Questa corsa alle armi e all’esclusione non salva Kiev e nemmeno protegge l’Europa

L’Unione Europea si trova oggi a un bivio strategico: da un lato, un riarmo militare crescente mai visto dalla Guerra Fredda, dall’altro, una russofobia sistemica che ha ormai superato le ragioni originarie del sostegno all’Ucraina. Le recenti dichiarazioni dei leader occidentali, tra cui quelle del nuovo segretario generale della NATO, Mark Rutte, rivelano un’intenzione dichiarata: non tornare mai a una “normalizzazione” dei rapporti con Mosca, nemmeno in caso di cessate il fuoco o di fine del conflitto. Rutte ha affermato esplicitamente che “per decenni non ci potrà essere fiducia” verso la Russia e che l’Alleanza Atlantica continuerà a finanziare l’Ucraina con oltre 35 miliardi di euro nel solo 2025, proiettando il sostegno militare nel lungo periodo.

Questo posizionamento rigido rimuove dal discorso pubblico ogni analisi storica seria delle cause profonde del conflitto. Il colpo di Stato di Maidan del 2014, che ha rovesciato il presidente democraticamente eletto Viktor Yanukovych, fu il frutto di una pesante ingerenza occidentale, documentata anche dalle intercettazioni della viceministra americana Victoria Nuland e dal ruolo attivo di ONG e media sostenuti da Bruxelles. Dopo l’insediamento della nuova giunta, fortemente nazionalista e ostile alle minoranze russofone, sorsero spontaneamente le Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk, che rivendicavano forme di autonomia costituzionalmente previste.

In questo contesto, l’Occidente ha ulteriormente minato la fiducia con la palese violazione degli Accordi di Minsk I e II, sottoscritti sotto l’egida di Germania e Francia. Solo anni dopo, nel 2022, l’ex cancelliera Angela Merkel e l’ex presidente francese François Hollande hanno ammesso che quegli accordi non erano mai stati pensati per una reale pacificazione, ma erano serviti unicamente a guadagnare tempo per permettere all’Ucraina di riarmarsi in vista di un conflitto con la Russia.

A ciò si aggiungono i ripetuti tentativi diplomatici della Federazione Russa nel 2021 e 2022 di ottenere garanzie di sicurezza: Mosca chiedeva il rispetto della propria linea rossa sull’ingresso dell’Ucraina nella NATO, divenuto addirittura un obiettivo costituzionale a Kiev. Queste richieste furono ignorate, derise, e in certi casi umiliate pubblicamente, rendendo inevitabile l’escalation.

Sul piano strategico, l’intero impianto della sicurezza europea si reggeva su una promessa storica fatta nel 1990: nel corso delle trattative per la riunificazione tedesca, il segretario di Stato americano James Baker assicurò a Gorbaciov che la NATO non si sarebbe allargata “neanche di un pollice verso Est”. Quella promessa – sebbene mai formalizzata in un trattato – fu ampiamente tradita: dal 1999 in poi, la NATO ha inglobato 14 Paesi dell’ex blocco sovietico, avvicinandosi sempre più ai confini russi e includendo paesi come la Polonia, i Paesi baltici, la Romania, la Bulgaria e infine spingendo apertamente per l’adesione di Ucraina e Georgia.


Scelte storicamente miopi, ma anche strategicamente anacronistiche

Questa narrazione “rimossa” dalla memoria collettiva è fondamentale per comprendere la radicalizzazione della posizione russa e la percezione di accerchiamento da parte del Cremlino. Ignorarla – come fanno oggi molti leader occidentali – non solo deforma la realtà, ma rende impossibile qualunque via diplomatica, lasciando come unica opzione quella del conflitto permanente.

Alla luce di quanto esposto finora, appare evidente come la scelta di perseguire una linea dura verso la Russia non solo sia storicamente miope, ma anche strategicamente anacronistica. Ignorare gli antefatti – dal golpe di Maidan agli accordi di Minsk disattesi, fino al mancato ascolto delle richieste di sicurezza russe – rende l’attuale approccio occidentale ancora più insostenibile nel lungo periodo.

La permanente ossessione militare, priva di un corrispettivo diplomatico, lascia l’Europa senza alcun piano credibile di uscita negoziale. Non si intravedono domande autentiche, da parte della leadership europea, sulle conseguenze politiche e sociali di un conflitto prolungato o su come gestire una possibile transizione postbellica.

