Narcos venezuelani in missione anti-USA? Maduro sorride, la CIA prende appunti

Negli Stati Uniti la guerra alla droga è cosa seria. Talmente seria che ogni tanto si fa con la droga stessa (verso stati ‘ostili’ o che semplicemente si oppogono alla propria influenza). Così, da decenni, ogni presidente americano dichiara guerra ai narcotrafficanti con lo stesso fervore con cui si promette la fine dell’obesità agli americani promuovendo una dieta più sana o si annuncia il ritorno del sogno americano. Ma come in una serie Netflix piena di colpi di scena, spesso si scopre che chi combatte i cattivi… a volte li ha anche assunti.

Ultimo episodio: Donald Trump e il Venezuela. Secondo il presidente, gang venezuelane come il Tren de Aragua si starebbero infiltrando negli Stati Uniti come parte di un subdolo piano ordito da Nicolás Maduro. Una specie di “Narcos-Carovana”, versione bolivariana del cavallo di Troia, dove dentro non ci sono soldati ma trafficanti tatuati fino ai denti. Peccato che Maduro abbia risposto piccato, rovesciando la narrazione: altro che regia sua, queste gang – dice lui – sarebbero strumenti dell’opposizione filoamericana per destabilizzare il governo venezuelano. Un’accusa che, a ben guardare, suona come una vendetta semantica per decenni di “aiutini” forniti dagli Stati Uniti a bande ben più redditizie.

Già, perché se si guarda al curriculum internazionale a stelle e strisce, i rapporti con il narcotraffico assumono i contorni di un vecchio matrimonio: ufficialmente finito, ma con una relazione complicata in privato.

Afghanistan: eroina, mujaheddin e affari d’oro

Negli anni ’80, mentre Rambo combatteva i sovietici in Afghanistan, la CIA faceva lo stesso – ma con metodi meno spettacolari e più opachi. Tra gli alleati più zelanti della lotta anticomunista c’era Gulbuddin Hekmatyar, noto tanto per odiare l’URSS quanto per trafficare oppio. Secondo lo storico Alfred McCoy, l’eroina diventò il carburante economico della resistenza afghana, mentre la CIA, pur non sporcandosi le mani direttamente, pare abbia preferito non guardare troppo da vicino certi carichi. Una scelta logistica: meglio oppio e Kalashnikov che comunismo e bandiere rosse.

Più avanti, durante l’occupazione post-2001, salta fuori che Ahmed Wali Karzai – fratello del presidente afghano e amico degli americani – riceveva fondi dalla CIA mentre veniva accusato di trafficare oppio. Ma è naturale: era tutto per “la stabilità della regione”.

America Latina: cocaina, Contras e silenzi strategici

Passiamo al Nicaragua, anni ’80. La CIA sostiene i Contras contro il governo sandinista. Nel frattempo, secondo le inchieste del giornalista Gary Webb, una parte di questi ribelli arrotonda esportando cocaina negli Stati Uniti. I proventi? Utilizzati per finanziare la lotta “per la libertà”. La CIA – sorpresa! – pare fosse al corrente, ma evitò di intervenire. Dopotutto, che sarà mai un po’ di droga nel cortile di casa se può tenere lontano il comunismo?

Ancora più gustoso è il caso del cartello di Guadalajara: i narcotrafficanti messicani fornivano armi e denaro proprio ai Contras, con la benedizione silenziosa di agenzie collegate alla CIA. Un intreccio così stretto da far impallidire chi si rivolge solo alla ‘informazione di facciata’.

Vietnam: oppio in volo e milizie sovvenzionate

Ed ancora: Durante la guerra del Vietnam, l’Air America – compagnia aerea gestita dalla CIA – trasportava materiali in Laos e Cambogia, nel cuore del Triangolo d’Oro. Secondo alcune testimonianze, insieme a viveri e armi, volava anche un carico più redditizio: l’oppio. Gli alleati locali – come il generale hmong Vang Pao – usavano i profitti del papavero per combattere i comunisti, con la CIA che pare tollerasse, se non facilitasse, la logistica.

Nel frattempo, generali sudvietnamiti coinvolti nel traffico smerciavano eroina perfino ai soldati americani. Il risultato? Una generazione di reduci che, oltre al trauma della guerra, si portava a casa un’altra dipendenza. Ma ehi, almeno non erano diventati comunisti.


La coerenza della guerra alla droga: solo quando conviene

La morale? Gli Stati Uniti, paladini della war on drugs, sembrano adottare un principio molto americano: “business is business”. Se la lotta alla droga intralcia gli interessi geopolitici, allora meglio sorvolare – letteralmente – sul problema. E quando può servire per destabilizzare un paese, i trafficanti possono essere utili alleati, plausibilmente come in Venezuela.

Questo non significa che la CIA gestisca i cartelli o che la Casa Bianca abbia piani per distribuire metanfetamine. Ma indica una tendenza strutturale: quando si tratta di scegliere tra un alleato tossico e un nemico ideologico, spesso si sceglie il primo. E se in mezzo ci scappa un container di cocaina… pazienza, purché serva alla causa.

Nel frattempo, il cittadino americano viene ammonito con spot televisivi, leggi severe e carceri affollate. Perché la droga è il male. Almeno quella che non rientra nei patti segreti di politica estera.

E così, mentre Trump denuncia il Tren de Aragua, Maduro – paradossalmente – risponde con la logica della geopolitica: chi ha avuto, ha dato. E la guerra alla droga, come tante guerre, si rivela un’opera di teatro ben diretta. Dove i ruoli si confondono, i nemici diventano strumenti e le vittime… quasi sempre, sono sul palcoscenico sbagliato.

Ora, è probabile che Trump sia sinceramente intenzionato a proteggere il proprio Paese. Ma nel farlo, adotta un pericoloso bias cognitivo: vedere minacce solo dove conviene e agire con forza solo contro chi è più debole. Un approccio del genere non fa che moltiplicare i nemici, alimentare tensioni e compromettere ogni possibilità di stabilità duratura.

Esasperando il confronto con i vulnerabili e riservando cautela – o addirittura complicità – verso i più forti, si costruisce un ordine mondiale basato sull’arbitrio, non sulla giustizia. E così, anziché promuovere un ambiente di pace e prosperità, si contribuisce a un mondo più instabile, più cinico… e molto meno sicuro, anche per gli stessi Stati Uniti d’America.