Il monito del Primo Maggio 2025: salari bassi e famiglie in difficoltà
Il 1° maggio 2025 il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha lanciato un duro monito sulla condizione salariale in Italia. Visitando un’azienda a Latina, ha denunciato che i salari italiani sono “inadeguati” e stagnanti «da troppi anni», rilevando che «tante famiglie non reggono l’aumento del costo della vita» e che «i giovani incontrano difficoltà a progettare […] il proprio futuro» (ilmanifesto.it).
Mattarella ha citato dati allarmanti: secondo un rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, l’Italia si distingue in negativo per la dinamica salariale di lungo periodo, con salari reali addirittura inferiori a quelli del 2008 (ilmanifesto.it). Nonostante di recente l’occupazione abbia mostrato segnali di ripresa, i livelli retributivi sono rimasti al palo o addirittura regrediti (ilfattoquotidiano.it). Il Capo dello Stato ha collegato i bassi salari a problemi sociali gravi: l’aumento delle disuguaglianze, il calo demografico (giovani che rinviano scelte di vita) e la “fuga di cervelli” all’estero (ilmanifesto.it). Parole forti, che fotografano una realtà di impoverimento salariale ormai riconosciuta da tutti gli osservatori: a marzo 2025, secondo dati ufficiali, i salari reali italiani risultano circa l’8% più bassi di quattro anni prima. (rainews.it).
Tuttavia, questo appello presidenziale – pur sacrosanto nella denuncia – suscita anche sconcerto, considerato il ruolo che lo stesso Mattarella e l’establishment italiano hanno avuto nel plasmare le politiche economiche degli ultimi decenni. La contraddizione evidente è che chi oggi addita la piaga dei salari bassi ha a lungo sostenuto l’impianto di scelte istituzionali (dall’integrazione europea alle riforme di mercato) che hanno contribuito a creare proprio quella “grande questione” salariale.
L’europeismo di Mattarella e le politiche di compressione salariale
Sergio Mattarella è da sempre un convinto europeista e rappresenta la continuità istituzionale con la linea economica seguita dall’Italia nell’ultimo trentennio. In qualità di Presidente, ha ribadito in molte occasioni la necessità di rispettare rigorosamente i vincoli e gli impegni internazionali, «in primis» quelli derivanti dall’Unione Europea. Emblematico fu il suo intervento nel 2018 durante la formazione del governo: Mattarella arrivò a porre il veto sulla nomina di un ministro dell’Economia critico verso l’euro, motivando la scelta con la tutela dei risparmi dei cittadini e della fiducia dei mercati internazionali. In sostanza, la Presidenza della Repubblica ha funto da garante dell’ortodossia europea, impedendo deviazioni dalla linea economica prevalente – una linea improntata alla stabilità finanziaria, al contenimento della spesa e alla moderazione salariale.
Lo stesso sostegno a figure come Mario Draghi rientra in questo contesto. Nel 2021 Mattarella ha affidato a Draghi, ex presidente della Banca Centrale Europea, la guida di un governo di “unità nazionale” per gestire la crisi pandemica: una scelta accolta con favore dai partner europei e dalle élite economiche, nella fiducia che Draghi avrebbe garantito il rispetto dei parametri di bilancio e l’attuazione di riforme di mercato. Quella stagione – caratterizzata da decisioni calate dall’alto e da un asse Quirinale-Palazzo Chigi – ha consolidato ulteriormente l’orientamento tecnocratico ed europeista della politica italiana (osservatorioglobalizzazione.it). Le priorità di Draghi e Mattarella erano chiare: utilizzo ortodosso dei fondi europei, riforme strutturali e nessuno scostamento radicale sul terreno delle politiche del lavoro (non a caso, durante il governo Draghi non sono state varate misure significative per aumentare i salari minimi o rafforzare la contrattazione).
