Introduzione: cos’è il programma Prevent?
Il Prevent è un programma di anti-radicalizzazione del governo britannico, parte integrante della strategia anti-terrorismo nazionale (Contest). La sua missione dichiarata è “fermare le persone dal diventare terroristi o dal sostenere il terrorismo” attraverso interventi preventivi che affrontino i fattori personali, ideologici e sociali che rendono alcuni individui vulnerabili alla radicalizzazione.
In pratica, Prevent opera in collaborazione con professionisti di prima linea – insegnanti, medici, assistenti sociali, polizia, associazioni – per individuare tempestivamente segnali di estremismo e offrire supporto (il cosiddetto programma Channel) a chi rischia di essere attirato nell’estremismo violento.
Nato nel 2006 e rafforzato dal Counter-Terrorism and Security Act del 2015, Prevent si applica a tutte le forme di terrorismo, dall’estremismo islamista all’estrema destra, senza limiti d’età. Ufficialmente, il governo sottolinea che “il dovere di Prevent non impone alcuna restrizione alla libertà di parola” né prende di mira specifiche comunità. Tuttavia, come vedremo, proprio l’interpretazione estensiva di cosa costituisca “ideologia estremista” ha attirato critiche accese. In particolare, alcune recenti linee guida di Prevent presentano casi paradossali che meritano attenzione critica.
Quando il dissenso diventa “ideologia terroristica”
Stando alle nuove indicazioni del programma Prevent, esprimere preoccupazione per l’immigrazione di massa può far scattare un campanello d’allarme di radicalizzazione. Un modulo di formazione online ospitato sul sito governativo di Prevent identifica il “nazionalismo culturale” come una delle convinzioni che potrebbero portare a un referral (segnalazione) per deradicalizzazione
spectator.co.uk. Questo termine viene definito in modo esplicito: comprende la convinzione che “la cultura occidentale sia minacciata dalle migrazioni di massa e dalla mancata integrazione di alcuni gruppi etnici e culturali”
spectator.co.uk.
In altre parole, secondo l’impostazione odierna di Prevent, ritenere che l’arrivo massiccio di migranti e la mancata assimilazione possano erodere i valori occidentali è annoverato tra gli indicatori di ideologia estremista/terrorista. Si tratta di una posizione istituzionale sorprendente, evidenziata anche da organi di stampa nazionali. «La preoccupazione per la migrazione di massa è ora classificata come ‘ideologia terrorista’ potenziale dal programma anti-radicalizzazione Prevent del governo», riportava ad esempio il Spectator nel giugno 2025, sottolineando come tale impostazione estremamente iper-liberale rischi di patologizzare il normale dibattito pubblico.
Un’affermazione del genere – equiparare un timore culturale diffuso a sintomo di terrorismo – dimostra come il significato delle parole possa essere svuotato e piegato alle esigenze ideologiche del momento. Non si cerca più la verità dei fatti, ma si manipola il linguaggio per delegittimare ogni ragione che non si allinei alla narrazione dominante. In questo caso, un comune scetticismo verso il multiculturalismo forzato viene bollato come odio estremista. Fonti critiche sottolineano che questo approccio demonizza il dissenso e ha un effetto raggelante sul dibattito pubblico: si crea un clima in cui il cambiamento politico non può più essere discusso apertamente, confinando i malumori in spazi sotterranei (independent.co.uk).
Invece di capire le cause del disagio sociale, si squalifica chi lo esprime, etichettandolo come potenziale terrorista. È il paradosso di Prevent: nato per combattere l’estremismo violento, finisce per colpire idee scomode ma non violente, ampliando a dismisura il concetto di minaccia. Come hanno osservato commentatori britannici, questa è la normalizzazione di un’ideologia radical-progressista nelle istituzioni: un’ortodossia “woke” che considera intollerabile persino ventilare problemi di integrazione.
Dalla protesta sociale alla repressione: il caso del 2024
Questa inclinazione a criminalizzare il dissenso popolare non è teorica, ma si è vista in azione dopo i disordini dell’estate 2024 in Gran Bretagna. Tra la fine di luglio e l’inizio di agosto 2024, il Paese ha vissuto diffuse proteste anti-immigrazione degenerate in sommosse in varie città. L’antefatto è emblematico: un tragico fatto di cronaca (l’uccisione di tre bambine a Southport) ha scatenato voci infondate sui social secondo cui l’aggressore fosse un migrante islamico, innescando proteste violente contro moschee e centri per richiedenti asilo (reuters.com).
