti luoghi dell’orrore. A Sonobar, centro agricolo di 15.000 abitanti, l’Unità 400 – forza d’élite ex-HTS – ha guidato un assalto che ha causato 236 morti, in gran parte giovani uomini tra i 16 e i 40 anni. Anche in questo caso, secondo Reuters, le uccisioni sono state eseguite sulla base di informazioni dettagliate, con famiglie decimate stanza per stanza. In un video verificato, un combattente proclama: “Abbiamo ripulito il villaggio dai resti del regime. Allahu Akbar”, mentre la camera indugia su corpi civili crivellati.

Nel villaggio di Al-Rusafa, tra i 60 morti identificati vi erano almeno sei bambini, tra cui un ragazzo di 17 anni costretto a ululare come un cane prima di essere fucilato. Il fratello maggiore, Suleiman Rashid Saad, è stato trovato col petto squarciato e il cuore rimosso, adagiato sopra il corpo come macabro trofeo. Gli assassini hanno chiamato il padre dal telefono della vittima: “Lo abbiamo ucciso. Vieni a prenderlo prima che lo mangino i cani”. Una modalità di crudeltà deliberata e spettacolarizzata, tipica dei messaggi intimidatori nei conflitti settari.

Anche in località come Qurfays, Baniyas e Jableh, lo schema si ripete con sconcertante coerenza: attacchi coordinati, uso di milizie regolari e irregolari, saccheggi, simboli religiosi profanati, e messaggi minatori lasciati sui muri: “I sunniti sono passati di qui. Siamo venuti a versare il vostro sangue”.

Il denominatore comune che emerge dalle testimonianze raccolte da Reuters – oltre 200 interviste a sopravvissuti, familiari delle vittime e ufficiali – è l’intento settario. In decine di villaggi, i combattenti entravano nelle case ponendo sempre la stessa domanda:

“Siete sunniti o alawiti?”

Una domanda che, in quel contesto, era una sentenza. Chi rispondeva “alawita”, spesso non usciva vivo. In numerosi casi, i bambini venivano risparmiati solo per essere lasciati senza famiglia, testimoni impotenti di un’operazione di sterminio condotta non per errore, ma per ordine. Un ordine che, secondo l’inchiesta, porta fino ai vertici del nuovo governo siriano.

Una catena di comando che porta dritta a Damasco

Ciò che rende l’inchiesta di Reuters particolarmente esplosiva non è solo l’accuratezza con cui documenta le atrocità compiute, ma la chiarezza con cui ricostruisce la responsabilità gerarchica di quei crimini. I massacri contro la minoranza alawita non emergono come reazioni caotiche di gruppi armati fuori controllo, bensì come operazioni coordinate e dirette da una catena di comando centralizzata, che arriva fino ai vertici del nuovo governo siriano.

A capo di questa struttura vi è Ahmed al-Sharaa, attuale presidente della Siria, salito al potere dopo il crollo del regime di Bashar al-Assad. Al-Sharaa è un personaggio controverso: ex leader del gruppo jihadista Hayat Tahrir al-Sham (HTS), a sua volta discendente diretto del Fronte al-Nusra, la filiale siriana di al-Qaeda. Dopo aver guidato la presa di Damasco, ha dissolto formalmente le milizie islamiste e le ha integrate – almeno sulla carta – in un nuovo esercito nazionale. Tuttavia, l’inchiesta mostra come molti dei suoi ex uomini abbiano mantenuto ruoli chiave nell’apparato repressivo del nuovo Stato.

Secondo quanto riferito da oltre 40 fonti, tra ufficiali, combattenti e funzionari governativi, l’ordine decisivo è stato emesso il 6 marzo 2025. Quel giorno, mentre nella regione costiera si diffondevano i primi segnali di una rivolta pro-Assad, il Ministero della Difesa avrebbe emesso direttive inequivocabili per “sedare l’insurrezione dei fulūl”, termine arabo con cui vengono indicati i “resti” del precedente regime. Ma, come hanno raccontato vari testimoni, l’interpretazione operativa di questo ordine è stata rapidamente estesa all’intera popolazione alawita, percepita come solidale – se non complice – con l’ancien régime.

Il cuore della catena di comando risiedeva in una chat Telegram riservata, creata e moderata dal portavoce ufficiale del Ministero della Difesa, Hassan Abdel-Ghani, noto con il nome di battaglia Abu Ahd al-Hamawi. Le conversazioni analizzate da Reuters, incrociate con le testimonianze dei miliziani coinvolti, rivelano che Abdel-Ghani ha coordinato in tempo reale i movimenti delle truppe e delle milizie, assegnando obiettivi e settori di competenza.

In uno dei messaggi, confermato da due fonti indipendenti, Abdel-Ghani fornisce indicazioni logistiche per il posizionamento di rinforzi nei pressi del ponte che conduce ad Al-Mukhtareyah, località dove poco dopo si sarebbe consumata una delle peggiori stragi. In un altro, rispondendo a segnalazioni di “violenze incontrollate” nella città di Jableh, si limita a scrivere: “Che Dio vi ricompensi” – una frase ambigua, ma che denota l’assenso implicito.