Occorre ricordare che la politica economica promossa dall’establishment italiano negli ultimi decenni ha perseguito coerentemente la moderazione salariale come strumento di competitività. Fin dagli anni ’90, governi di centrosinistra e centrodestra – con l’avallo del Quirinale – hanno aderito al paradigma neoliberista dominante in Europa. Le grandi privatizzazioni di metà anni ’90 (banche, telecomunicazioni, energia, autostrade, ecc.) furono salutate come passi obbligati per “modernizzare” il Paese e rientrare nei parametri di Maastricht, così come le varie manovre di aggiustamento dei conti pubblici che hanno spesso comportato tagli alla spesa sociale e congelamenti salariali nel pubblico impiego. Non si tratta di errori episodici, ma di un preciso indirizzo politico: come nota un’analisi critica, «la polarizzazione verso il basso in termini salariali e occupazionali è il risultato di politiche economiche decise dai governi e dall’Unione Europea […] con l’obiettivo di recuperare competitività attraverso la compressione salariale nell’ambito del processo di globalizzazione neoliberista» (transform-italia.it). In altre parole, l’abbassamento del costo del lavoro non è stato un effetto collaterale indesiderato, bensì una strategia deliberata perseguita dalle nostre classi dirigenti per tenere il passo nella competizione internazionale.
Un evento simbolo di questa strategia fu la lettera riservata inviata dalla BCE al governo italiano il 5 agosto 2011, firmata da Jean-Claude Trichet e Mario Draghi. In quel documento – sostanzialmente un ultimatum – l’Eurotower chiedeva all’Italia riforme drastiche «da fare con decreto legge» per ristabilire la fiducia dei mercati. Tra le misure indicate figuravano esplicitamente la riduzione dei salari, una maggiore flessibilità del mercato del lavoro e massicce privatizzazioni (repubblica.it). Il Governo italiano di allora (Berlusconi) recepì immediatamente quelle richieste con una manovra di austerità a settembre 2011. Da Presidente della Repubblica, Napolitano favorì poco dopo l’insediamento di un esecutivo tecnico guidato da Mario Monti, incaricato di applicare ulteriori misure lacrime e sangue (riforma delle pensioni, tagli e liberalizzazioni). Quella svolta ha consolidato un modello economico in cui la competitività veniva perseguita comprimendo i salari e i diritti. Mattarella, succeduto a Napolitano nel 2015, si è inserito in perfetta continuità con questo orientamento. Le sue scelte (dal citato veto anti-euro, alla chiamata di Draghi, fino ai frequenti richiami alla “sostenibilità” dei conti) mostrano l’adesione a quell’impianto politico-economico che oggi viene messo in discussione dalle stesse parole del Presidente. Si delinea così una chiara contraddizione: Mattarella denuncia gli effetti (salari stagnanti e precarietà diffusa) di cause che egli stesso, insieme al blocco istituzionale di cui fa parte, ha contribuito a determinare negli anni.
Trent’anni di blocco salariale: euro, austerità e globalizzazione
Per comprendere il “paradosso italiano” dei salari fermi da decenni, bisogna analizzarne le cause profonde. Diversi fattori – interni e internazionali – hanno concorso al blocco della dinamica salariale in Italia negli ultimi 30 anni:
L’ingresso nell’euro e i vincoli europei: negli anni ’90 l’Italia ha adottato politiche rigorose per qualificarsi all’unione monetaria europea (basti pensare alle manovre Amato e Ciampi del 1992-93). L’adesione all’euro ha eliminato la possibilità di svalutare la moneta per recuperare competitività, imponendo di fatto una svalutazione interna basata sul contenimento di prezzi e salari. Dal 1999 in poi, la disciplina del Patto di Stabilità ha costretto l’Italia a mantenere deficit e debito sotto controllo stringente, spesso a scapito della crescita economica. In un contesto di inflazione molto bassa, i salari hanno smesso di crescere: le politiche di “moderazione salariale” sono diventate la norma, giustificate dalla necessità di rispettare i parametri di Maastricht e poi gli obiettivi di bilancio concordati con Bruxelles. Come osservano alcuni economisti critici, la stagnazione italiana affonda le radici proprio in queste scelte: «il declino della produttività in Italia ha le sue radici nelle politiche realizzate a partire dagli anni ’90: la compressione della domanda, […] i tagli alla spesa pubblica, la rinuncia alla politica industriale, a partire dalle privatizzazioni» (sbilanciamoci.info). In altri termini, l’austerità prolungata e le riforme pro-mercato adottate per restare “virtuosi” in Europa hanno rallentato l’economia e frenato i salari.