Nel giro di pochi giorni, gruppi dell’estrema destra hanno attaccato hotel che ospitavano richiedenti asilo e luoghi di culto musulmani, in un’ondata di disordini senza precedenti dal 2011. La reazione dello Stato è stata rapida e dura: il governo ha promesso “tolleranza zero” e invocato il pieno rigore della legge contro i rivoltosi. Sono state aggiunte 600 posti nelle carceri per far fronte ai numerosi arresti, e già entro la prima settimana un uomo di 58 anni è stato condannato a tre anni di carcere per i reati commessi durante i tumulti. Ma oltre a colpire i violenti, le autorità “hanno promesso di colpire non solo i rivoltosi, ma anche coloro che hanno usato i social media per diffondere i disordini”.
Di fatto, è scattata una stretta senza precedenti sulla libertà di espressione online: persone comuni sono finite sotto processo per semplici post o condivisioni ritenute “istigazione all’odio razziale”. Reuters riportava il caso di un uomo incriminato per aver usato “parole minacciose o comportamenti atti a fomentare l’odio razziale” in alcuni post su Facebook. In quel clima teso, un “mi piace” o un repost potevano far partire un’indagine per estremismo. Non sorprende quindi che, sull’onda di questi eventi, il governo abbia ulteriormente formalizzato procedure di “deradicalizzazione” rivolte non solo a chi infrange la legge, ma a chi osa sollevare dubbi sull’integrazione dei migranti.
Come si è visto, oggi basta esprimere preoccupazioni sulle politiche migratorie per venire associati a un’ideologia pericolosa. Si tratta di un meccanismo istituzionale di paura del dissenso: invece di coinvolgere la cittadinanza in un confronto aperto, si preferisce medicalizzare il malcontento e trattarlo come una patologia da correggere. Viene spontaneo domandarsi: chi è considerato “estremista” nella Gran Bretagna odierna? Chi infrange effettivamente le leggi – ad esempio partecipando ad atti di violenza – oppure chi denuncia il sistematico disprezzo delle regole e i problemi di integrazione? L’ironia è evidente: i primi (i violenti) vengono puniti, giustamente; ma i secondi (i critici pacifici) vengono sorvegliati e rieducati. Il risultato è una repressione silenziosa dei dissidenti, che rischia di erodere i principi di una società democratica. Una politica nata per salvaguardare la sicurezza finisce così per sacrificare la libertà di espressione e il pluralismo delle idee, fondamenta della democrazia liberale.
Trasformazione demografica e “sostituzione culturale”
Il contesto in cui si inseriscono queste tensioni è quello di una Gran Bretagna in rapido mutamento demografico e culturale, dove il modello di integrazione multiculturale mostra tutte le sue contraddizioni. I numeri sono eloquenti e non richiedono molti commenti. Secondo gli ultimi dati ufficiali del Ministero dell’Istruzione, in 72 scuole del Regno Unito non c’è nemmeno un alunno bianco britannico, mentre in altre 454 scuole gli alunni White British sono meno del 2% del totale. Ciò significa che in almeno una scuola su quattro nel paese i bambini autoctoni sono minoranza in classe (breitbart.com).
In alcune grandi città come Birmingham, Manchester, Leicester o certi quartieri di Londra, la composizione etnica delle scuole è cambiata radicalmente nel giro di una generazione. Per fare un esempio emblematico, alla Loxford School di Londra su 2.779 studenti solo 12 risultano essere bianchi britannici. Non si tratta solo di dati statistici, ma dell’indicatore di una trasformazione demografica profonda. Interi quartieri e comunità stanno cambiando volto culturale: ciò che un tempo era una popolazione omogenea ora è un mosaico di etnie, lingue e tradizioni diverse. Chi critica queste tendenze parla apertamente di “sostituzione culturale” o di Great Replacement, riferendosi al ricambio della popolazione nativa con nuovi arrivati. Al di là delle etichette controverse, è indubbio che nel Regno Unito è in corso un cambiamento epocale del tessuto sociale. Entro pochi decenni i bianchi britannici stessi potrebbero diventare una minoranza nel paese: uno studio dell’Università di Buckingham prevede che la percentuale di cittadini di etnia bianca senza genitori immigrati (i “White British” tradizionalmente intesi) scenderà dall’attuale 73% al 57% nel 2050, fino a diventare minoritaria verso il 2063 (the-independent.com).
