NATO: Pace o supremazia? L’ipocrisia di una postura che alimenta il conflitto

“Anche dopo la pace in Ucraina, non ci sarà normalizzazione con la Russia. La minaccia russa resta. Forse, tra molti decenni, dopo Putin, si potrà sperare in qualcosa.”

Queste parole non provengono da un commentatore da talk show né da un think tank ideologizzato: sono del segretario generale della NATO, Mark Rutte. E rappresentano la direzione ufficiale di un’alleanza che, nata per la difesa collettiva e la deterrenza, oggi appare sempre più come un attore geopolitico offensivo, interessato a consolidare un nuovo ordine unilaterale piuttosto che a evitare una guerra globale.

Rutte ci sta dicendo, senza mezzi termini, che il futuro delle relazioni internazionali non contempla il reintegro della Russia nel consesso delle nazioni, anche in caso di fine della guerra in Ucraina. Un’assoluta negazione diplomatica che tradisce la vera postura della NATO: non la ricerca della stabilità, ma la costruzione di un nemico permanente, necessario per giustificare la propria espansione, i propri bilanci, e la propria esistenza.

Una strategia preordinata

Negli ultimi trent’anni, nonostante le promesse fatte a Gorbaciov, l’alleanza atlantica ha sistematicamente spinto i propri confini verso est, inglobando Paesi dell’ex blocco sovietico. Una mossa che, come ampiamente previsto da decine di esperti occidentali – da George Kennan a Henry Kissinger – avrebbe portato instabilità, polarizzazione e rischio di conflitto.

Non solo. Attraverso ONG, fondazioni e progetti di “cooperazione”, la NATO ha progressivamente esercitato una pressione culturale e politica sui Paesi dell’Est Europa, contribuendo in molti casi alla delegittimazione di governi sgraditi, anche tramite meccanismi elettorali non sempre trasparenti. Il “soft power” si è trasformato in un martello silenzioso per allineare le democrazie a un ordine ben preciso.

Un doppio standard intollerabile

In questo contesto, la demonizzazione della Russia appare non solo sproporzionata, ma sospetta. La guerra in Ucraina è certamente una tragedia, ma ignorare la responsabilità diretta dell’Occidente nell’aver costruito – pezzo dopo pezzo – le condizioni per un conflitto “esistenziale” per Mosca, significa mistificare la realtà.

E mentre si invocano sanzioni, isolamento e rifiuto del dialogo con Mosca, il silenzio assordante su alcune dichiarazioni provenienti da Washington fa riflettere. Donald Trump ha affermato apertamente che annetterebbe la Groenlandia, territorio sovrano danese, e che il Canada potrebbe diventare il 51° stato degli Stati Uniti. Nessuno protesta, nessuna levata di scudi dalla comunità internazionale. Nessuna scomunica diplomatica.

Due pesi, due misure. Sempre.

Pace o pretesto?

Se davvero la NATO fosse interessata alla pace, si adopererebbe per favorire i negoziati, invece di denigrare ogni ipotesi di riconciliazione. Se davvero il suo scopo fosse la sicurezza europea, accoglierebbe con rispetto ogni proposta di Trump o di altri attori volta a risolvere il conflitto ucraino, invece di evocare minacce esistenziali con toni messianici.

Ciò che sembra emergere, invece, è una postura rigida, ideologica, volta non a costruire ponti ma a bruciarli. Una NATO che ha smesso di essere un’alleanza difensiva per trasformarsi in uno strumento di dominio globale, impermeabile a ogni autocritica.

E allora la domanda è lecita: siamo davvero davanti a un progetto di pace, o a un ordine imperiale travestito da alleanza? È ancora possibile un’Europa che pensa con la propria testa, o siamo destinati a seguire ciecamente chi vuole perpetuare lo stato di guerra, anche dopo la pace? Ed è l’Europa che si serve dell’Alleanza o L’alleanza che nel tempo ha inglobato l’Europa?

La risposta, come sempre, si trova nel giudizio sulla realtà. E oggi, la realtà ci parla chiaramente: la guerra è il nuovo status quo. E chi propone la pace, viene osteggiato.

Una scelta che parla da sé

In definitiva, ciò che colpisce ancor più di queste dichiarazioni è il profilo stesso di Mark Rutte. La sua designazione a capo della NATO non sembra rispondere al criterio di un leader equilibrato e diplomaticamente capace di gestire una transizione delicata verso la pace. Al contrario, Rutte appare come l’ennesima figura scelta secondo una logica precisa: l’adesione ideologica a una linea russofoba, divenuta ormai precondizione implicita per occupare posizioni di vertice nel panorama euro-atlantico.

Ed è proprio questo a risultare singolare: tale orientamento non solo ignora ogni prospettiva di distensione, ma si impone nonostante il nuovo indirizzo della presidenza Trump, che ha chiaramente espresso l’intenzione di ridimensionare il coinvolgimento americano nella guerra in Ucraina e di riaprire il dialogo con Mosca.

In questa luce, la postura della NATO assume contorni ancora più inquietanti: non si tratta solo di un’organizzazione militare con obiettivi strategici propri, ma di un soggetto politico attivo, in aperta contrapposizione con l’amministrazione americana in carica. In altre parole, la NATO sembra ormai agire contro il progetto di pacificazione e di riorientamento internazionale promosso da Trump e dal movimento che lo sostiene.

Ma come è possibile che un’alleanza militare internazionale, dominata strutturalmente dagli Stati Uniti e sotto comando militare americano, esprima al vertice politico una linea opposta e quasi “dissidente”?
Chi detta davvero la linea, se il Segretario Generale può permettersi di ignorare, anzi osteggiare, le intenzioni del Presidente americano?

La risposta non è solo politica, ma sistemica: la NATO non è più semplicemente uno strumento degli Stati, ma è diventata una macchina ideologica autonoma, alimentata da interessi transnazionali, lobby belliciste e una burocrazia che risponde più a Bruxelles e Washington D.C. (deep state) che ai popoli e ai governi eletti.

E così, mentre il mondo invoca pace e buon senso, l’alleanza nata per garantire sicurezza sembra voler garantire solo una cosa: la continuità della guerra, purché sia quella “giusta”.