Come osserva lucidamente l’Atlantic Council, il recente vertice NATO non ha prodotto “nessuna azione sostanziale contro l’aggressione di Putin” e ha evitato di ridefinire una strategia complessiva per affrontare l’evoluzione della guerra. Le dichiarazioni di Mark Rutte al Summit dell’Aja nel giugno 2025 sono emblematiche di questa visione unidirezionale: “Dobbiamo continuare a fornire armi a Kiev per molti anni a venire”.

Da qui si apre lo spazio per una riflessione più profonda: quali saranno le conseguenze di un sostegno militare illimitato a una guerra che non prevede alcun armistizio né trattativa all’orizzonte? E a quale prezzo l’Europa sta rinunciando alla diplomazia come strumento di stabilizzazione?

L’assenza di una via diplomatica: escalation senza sbocchi

Nel quadro attuale, ogni prospettiva di soluzione diplomatica appare sempre più remota. I pochi tentativi di mediazione sono falliti o sono stati deliberatamente sabotati, mentre i canali di dialogo si sono progressivamente chiusi, uno dopo l’altro. È emblematica in tal senso la breve tregua concordata per la protezione delle infrastrutture energetiche, entrata in vigore il 18 marzo 2025: formalmente annunciata da entrambe le parti, è stata violata già nelle prime 48 ore, con scambi di accuse reciproche. Kiev ha denunciato nuovi attacchi russi alle centrali elettriche, mentre Mosca ha fatto lo stesso, puntando il dito contro bombardamenti ucraini su obiettivi civili.

La diplomazia ufficiale non ha offerto alternative migliori. Il vertice di Istanbul del 17 maggio 2025, durato meno di due ore, si è concluso in un nulla di fatto. La delegazione russa ha proposto condizioni giudicate “inaccettabili” da Kiev, tra cui il riconoscimento delle annessioni territoriali nel sud-est ucraino. Per il presidente Zelensky si trattava di “una resa mascherata”. Al termine dell’incontro, il capo negoziatore russo Vladimir Medinsky ha sintetizzato la posizione del Cremlino in modo lapidario: “Non vogliamo la guerra, ma siamo pronti a combattere un anno, due, tre, finché sarà necessario”.

In questo scenario bloccato, l’Occidente continua a investire tutto sul prolungamento del conflitto, senza mettere in campo neppure un minimo sforzo parallelo per tenere aperto uno spiraglio negoziale. Al contrario, si moltiplicano le azioni che chiudono ulteriormente ogni spazio di compromesso. Un esempio evidente è la firma, avvenuta il 25 giugno 2025 a Strasburgo, dell’accordo tra Zelensky e il Consiglio d’Europa per l’istituzione di un tribunale internazionale sul “crimine di aggressione” commesso dalla Russia. Il presidente ucraino ha evocato direttamente il precedente di Norimberga: “Il mondo non dimenticherà mai Norimberga. Ora serve un nuovo tribunale per l’aggressione russa”.

Volodymyr Zelensky ha firmato a Strasburgo (CoE) l’accordo per un tribunale contro il “crimine di aggressione” russa (Euronews)

L’iniziativa – applaudita in aula con numerose standing ovation dai parlamentari europei – è stata accolta con entusiasmo unanime, senza che nessun leader occidentale sollevasse dubbi sulla pericolosità simbolica e politica di una simile radicalizzazione legale. Più che uno strumento di giustizia, molti osservatori esterni vi hanno visto un atto ideologico che spazza via ogni possibilità di compromesso futuro e istituzionalizza la guerra come unica prospettiva. È in questo contesto che alcuni analisti hanno parlato di un vero e proprio “delirio collettivo delle élite europee”, incapaci di distinguere il piano della realtà da quello della propaganda, e cieche di fronte alle ricadute geopolitiche, economiche e morali di un simile approccio.

Corsa agli armamenti e rischi di escalation

La risposta occidentale è stata quella di alzare ulteriormente l’asticella militare. Con la spinta di Trump a spendere di più, la NATO ha stabilito una nuova soglia strategica: ogni membro dovrà destinare almeno il 5% del PIL alla difesa entro il 2035. Si tratta di una decisione fortemente simbolica: da un lato si promette di potenziare significativamente le capacità militari europee, dall’altro si riaccende una spirale di armamenti. Il segretario di Stato USA ha già rivendicato questo obiettivo come una vittoria di Trump, mentre Rutte ha presentato i nuovi impegni come volti a costruire una NATO “più letale”. Mosca ha reagito chiamandoli “pericolosi” ed etichettando l’aumento militare come frutto di uno “spauracchio demoniaco” fabbricato ad arte.