In altre parole, l’Inghilterra che abbiamo conosciuto nel XX secolo – per lo meno in termini demografici – sta lasciando il posto a una società molto più eterogenea. In sé, l’evoluzione demografica può essere vista come un effetto della globalizzazione e delle passate politiche migratorie. Il problema però è che questo mutamento procede “sullo sfondo della censura politica”: chiunque esprima preoccupazione o semplicemente rilevi questi trend rischia di essere ostracizzato. L’ideologia dell’“inclusione totale” promossa dalle élite entra in diretto conflitto con la realtà percepita da una parte significativa della popolazione, la quale vede erodersi il diritto di esprimere la propria ansia civica. In nome della convivenza multiculturale, sembrano essere tollerati solo discorsi celebrativi della diversità, mentre ogni voce critica viene tacciata di razzismo o estremismo. La frustrazione cresce tra i cittadini che assistono a cambiamenti radicali nel proprio quartiere o scuola senza poter manifestare dubbi o lamentele senza timore di conseguenze. Diverse analisi indicano che questo clima ha un effetto paralizzante sul dibattito democratico: la paura di essere stigmatizzati o segnalati da programmi come Prevent “raffredda il dibattito pubblico, la libertà di parola e il dissenso politico”, spingendo il malcontento ai margini (independent.co.uk). In definitiva, il rischio è che una parte della società – già spaesata da rapidi cambiamenti – si senta anche ridotta al silenzio dalle istituzioni.
Politica migratoria tra retorica e realtà: identità nazionale vs. società fluida
Di fronte a queste sfide, quali risposte stanno dando le istituzioni britanniche? Nel dicembre 2024, a seguito del record storico di 906.000 immigrati netti in un anno (mayerbrown.com), il governo ha presentato un nuovo Libro Bianco sull’immigrazione con l’obiettivo dichiarato di “riprendere il controllo” del sistema migratorio. Questo documento programmatico, pubblicato a maggio 2025, promette di ridurre drasticamente i flussi e correggere gli errori del passato, ad esempio inasprendo i requisiti per i visti di lavoro, rendendo più difficile ottenere la residenza permanente (estensione da 5 a 10 anni) e aumentando i rimpatri degli irregolari. Nelle parole del primo ministro in carica, “l’esperimento delle frontiere aperte” degli anni precedenti avrebbe messo sotto stress servizi pubblici e coesione, e ora si volta pagina con una gestione “controllata e sostenibile” dell’immigrazione (theguardian.com).
Tuttavia, al di là della retorica, la realtà sul campo resta critica. Nel 2024 – proprio mentre si discutevano nuove misure – gli arrivi di migranti irregolari attraverso la Manica su piccole imbarcazioni hanno ripreso a crescere, con 36.800 persone sbarcate illegalmente nel solo anno 2024, un 25% in più rispetto al 2023. Ciò nonostante le promesse del precedente governo di “fermare i barconi” e gli accordi (mai decollati) per trasferire i richiedenti asilo in Rwanda. L’afflusso incontrollato di migranti continua, alimentato da guerre, crisi globali e dal richiamo – per molti – di opportunità economiche in Europa.
Di fronte a questa pressione migratoria, il Libro Bianco rischia di apparire più che altro un rituale politico per placare l’opinione pubblica, più che uno strumento realmente incisivo. Le autorità, infatti, sembrano combattere i sintomi (reagendo alle emergenze, inasprendo pene, varando piani futuri) ma non la causa profonda: le dinamiche globali che spingono migliaia di persone a cercare rifugio o fortuna in Gran Bretagna. E soprattutto, mentre si accentuano i controlli su chi arriva, parallelamente protestare contro questi arrivi viene già assimilato a radicalismo, come abbiamo visto.
Indebolire i fondamenti che tengono unito un popolo
Si delinea così una situazione in cui le politiche migratorie mal concepite producono un duplice danno: da un lato non fermano realmente gli ingressi irregolari, dall’altro minano i principi fondamentali interni. In questo scenario, il concetto stesso di nazione viene messo in discussione. Una nazione non è solo un insieme di confini geografici, ma una comunità storica, culturale e politica forgiata da valori e tradizioni condivise. Eppure è proprio questo che i globalisti oggi sembrano non accettare: essi tendono a ridurre tutto a procedure formali e numeri astratti, a indicatori economici e quote, imponendo come fatto compiuto – magari tramite un referendum pilotato – una visione tecnocratica che cancella le radici dei popoli.