La Banca Centrale Europea e la lotta all’inflazione: la BCE, fin dalla sua istituzione, ha perseguito prioritariamente la stabilità dei prezzi (inflazione vicina ma inferiore al 2%). Ciò ha significato, soprattutto nei primi anni 2000, politiche monetarie restrittive che hanno mantenuto bassa la crescita dei prezzi – e di riflesso anche la crescita dei salari nominali. In Italia, con inflazione moderata e produttività stagnante, i contratti collettivi hanno spesso siglato aumenti minimi. Inoltre, sotto la regia della BCE (in cui dal 2006 sedeva lo stesso Draghi), nei paesi dell’Europa meridionale è stata promossa la cosiddetta “svalutazione interna” durante la crisi del debito: poiché non si poteva svalutare la moneta, si è cercato di ridurre il costo del lavoro unitario tagliando occupazione e contenendo stipendi. La famosa lettera del 2011 citata sopra è esemplare: la BCE suggeriva esplicitamente di ridurre i salari pubblici e di decentralizzare la contrattazione per legare più strettamente le retribuzioni all’andamento delle singole aziende vigilidelfuoco.usb.it. Queste misure avrebbero dovuto accrescere la competitività di costo, ma hanno avuto come risultato collaterale di bloccare la dinamica salariale generale. Anche negli anni più recenti, la politica monetaria ha avuto effetti indiretti: nel 2022-2023, di fronte all’inflazione post-pandemica, la BCE ha alzato rapidamente i tassi d’interesse raffreddando l’economia, il che ha reso difficile ai lavoratori recuperare potere d’acquisto attraverso aumenti salariali (il contesto di inflazione elevata ha visto gli stipendi crescere molto meno dei prezzi, perdendo circa 6-7 punti percentuali di potere d’acquisto – corriere.it files.cgil.it).
Austerità fiscale e crollo degli investimenti pubblici: per molti anni l’Italia ha mantenuto avanzi primari di bilancio (entrate maggiori delle uscite al netto degli interessi) nel tentativo di ridurre il debito pubblico. Questo ha significato tagliare o comprimere diverse voci di spesa. Una delle vittime principali è stata la spesa per investimenti pubblici, scesa da livelli intorno al 3-3,5% del PIL a poco più del 2% alla fine dello scorso decennio – osservatoriocpi.unicatt.it – confindustria.it. Tra il 2009 e il 2018, ad esempio, gli investimenti pubblici italiani sono crollati dal 3,7% al 2,1% del PIL – (osservatoriocpi.unicatt.it), facendoci scivolare agli ultimi posti in Europa. Questo ha avuto un duplice impatto negativo: da un lato ha indebolito la domanda interna (meno investimenti = meno lavoro e reddito nel breve periodo), dall’altro ha frenato la crescita di lungo termine, perché infrastrutture carenti e minore spesa in ricerca e innovazione hanno contribuito alla stagnazione della produttività. Un’economia meno dinamica e con alta disoccupazione tende naturalmente ad esercitare pressioni al ribasso sui salari, specialmente per i lavoratori meno qualificati. L’austerità ha quindi chiuso un circolo vizioso: bassa crescita – tagli – minore crescita – minore capacità di distribuire reddito. L’Italia, già zavorrata da problemi strutturali, ha così visto aggravarsi la “trappola” di bassa produttività e bassi salari.
Concorrenza globale e modello tedesco: la globalizzazione degli anni 2000 ha inserito l’Italia in un’arena competitiva molto più ampia. L’ingresso della Cina nel WTO (2001), l’allargamento dell’UE a est (2004) e la stessa unificazione tedesca hanno immesso nel mercato mondiale centinaia di milioni di lavoratori disponibili a salari inferiori. Molte imprese italiane, soprattutto manifatturiere, hanno subito la concorrenza di produzioni a basso costo, reagendo spesso con delocalizzazioni o con la compressione del costo del lavoro interno. In parallelo, la Germania ha intrapreso nei primi anni 2000 una marcata moderazione salariale (riforme Hartz e blocco degli stipendi contrattuali) che ha permesso all’industria tedesca di guadagnare competitività di prezzo all’interno dell’Eurozona. Questo “dumping salariale” attuato da Berlino ha penalizzato Paesi come l’Italia, che fino alla fine degli anni ’90 avevano salari in crescita simile a quelli tedeschi.
