C’è chi si prepara a una gita fuori porta, chi si organizza per le vacanze, e poi c’è la Commissione Europea, che invece invita i cittadini dell’Unione a “prepararsi a possibili crisi ed emergenze”. Che dire: cambia la stagione, cambiano i virus, ma l’emergenza resta. E come al supermercato si mettono dieci bottiglie di whisky sotto una vaschetta di insalata per non sembrare alcolizzati, così Bruxelles infila la guerra tra le “emergenze” – insieme a pandemie, disastri naturali, attacchi informatici e crisi climatiche – per non sembrare guerrafondaia. Ma la bottiglia che spunta dalla busta, ahimè, si vede benissimo.
La nuova “Strategia di preparazione dell’Unione” (Preparedness Union Strategy), in teoria, vuole solo rafforzare la resilienza dei cittadini europei. Nella pratica, ci esorta a fare scorte di beni essenziali per almeno 72 ore: acqua, cibo, medicine, batterie… quasi che la tempesta in arrivo fosse una guerra – ma non detta – contro un nemico anch’esso mai nominato, ma evocato. Il tutto incorniciato dalla creazione di piattaforme informative, esercitazioni civili e una vera e propria “cultura della preparazione”. Peccato che il profumo di guerra si senta più di quello delle conserve nei rifugi.
La guerra è nell’aria, ma non si dice
La vera domanda è: perché mai oggi, nel 2025, dovremmo temere una guerra più di quanto non sia accaduto nei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale? Nemmeno negli anni ’80, in piena Guerra Fredda e con i missili puntati sulla testa, ci si azzardava a invitare la popolazione europea a fare scorte. Oggi invece, con la stessa naturalezza con cui si consiglia un abbonamento alla palestra, si suggerisce di essere pronti a vivere per tre giorni senza acqua corrente.
Ma c’è una logica, eccome: si sta costruendo un consenso psicologico, un’assuefazione all’idea della guerra come orizzonte inevitabile, quasi desiderabile, come fu la pandemia per l’industria farmaceutica o la crisi climatica per il mercato delle transizioni verdi. “Prepararsi” non è solo mettere da parte scatolette, è addestrarsi mentalmente ad accettare tutto: dal riarmo, al controllo, fino all’idea che chi dissente è un pericolo da zittire.
La paura come strumento politico
La sociologia del controllo lo insegna: la paura è la forma più efficace di governo. Lo sapeva bene Michel Foucault, ma anche Don Luigi Sturzo, che nel 1949 ammoniva: “Quando lo Stato invade tutto, anche la libertà dell’anima è minacciata.” Ecco, la “strategia di preparazione” della Commissione odora proprio di quella minaccia. Perché se da una parte si costruisce lo spettro dell’invasione russa, dall’altra si pongono le basi per leggi speciali, censura sistematica, omologazione dell’informazione e nuove forme di mobilitazione forzata delle coscienze.
Abbiamo già visto questo film: si chiama pandemia. E non è stato un documentario.
Il copione già scritto
Ricordiamo? Amplificazione mediatica del pericolo, personaggi noti a reti unificate che recitano lo stesso copione, criminalizzazione del dissenso, leggi ad hoc sull’informazione, e infine inviti paternalistici al sacrificio per “il bene comune”. Oggi, si cambia solo lo scenario: dal virus al conflitto bellico. Ma il metodo è identico, scientifico, implacabile.
E non è un caso che proprio mentre si allerta la popolazione a prepararsi “a tutto”, la stessa Unione Europea:
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arma l’Ucraina fino all’ultimo euro,
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ostacola ogni via diplomatica,
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spinge gli Stati Uniti a non trattare con Mosca,
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e condanna ogni proposta di pace come “filorussa”.
Nel frattempo, si legittimano manovre autoritarie: dall’annullamento delle elezioni in Romania fino al tentato omicidio del premier slovacco. Tutto in nome della democrazia, ovviamente. Come disse Piero Calamandrei: “In nome della libertà si preparano le catene.”
L’economia della guerra, l’anestesia delle menti
C’è da chiedersi se la guerra non sia diventata la vera strategia di rilancio economico europeo. Il riarmo ha sostituito il welfare. La spesa pubblica serve ora a comprare armi, non a curare i cittadini. La pace è un intralcio. E la “cultura della preparazione” è solo una raffinata operazione di anestesia collettiva, dove la paura giustifica tutto: dal controllo ai prelievi forzosi, dalle censure alla fine del dissenso.
Come ci ammoniva Pasolini: “Ci si accorge troppo tardi che si è cominciato a morire quando si è cominciato ad obbedire.”
Si invitano i cittadini alla guerra
No, non siamo ciechi. E no, non siamo ingenui. L’invito a fare scorte non è che l’ennesima tappa di un percorso che prepara gli europei, sì, ma non a difendersi da un pericolo reale, bensì ad accettarne uno costruito, o quanto meno politicamente utile. È la trasformazione della cittadinanza in manodopera mentale per l’industria del conflitto: si educano le coscienze non alla pace, ma alla necessità della guerra.
E qui sta il punto più inquietante: quando si abitua la popolazione all’idea della guerra, ma senza dichiararla apertamente, si partecipa già alla guerra, nel modo più subdolo. Perché non chiamare la guerra con il suo nome mentre si agisce come se fosse imminente, significa privare i cittadini della possibilità di giudicare con chiarezza ciò che accade.
Significa inoculare la paura, stimolare la rassegnazione, sospendere il dibattito, e predisporre le masse a giustificare ogni azione futura: sanzioni, censure, militarizzazione, sacrifici economici. Tutto sarà visto come inevitabile, necessario, quasi giusto. E chi prepara le condizioni mentali e psicologiche per accettare la guerra, pur fingendo di volerla evitare, ne è già complice.
La retorica della “preparazione” così com’è presentata oggi non rafforza la nostra resilienza: la indebolisce, perché sostituisce la libertà con il riflesso condizionato, il pensiero critico con l’obbedienza, la pace con la paura ben confezionata. Come ammoniva Norberto Bobbio, “non si difendono le democrazie con la menzogna, ma con la verità.”
E allora diciamola tutta: nessuna emergenza vera si prepara così a lungo e con tanta enfasi comunicativa, se non quella che si vuole rendere strutturale. La guerra che non si osa nominare è già iniziata nelle menti. Ma chi resiste al panico organizzato, chi giudica e si prepara sì, ma a non accettare la logica del nemico a tutti i costi, sarà l’unico a custodire davvero ciò che resta della civiltà europea.
Perché – per dirla con parole semplici – se ci preparano alla guerra, ma senza dircelo, non ci stanno proteggendo: ci stanno usando.