Sul terreno, la potenza di fuoco russa si amplia in risposta. Il 23 giugno 2025 lo stesso Putin ha annunciato che il nuovo missile ipersonico Oreshnik è entrato in produzione seriale. “La produzione in serie del missile Oreshnik è in corso”, ha affermato ai cadetti; “si è dimostrato eccellente in condizioni di combattimento”. Putin ha anche rivendicato di avere ordini in vista di nuove missioni ad alta capacità distruttiva in risposta ai colpi occidentali, con l’Oreshnik definito “impossibile da intercettare” e paragonabile a un’arma nucleare. In breve, l’Europa sceglie di scaricare tutto sull’aumento di spese e armamenti, lasciando che Mosca faccia altrettanto: così si moltiplicano armi da una parte e dall’altra senza alcuna garanzia di vittoria politica.

Starmer e la guerra come volano economico

Il Regno Unito ha incarnato questo approccio come un modello di “guerra-industria” economica. Il primo ministro Keir Starmer ha annunciato un pacchetto di aiuti militari da 4,5 miliardi di sterline per il 2025, attingendo anche agli interessi sui beni russi congelati, e ha esplicitamente collegato il sostegno bellico allo sviluppo di posti di lavoro nel settore difesa. Il governo ha dichiarato che tali spese “sostengono l’industria nazionale, creando posti di lavoro”. Starmer ha definito il piano parte del suo “Piano per il cambiamento” economico, sottolineando come “l’investimento” nella Difesa – legato alla minaccia russa – garantirà la crescita delle imprese e i “posti altamente qualificati”. Tale retorica è stata tuttavia criticata come ipocrita. Fonti investigative come Declassified UK notano che la fornitura di armamenti all’Ucraina viene ampiamente vista a Londra come un sussidio pubblico alle grandi aziende belliche. Come osserva l’analista Mark Curtis, un aumento della spesa militare è presentato ufficialmente per “sostenere i posti di lavoro e gli apprendistati”, ma di fatto finanzia gigantesche commesse a BAE Systems, Thales e simili. I contributi all’Ucraina finiscono per rinnovare le scorte britanniche di armamenti – con ulteriori contratti agli stessi produttori – e fanno della guerra un motore dell’industria di difesa locale. L’idea di concepire la guerra in termini di “dividendo industriale” è palesemnete contraddittoria : anziché una missione umanitaria, tutto sembra pensato per muovere l’economia, a scapito di una reale prospettiva di pace.

Dipendenza da fuoco continuo e illusioni di vittoria

Un altro aspetto critico è che il governo ucraino sembra incatenato alla logica bellica. Zelensky è stato equiparato a un “malato dipendente” dalle continue iniezioni di armamenti: l’Ucraina ha scorte di armi accumulate, ma pochi soldati per usarle al meglio, a differenza di un esercito russo numericamente superiore. E non c’è un “piano B”: i vertici occidentali parlano solo di intensificare il conflitto. Ne è esempio l’ipotesi, sostenuta da alcuni generali USA in audizioni parlamentari, di un possibile “percorso di vittoria” per Kiev. Ma le analisi degli esperti smentiscono clamorosamente queste speranze. Un rapporto del think-tank CSIS osserva che senza il supporto americano l’Ucraina non crollerebbe immediatamente, ma subirebbe gravi conseguenze: il taglio degli aiuti militari statunitensi “danneggerebbe significativamente” la capacità di Kiev di combattere. Gli Stati Uniti forniscono armi, addestramento e intelligence su cui l’Ucraina fa fortemente affidamento, e i partner europei non sono ancora in grado di compensare tale gap.

In altre parole, senza un’inversione di tendenza diplomatica, l’opzione di alimentare il conflitto costa caro: aumenta il rischio che il conflitto si trascini a lungo anche senza esito decisivo. Nel frattempo, il presidente Zelensky rincara la dose mediatica: mentre l’Ucraina è in difficoltà (anche un senatore al Congresso USA ha ricordato che Kiev rischia l’esaurimento delle truppe), il leader ucraino insiste con appelli estremi. Come abbiamo appena visto, pochi giorni fa ha chiesto un vero e proprio tribunale internazionale alla Norimberga per processare i vertici russi, una misura destinata ad irrigidire ulteriormente Mosca e chiudere ogni via diplomatica. In Parlamento Europeo, i deputati in piedi hanno applaudito il messaggio di Zelensky, ignorando sebbene l’impatto destabilizzante di tali proposte. Solo un isolamento totale della Russia, sembravano dire, potrà rendere giustizia all’Ucraina. Ma anche questa linea di pensiero – quella della delegittimazione totale del nemico – riflette un atteggiamento intransigente e ideologico, che accantona ogni prudenza politica.