Dal 1992 al 2022 i salari reali medi tedeschi sono cresciuti del +23%, quelli francesi addirittura del +32%, mentre l’Italia (come la Spagna) ha vissuto una stagnazione completa (0%) files.cgil.it. Ciò riflette anche scelte diverse: in Germania l’intero decennio 2010 ha visto aumenti retributivi continui grazie alla forte domanda estera e al basso tasso di disoccupazione, mentre in Italia nello stesso periodo spesso si invocava “moderazione” per recuperare margini di competitività persi (manpowergroup.it). La globalizzazione neoliberista, insomma, ha funzionato così: chi è riuscito a esportare di più (spesso moderando i salari interni, come la Germania) ha guadagnato quote di mercato, gli altri hanno dovuto adeguarsi. In Italia le politiche di contenimento dei salari sono servite – nelle intenzioni – a tamponare la perdita di competitività, ma al prezzo di sacrificare il potere d’acquisto dei lavoratori. Non sorprende quindi che «oggi in Italia si guadagna meno che nel 1990»: è il risultato di «anni di politiche […] tese a promuovere la moderazione e anche la compressione salariale» per far fronte alla concorrenza internazionaletransform-italia.it.
Riforme del lavoro e precarizzazione: un ulteriore fattore interno è stato l’indebolimento della contrattazione e la diffusione del lavoro precario. A partire dagli anni ’90, l’Italia ha introdotto numerose riforme del mercato del lavoro con l’obiettivo di renderlo più “flessibile”. Dal “pacchetto Treu” del 1997 alla legge Biagi del 2003, fino al Jobs Act del 2015, si è ampliato l’uso di contratti a termine, temporanei e part-time. Il risultato, nel tempo, è stato un mercato del lavoro duale: da un lato una quota di lavoratori stabili e tutelati (perlopiù più anziani), dall’altro una crescente platea di lavoratori discontinui, a bassa paga, con carriere frammentate. Oggi oltre 5,3 milioni di italiani hanno contratti non standard (precari o part-time)sbilanciamoci.info, e l’Italia vanta la percentuale più alta d’Europa di part-time involontario (quasi il 58%) files.cgil.it.
Questa precarizzazione incide direttamente sui salari medi: un giovane che lavora solo alcuni mesi all’anno o con orario ridotto avrà una retribuzione annua ben inferiore alla media. Infatti, nel 2022 il salario medio annuo nel settore privato italiano è risultato di appena 22.839 euro lordi (dato INPS che include anche chi ha lavorato parzialmente nell’anno) e quasi il 60% dei dipendenti guadagna meno di quella già modesta mediala (cittadisotto.org). Inoltre, ritardi e rinnovi contrattuali al ribasso hanno congelato per anni i minimi salariali di categoria, provocando una perdita di potere d’acquisto. La contrattazione collettiva negli ultimi decenni ha spesso accettato aumenti contenuti, scambiandoli con maggiore occupazione o evitando licenziamenti. Il risultato finale è che in Italia milioni di lavoratori, pur occupati, rientrano ormai nella fascia di “working poor”: secondo la CGIL, 5,7 milioni di dipendenti nel 2022 hanno percepito stipendi netti equivalenti a solo 850 euro al mese (in 12 mensilità), e altri 2 milioni circa intorno ai 1.200 euro mensilila (cittadisotto.org). Questi numeri spiegano perché i consumi interni rimangano deboli e perché la questione salariale sia anche una questione di domanda aggregata insufficiente. In definitiva, la flessibilità del lavoro “all’italiana” ha scaricato il rischio economico sui lavoratori, comprimendo retribuzioni e tutele, senza peraltro generare quel boom di produttività promesso dai suoi promotori.
