L’auto non tira più? Nessun problema. Basta sostituire il cofano con una torretta e il volante con un sistema di guida remota, ed ecco pronto il nuovo blindato da esportazione.
È questa, in sintesi, la logica che trapela dalle recenti dichiarazioni del ministro dell’Impresa e del Made in Italy, Adolfo Urso, riportate da Qui Finanza e Il Messaggero. La crisi dell’industria automobilistica? Perché non trasformarla in un’opportunità… per rafforzare la difesa nazionale?
In altre parole: se un settore è in crisi, invece di chiederci perché o come innovare davvero, si propone di deviarlo verso la produzione militare.
È un po’ come se, non riuscendo più a vendere ombrelli, ci mettessimo a produrre parabole radar. La forma è simile, ma la funzione — e il significato — cambiano radicalmente.
Dietro lo slogan “trasformare la necessità in opportunità”, si cela una scelta concreta: le fabbriche non vengono riconvertite per il bene comune, ma per rispondere a nuove priorità di mercato e di equilibri geopolitici distopici.
La spinta non è verso la sostenibilità, la ricerca civile o la mobilità pubblica, ma verso ciò che oggi ha domanda certa: la produzione bellica.
Con buona pace dei valori costituzionali e dell’interesse collettivo.
Urso ci rassicura: non si tratta di una deriva, ma di una “rivoluzione industriale”.
A ben vedere, però, sembra più una restaurazione — non del tessuto produttivo, ma di un’economia di guerra permanente, dove ogni crisi viene piegata per sostenere l’apparato militare.
Un tempo si diceva “costruiremo l’autostrada del Sole”; oggi sembra che il motto sia “costruiremo droni per l’agricoltura montana (e per altro, se serve)”.
La vera svolta, in fondo, è che la priorità non è più il benessere collettivo, ma l’alimentazione di un settore altamente redditizio, quello bellico.
Un comparto che garantisce fondi europei, slancio borsistico, solidità finanziaria… a patto che lo stato di emergenza resti acceso.
E cos’è la guerra, se non la più grande delle emergenze istituzionalizzate?
Il parallelo con la Germania lo dimostra chiaramente: mentre le case automobilistiche soffrono, il gigante dell’industria bellica Rheinmetall supera in capitalizzazione Volkswagen.
Anche in Italia si guarda in quella direzione: non si vendono più Panda? Allora via con i radar, i veicoli corazzati, i sistemi dual use.
Si chiama diversificazione, ma assomiglia molto a un compromesso strutturale, senza via di ritorno.
Al Tavolo Automotive del 14 marzo, Urso ha parlato chiaro: “vogliamo mettere in sicurezza le imprese e i lavoratori”.
La strategia? Incentivare la riconversione verso difesa, aerospazio, cybersicurezza e persino “blue economy” — un nome suggestivo, dietro cui si cela ben poco di poetico e molto di strategico.
Annunciati 2,5 miliardi di euro in tre anni.
Ma a quale prezzo?
Il ministro dell'Industria Adolfo Urso annuncia un piano per riconvertire le fabbriche di automobili in industrie belliche.#20Marzo #Meloni #Draghi pic.twitter.com/LNe2OMuGsG
— Elsa Diego (@ElsaaDiego) March 20, 2025
Certo, ufficialmente si parla di “difesa”, “innovazione”, “nuove opportunità”.
Ma è difficile non notare come tutto questo serva a sostenere un’unica parte dell’economia, che oggi promette ritorni veloci e politicamente giustificabili.
Il risultato? Si confondono — o meglio, si piegano — le carte della realtà, per far passare un’equazione tanto semplice quanto pericolosa:
produzione = valore, a prescindere da ciò che si produce.
Ma non è solo una questione industriale. È una questione morale. È una questione politica.
L’Unione Europea ha messo nero su bianco l’obiettivo: 3% del PIL destinato alla difesa. Il piano “ReArm Europe” ne vale 800 di miliardi.
Eppure, si tace — o si minimizza — ciò che questa nuova logica ha già generato.
In Ucraina è stata sacrificata un’intera generazione.
La Russia ha subito perdite enormi, difficilmente sostenibili a lungo.
E l’Europa, che da questa tragedia avrebbe dovuto trarre prudenza e riflessione, si mostra invece cinica, leggera, ipocrita.
Come se la guerra potesse essere assorbita nei bilanci, diluita nei grafici, convertita in crescita industriale.
Questo è ciò che sta accadendo davvero, con parole sempre più levigate, sempre più giustificanti.
Mentre si fabbricano droni, non si finanzia la ricerca civile, la sanità pubblica, la scuola, il trasporto sostenibile.
Non si costruiscono prospettive per i giovani, ma si alimenta l’illusione che basti cambiare destinazione d’uso a una fabbrica per garantire il futuro.
Ma il futuro non si costruisce armando le crisi.
Non basta ridipingere i capannoni di mimetico per dire che si governa.
Governare significa interrogarsi su che società vogliamo, quale economia ci serve, a cosa serve davvero lavorare.
Se la risposta ad ogni crisi è costruire armi, il problema non è più l’industria.
È il nostro modo di pensare. È una crisi culturale profonda.
E allora la vera domanda è:
come siamo arrivati fin qui, e soprattutto: perché ci stiamo abituando a restarci?
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