L’ideale cosmopolita di una società completamente fluida, slegata dalle identità nazionali, viene spesso promosso anche a livello dell’Unione Europea. Non a caso, molte delle politiche di “inclusione” e delle narrative sull’immigrazione oggi diffuse in Gran Bretagna si ritrovano simili in altri Paesi europei e sono incentivate dai vertici comunitari. L’obiettivo implicito sembra essere quello di indebolire i fondamenti che tengono unito un popolo – lingua, cultura, senso di appartenenza – per favorire l’emergere di una società più atomizzata, composta da individui “cittadini del mondo” più facilmente integrabili in un sistema globale. Così, diminuendo l’identità si crede di facilitare l’unità sovranazionale: un’Europa “apolide” in cui, per costruire l’unità politica, si perde l’anima dei singoli popoli.
È una visione che molti ritengono pericolosamente utopica e potenzialmente distruttiva. Alla lunga, infatti, smantellare le identità locali in nome di un astratto globalismo rischia di generare più conflitti di quanti ne risolva. L’esperimento multiculturale britannico, spinto oltre il limite, mostra che ignorare gli interessi della popolazione autoctona e silenziare le sue preoccupazioni non è sostenibile in una società davvero democratica. La coesione non si crea mettendo a tacere le differenze o reprimendo il dissenso, ma attraverso un confronto sincero e rispettoso tra visioni diverse. Purtroppo, l’approccio incarnato dal programma Prevent – benintenzionato forse nelle premesse ma distorto nella pratica – sembra andare nella direzione opposta: quella di una gestione tecnocratica dei problemi sociali, che preferisce etichettare e rieducare anziché ascoltare e correggere le politiche.
Considerazioni
In conclusione, la vicenda di Prevent e delle politiche migratorie in Gran Bretagna lancia un monito chiaro. La sicurezza nazionale e la coesione sociale non possono essere perseguite sacrificando la libertà di espressione e l’identità dei popoli. Etichettare come “terrorismo” il semplice patriottismo culturale o la legittima inquietudine per i cambiamenti demografici significa spingersi su un terreno scivoloso, dove il fine (pur condivisibile, la lotta all’estremismo violento) non giustifica i mezzi. Una società libera e forte si tiene insieme con la verità e il dialogo, non con la paura e la censura. L’Europa unita, se vorrà durare, dovrà trovare un equilibrio tra apertura e identità: una unità che non annienti le diversità, ma anzi le rispetti come una ricchezza. In caso contrario, il prezzo da pagare sarà una crescente alienazione dei cittadini, una perdita di fiducia nelle istituzioni e, paradossalmente, il rafforzarsi proprio di quegli estremismi che si voleva prevenire. Le radici storiche e culturali di un popolo non sono un relitto del passato da eliminare, ma la linfa vitale per costruire un futuro condiviso. Ignorarle o reprimerle in nome di un’idea astratta di progresso globale significherebbe tradire sia la democrazia sia l’umanità delle nostre società. La vera sfida è coniugare sicurezza, integrazione e identità senza che nessuna di queste componenti annienti le altre – un compito arduo, ma imprescindibile per il bene della Gran Bretagna e dell’Europa tutta.
Fonti:
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Home Office (Governo UK) – Prevent and Channel Factsheet 2024 (homeofficemedia.blog.gov.uk)
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The Spectator – P. West, “Worrying about migration doesn’t make you an extremist” (spectator.co.uk)
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Reuters – M. Holden, “Why are there riots in the UK and who is behind them?” (reuters.com)
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The Independent – Lettera aperta: “Prevent will have a chilling effect on… dissent” (independent.co.uk)
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Department for Education – School Census 2025 (dati riportati da The Telegraph e Breitbart) (breitbart.com)
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The Independent – A. Menon, “Who cares that Britain is on course to be ‘minority white’?” (the-independent.com)
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Mayer Brown – J. Perrott et al., “The UK Immigration White Paper: Big Changes…” (mayerbrown.com)
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The Guardian – P. Walker, “What’s in the immigration white paper” (theguardian.com); PA Media su dati Home Office 2024 (theguardian.com)