Il declino relativo dell’Italia: confronto con Germania, Francia e Spagna
Che l’Italia abbia un problema unico in Europa lo confermano impietosamente i confronti internazionali. Nei primi anni ’90 i livelli retributivi medi italiani erano paragonabili a quelli di Francia e Germania. Nel 1991, ad esempio, lo stipendio medio annuo (a parità di potere d’acquisto) era attorno ai 30 mila euro sia in Italia che in Francia manpowergroup.it. Oggi la situazione è radicalmente cambiata: un lavoratore medio italiano guadagna circa 31,5 mila euro lordi l’anno, mentre un suo omologo tedesco supera i 45 mila e uno francese i 41 mila (files.cgil.it). La crescita dei salari reali in Italia è stata pari a zero negli ultimi 30 anni, a fronte di incrementi a due cifre negli altri grandi Paesi. Dal 1992 al 2022 i salari medi italiani hanno avuto una variazione reale complessiva di circa -0,9%, praticamente una stagnazione totale, mentre in Francia sono cresciuti di +31,6% e in Germania di +22,9% (files.cgil.it).
Anche la Spagna, che pure ha condiviso con noi una dinamica piatta (0% nello stesso periodofiles.cgil.it), partiva da livelli retributivi molto più bassi e in anni recenti ha introdotto salari minimi e aumenti che le hanno consentito di ridurre in parte il gap. Questo significa che l’Italia è scivolata indietro nella graduatoria europea dei redditi da lavoro: all’inizio degli anni ’90 eravamo il 7° Paese UE per salario medio(transform-italia.it), oggi saremmo in fondo alla classifica dell’Europa occidentale. Il divario con la Germania si è ampliato (nel 1992 il salario italiano medio era circa 5 mila euro inferiore a quello tedesco, oggi è quasi 14 mila euro inferiore) e quello con la Francia si è addirittura capovolto (da una leggera superiorità iniziale a oltre 10 mila euro annui in meno) files.cgil.it.
Figura 1: Andamento degli indici dei salari reali medi (1992=100) nelle maggiori economie UE. L’Italia (linea arancione) mostra una stagnazione di lungo periodo, a fronte di crescite significative in Francia (rosso) e Germania (giallo); andamento simile all’Italia solo per la Spagna (viola), con forte crescita pre-2008 seguita da un calo.
I grafici evidenziano chiaramente il declino relativo italiano. Mentre altrove i lavoratori hanno beneficiato almeno in parte dei progressi economici, in Italia i frutti della crescita non sono mai arrivati nelle buste paga della maggioranza. Anche guardando al PIL pro capite, indicatore sintetico del benessere medio, l’Italia arranca: nel 2000 il reddito per abitante italiano era leggermente superiore alla media UE15, ma entro il 2019 era sceso sotto la media europea (bancaditalia.it). In pratica, da vent’anni l’Italia non tiene il passo: tra il 2000 e il 2019 il nostro PIL pro capite reale è rimasto quasi fermo, mentre quello di Francia e Germania è aumentato sensibilmente (basti pensare che dal 1999 al 2018 la produttività oraria in Italia è cresciuta di appena +4%, contro il +20% circa dei principali partnersbilanciamoci.info, il che si riflette poi nei redditi). Ne è riprova il fatto che l’Italia è l’unico Paese OCSE in cui i salari reali medi nel 2020 fossero più bassi di quelli del 1990 (corriere.it). Secondo un rapporto Inapp presentato nel 2023, le retribuzioni italiane sono aumentate di appena l’1% dal 1991 al 2022, contro una media del +32,5% nell’area OCSE (quifinanza.it). Questa forbice spiega perché oggi i lavoratori italiani si sentano “più poveri” rispetto ai colleghi esteri e perché figure come Mattarella abbiano definito i salari una “grande questione nazionale”.
Va sottolineato che il problema salariale italiano non è dovuto a minore produttività individuale dei lavoratori, i quali anzi in molti casi lavorano più ore degli altri europei. Nel 2022 un dipendente italiano a tempo pieno ha lavorato in media 1.563 ore annue, più di un tedesco (1.295) e di un francese (1.427) files.cgil.it. Nonostante ciò, la quota di ricchezza prodotta che ritorna ai lavoratori sotto forma di salari è in Italia drammaticamente bassa: appena attorno al 50% del PIL, contro il 55-60% degli altri maggiori Paesi europeifiles.cgil.it. Studi recenti mostrano che nel nostro Paese la distribuzione del reddito si è spostata a vantaggio dei profitti: oggi i profitti rappresentano circa il 60% del valore aggiunto, mentre ai salari resta il 40% (quifinanza.it). È un indicatore di forte squilibrio distributivo, frutto di politiche che hanno tutelato rendite e capitale più di lavoro e welfare. In Francia e Germania, per fare un paragone, la quota salari sul PIL è di circa 55-58%files.cgil.it; anche la Spagna ci supera leggermente. Ciò significa che i lavoratori italiani, pur contribuendo attivamente all’economia, ne ricevono la fetta più piccola in termini di reddito.