Possibili voci critiche e punti di vista alternativi

Va tuttavia riconosciuto che non tutti in Occidente sono unanimi su questa strategia bellicista. Alcune voci critiche sono emerse, talvolta anche tra gli alleati europei meno martellanti, mettendo in guardia sui pericoli. Analisti vicini ai vertici dell’UE e della NATO notano ad esempio come nella dichiarazione finale di giugno si sia preferito dribblare il tema di lungo termine con la Russia, concentrandosi unicamente sul riarmo. Gruppi di riflessione europei avvertono che puntare solo sulle armi senza soluzione politica apre la strada alla guerra permanente. Interventi di leader come lo slovacco Fico, l’autriaco Heger o altri esponenti conservatori hanno ricordato che la Russia considera un pericolo qualsiasi allargamento dell’Alleanza, e che una frenata dei discorsi bellici potrebbe, paradossalmente, allentare le tensioni. Perfino all’interno dell’Unione, partiti di sinistra o del Nord Europa hanno chiesto un dibattito serio su come usare il potere militare occidentale senza sfociare in un conflitto globale. Queste opinioni – pur marginali al momento – mettono in luce la difficoltà di rendere sostenibile una strategia di solo “fino alla vittoria”: nessuno può davvero promettere a Kiev una soluzione rapida solo con le armi. Inoltre, va considerato l’effetto dirompente della propaganda: molti elettori europei non condividono affatto la russofobia di regime, ma percepiscono che i loro leader stanno mettendo a rischio il continente. Economisti e leader politici impopolari avvertono che la corsa agli armamenti impoverirà l’Europa e la allontanerà da problemi interni urgenti. Nel dibattito pubblico alternativo (nei media indipendenti, nei think-tank critici e sui social) si sottolinea che l’Occidente sta firmando una condanna a morte politica per l’Ucraina, prolungando il conflitto piuttosto che cercare una soluzione negoziale. Alcuni osservatori citano addirittura le parole dello stesso Putin a conferma di questi timori: come ha dichiarato di recente un negoziatore russo, “Non vogliamo la guerra, ma siamo pronti a combattere un anno, due, tre, finché sarà necessario”. Questa frase getta luce sull’obiettivo di Mosca: non invadere l’Europa, ma impedirne l’espansione militare.

Conclusione: una deriva pericolosa

In definitiva, la direzione intrapresa appare illogica e potenzialmente suicida per l’Europa e i suoi alleati. A fronte di un presidente ucraino “dipendente” dalla guerra e di un esercito russo che, secondo gli stessi annunci di Mosca, non desidera ulteriori espansioni ma punta a neutralizzare ogni minaccia, l’Occidente sta disegnando uno scontro che potrebbe travalicare le intenzioni iniziali. Nessuno sembra domandarsi cosa accadrebbe se, a conflitto concluso, la Russia dovesse considerare l’ingresso di Kiev nell’UE una minaccia simile a quella dell’adesione alla NATO.

Dall’altro lato, la consolidata integrazione fra NATO e politica estera dell’UE rende estremamente sfocato il confine fra obiettivi “europei” e “atlantisti”. Come osserva l’ex presidente russo Medvedev, l’Unione di oggi è “un nemico della Russia” non meno della NATO, carico di armi fino ai denti. In queste condizioni è evidente che Mosca non potrà accettare un’Ucraina membro dell’UE – la considera un cambio di paradigma, un intervento occidentale diretto ai suoi confini. L’Europa è quindi precipitata in una crisi istituzionale: governi tecnocrati e parlamenti unanimi promuovono una politica estera che non sembra più sotto controllo dei cittadini. Il rischio è quello di una guerra prolungata, in cui il “blocco atlantico” non ottiene alcuna resa dell’avversario e al tempo stesso mette a repentaglio la propria sicurezza collettiva. Al momento le fonti alternative e critiche sottolineano questo drammatico paradosso: nel chiudere tutte le vie di uscita politica, l’Occidente accelera verso un conflitto più vasto. Questa corsa alle armi e all’esclusione non salva Kiev – la condanna – e nemmeno protegge l’Europa: al contrario, rischia di riportare la guerra sul suolo del continente, disattendendo tutti gli scopi dichiarati del sostegno all’Ucraina

☕ Hai un caffè per me?

Scrivere, approfondire e scavare oltre la superficie richiede tempo, passione... e parecchia caffeina! 😅

Se ti piace quello che leggi su Vietato Parlare, puoi offrirmi un caffè simbolico (o più di uno) per tenermi sveglio e continuare questo lavoro controcorrente. Anche mensilmente, se ti va!

☕ Offrimi un caffè

✍️ Vietato Parlare – Spunti per una visione oltre le apparenze