Secondo quanto rivelato da Mohammed al-Jassim, comandante della Brigata Sultan Suleiman Shah, anche la sua milizia è stata inserita nella catena di comando tramite questa chat, ricevendo ordini direttamente dal Ministero. Al-Jassim ha raccontato di essere stato aggiunto a un gruppo Telegram con altri comandanti di milizia, sotto la supervisione del già citato Abu Ahd. Reuters ha confermato l’autenticità dell’account Telegram di Abdel-Ghani, che ha ammesso di essere stato interrogato dalla commissione governativa d’indagine, pur rifiutandosi di fornire commenti ulteriori.

La struttura di comando, secondo più fonti, era stata militarizzata già settimane prima della rivolta, attraverso una mappatura dettagliata dei distretti costieri, affidati ciascuno a un comandante di zona. Le forze coinvolte – tra cui l’Unità 400, la Brigata Othman e le milizie sunnite filo-governative – erano state coordinate centralmente per garantire una risposta rapida e capillare a ogni focolaio di insurrezione.

“I massacri non sono stati un effetto collaterale: sono stati una risposta strategica e deliberata a una minaccia interna”, ha dichiarato una fonte militare siriana sotto anonimato, confermando che la scelta di colpire i villaggi alawiti aveva anche un valore esemplare: stroncare qualsiasi possibilità di resistenza al nuovo ordine post-Assad.

La prova forse più lampante dell’intenzionalità e della responsabilità verticale è l’assoluta impunità garantita alle unità coinvolte. Nessun comandante di brigata è stato rimosso. Anzi, molti sono stati promossi nei mesi successivi, con tanto di nuovi incarichi ufficiali nelle forze armate.

Ciò che Reuters documenta con estrema precisione è che l’apparato militare e politico del nuovo governo non solo non ha impedito i massacri, ma li ha diretti, giustificati e persino premiati. L’ombra della responsabilità – sia morale che giuridica – non può dunque fermarsi ai villaggi insanguinati, ma si allunga fino ai palazzi del potere di Damasco.

Le fazioni coinvolte: ex jihadisti e milizie sostenute dalla Turchia

Tra i principali responsabili figurano:

  • Unità 400 (élite di HTS), Brigata Othman, Servizio di Sicurezza Generale – già noti per abusi sistematici.

  • Brigata Sultan Suleiman Shah e Divisione Hamza – milizie sostenute dalla Turchia, già sanzionate dall’UE.

  • Partito Islamico del Turkestan – con combattenti uiguri e ceceni.

  • Jaysh al-Islam – noto per l’uso di civili come scudi umani.

Molti di questi gruppi, lungi dall’essere marginali, sono stati promossi a incarichi ufficiali nell’esercito siriano nei mesi successivi al massacro. Un cortocircuito politico e morale.

“Spegnete le telecamere. Uccidete tutti i maschi. Il loro sangue è sporco come quello dei maiali.” – scrive su Facebook un miliziano.

Il silenzio delle cancellerie occidentali

Le reazioni ufficiali sono state ambigue. L’UE ha sanzionato solo alcune milizie pro-Assad, mentre le forze ex-HTS restano sorprendentemente immuni. Gli Stati Uniti, intanto, non hanno imposto alcuna sanzione per le stragi.

Eppure, è a questo governo – fondato da ex jihadisti, con responsabilità documentate in crimini di guerra – che l’Occidente guarda oggi come interlocutore nel processo di “normalizzazione” della Siria. Una normalizzazione fondata sull’oblio selettivo.

Una verità scomoda che scuote la narrazione

Per anni, la guerra in Siria è stata raccontata in Occidente come una lotta tra un “regime brutale” e un “popolo oppresso”. Ma oggi emerge un quadro più complesso, dove le vittime alawite – spesso silenziate – diventano centrali per capire la degenerazione settaria della guerra e le responsabilità del nuovo potere.

“Sta sorgendo il sole di una nuova Siria” – dichiarava trionfante al-Sharaa dopo la presa di Damasco. Ma questo sole – ci mostra Reuters – è sorto su villaggi carbonizzati, fosse comuni e silenzi complici.

I conti con la giustizia (rimandati)

Nonostante le promesse, nessuno è stato ancora perseguito per le uccisioni di marzo. Il governo ha avviato una commissione interna, ma nessun atto concreto è seguito. Molti testimoni parlano di impunità sistemica, e di un clima di terrore ancora diffuso.

Le conseguenze sono evidenti: centinaia di famiglie rifugiate presso una base russa, villaggi interamente svuotati, tensioni settarie che minano ogni tentativo di “unità nazionale”.


Un dovere di memoria

L’inchiesta Reuters ha compiuto un lavoro di rara onestà documentaria. Chiunque abbia a cuore la verità sulla Siria non può ignorarla. I crimini contro gli alawiti non sono un dettaglio marginale, ma il cuore oscuro di una riconfigurazione del potere in Siria che poggia su fondamenta di sangue.

E soprattutto, ci impone una domanda scomoda: a chi conviene davvero dimenticare questi morti?

Leggi il reportage completo in inglese su Reuters:
https://www.reuters.com/investigations/syrian-forces-massacred-1500-alawites-chain-command-led-damascus-2025-06-30

“Vietato Parlare” non è solo un nome. È un imperativo morale: perché il silenzio, oggi, è complicità.

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