Produttività ferma, pochi investimenti e crescenti disuguaglianze
Dietro la stagnazione dei salari c’è anche il nodo irrisolto della scarsa crescita della produttività. Un’economia che non diventa più efficiente fatica a generare aumenti reali di reddito. In Italia la produttività del lavoro è rimasta quasi piatta: appena +4% circa in due decenni (1999-2018) (sbilanciamoci.info). In Francia, Germania e gran parte d’Europa, invece, la produttività è aumentata molto più rapidamente (+20% o più nello stesso periodo) sbilanciamoci.info. Questa divergenza ha due implicazioni. Primo, ha eroso la competitività italiana, frenando la crescita del PIL e dunque la capacità di distribuire reddito. Secondo, ha fatto sì che anche volendo concedere aumenti consistenti, le imprese italiane avevano poco margine, perché il valore aggiunto per addetto non cresceva. Ma attenzione: produttività e salari sono legati a doppio filo, in un circolo che può essere virtuoso o vizioso. In Italia è prevalso quello vizioso: salari bassi hanno depresso la domanda interna e gli investimenti in capitale umano, contribuendo a loro volta a una bassa produttività. La Banca d’Italia ha notato come «la contenuta espansione della domanda interna, a sua volta influenzata dalla stagnazione dei consumi […] ha inciso su una dinamica retributiva in termini reali negativa»sbilanciamoci.info. Dunque salari fermi → consumi deboli → bassa crescita → bassa produttività → di nuovo pressione a tenere fermi i salari. Per spezzare questa spirale servirebbero investimenti e politiche di rilancio – esattamente ciò che è mancato per anni.
Un punto critico è proprio la carenza di investimenti pubblici e privati nell’economia italiana. Si è già detto del calo degli investimenti pubblici sotto i colpi dell’austerità. Anche il settore privato, per lungo tempo, ha preferito strategie di riduzione dei costi (delocalizzazioni, taglio del personale) anziché innovare e crescere dimensionalmente. Il tessuto industriale italiano, frammentato in moltissime PMI, ha spesso competito comprimendo i salari più che puntando su ricerca e prodotti ad alto valore aggiuntofiles.cgil.it. Questo modello labor-intensive ha generato molti impieghi a bassa qualifica e basso salario, «determinando così una minor massa salariale» complessiva (files.cgil.it).
In parallelo, l’erosione del potere contrattuale dei lavoratori – complici la disoccupazione elevata e la minaccia di spostare le produzioni altrove – ha fatto sì che gli aumenti di produttività che pure vi sono stati si traducessero in aumento dei profitti più che delle paghe. I dati sulla distribuzione del reddito citati in precedenza (quota salari scesa al 40%) lo confermano. L’incremento della disuguaglianza è diventato un tratto saliente: non solo tra lavoro e capitale, ma anche all’interno del mondo del lavoro, tra una minoranza di garantiti con stipendi relativamente elevati e una maggioranza con retribuzioni basse. Il coefficiente Gini (misura di disuguaglianza) dei redditi disponibili in Italia è passato da circa 0,29 dei primi anni ’90 a oltre 0,33 in epoca pre-pandemica, segno di un aumento delle disparità. In sintesi, le politiche economiche degli ultimi decenni – ispirate a un mix di rigore finanziario e liberismo di mercato – hanno sacrificato l’equità sociale e la crescita inclusiva, producendo l’attuale quadro di bassa crescita e alti divari.
Conclusioni: un monito che impone scelte diverse
Le dichiarazioni di Sergio Mattarella sui salari bassi rappresentano un importante riconoscimento istituzionale di una realtà che milioni di italiani vivono sulla propria pelle. È significativo che il massimo vertice dello Stato parli di “questione salariale” come di una priorità nazionale, legandola perfino al destino demografico del Paese. Tuttavia, come abbiamo visto, queste parole non possono essere isolate dal contesto storico-politico da cui scaturiscono. La contraddizione sta tutta qui: chi oggi condanna gli effetti (salari troppo bassi, precarietà, emigrazione giovanile) è tra coloro che negli anni hanno supportato, o quanto meno non ostacolato, le cause strutturali di questi fenomeni.
L’europeismo acritico, il rispetto quasi dogmatico dei vincoli di bilancio, la fiducia nelle “riforme di mercato” come panacea, hanno costituito la cifra delle scelte del Quirinale e dei governi di larga parte del periodo considerato. Quelle politiche, perseguite con coerenza, hanno avuto come esito vent’anni di crescita zero e salari fermi (quifinanza.it).
Oggi il j’accuse di Mattarella suona quindi anche un po’ ipocrita agli occhi di molti osservatori critici. Non basta riconoscere che «da troppi anni i salari sono bassi»; occorre domandarsi perché siano così bassi e cosa abbia mantenuto questa situazione invariata per decenni. La documentazione presentata in questo rapporto indica che non si è trattato di una sfortunata casualità, ma del portato di precise scelte di politica economica. Come nota un recente studio, in Italia «la polarizzazione dei bassi salari […] è il risultato di politiche economiche […] implementate dalle imprese» nel quadro della competizione neoliberista (transform-italia.it). In altri termini, i salari italiani non sono “fermi” per un fato inevitabile, ma perché si è scelto di tenerli tali – magari confidando che così facendo l’economia nel suo complesso ne beneficiasse. Purtroppo, è accaduto il contrario: comprimere i salari ha indebolito la nostra economia interna e non ci ha comunque resi abbastanza competitivi all’esterno, se non attraverso continue rinunce.
Se dalle parole del Presidente si vuole trarre una lezione politica, essa potrebbe essere la seguente: è ora di invertire la rotta. Continuare sulla stessa strada – quella dell’austerità mascherata, delle riforme che liberalizzano il lavoro ma non tutelano i lavoratori, della fede quasi ideologica nei vincoli europei anche a costo di strangolare la crescita – non farà che perpetuare il declino. Servono politiche nuove e coraggiose: rilancio degli investimenti pubblici (anche sfruttando la flessibilità sui fondi europei), un rafforzamento della contrattazione collettiva per distribuire meglio i guadagni di produttività, l’introduzione di un salario minimo legale adeguato (misura presente in molti Paesi UE) per alzare il pavimento retributivo e stimolare al rialzo anche i contratti nazionali. Occorre inoltre rivedere alcune regole europee – come il Patto di Stabilità – che hanno dimostrato di poter essere “pro-cicliche” e dannose nei momenti di crisi, e che rischiano di tornare in vigore senza correttivi significativi.
In definitiva, l’allarme lanciato da Mattarella sui salari può davvero diventare un punto di svolta solo se si ha la lucidità di riconoscere le responsabilità del passato e la volontà di rompere con esso. I dati lo evidenziano: l’Italia ha accumulato un ritardo enorme, e senza un cambio di paradigma rischia di condannare un’intera generazione alla precarietà permanente. La Festa dei Lavoratori 2025 passerà, ma le scelte politiche che seguiranno determineranno se in futuro questa ricorrenza sarà l’occasione per celebrare nuovi diritti e conquiste salariali – oppure per ripetere, anno dopo anno, gli stessi sterili lamenti. Il tempo delle denunce solitarie è finito: servono azioni concrete che mettano davvero il lavoro e i salari dignitosi al centro dell’agenda nazionale.
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Fonti (tutti i link nell’articolo):
Rapporto OIL 2024-25 (citato da Mattarella)
– Dati OCSE, Eurostat ed INPS rielaborati da files.cgil.it)
– Banca d’Italia (Relazioni annuali varie)
– Il Manifesto (1/5/2025)
– Il Fatto Quotidiano (29/4/2025)
– La Repubblica (29/9/2011)
– Corriere della Sera (9/5/2024)
– Transform! Italia (20/10/2021)
– Sbilanciamoci (2020, 2021, 2025)
– Inapp (2023)
– Dati Istat e Openpolis
– Discorsi e dichiarazioni ufficiali del Presidente Mattarella.
– ilmanifesto.it
– quifinanza.it