L’Iran sotto attacco: obiettivo reale la Cina, non l’uranio

Al di là della narrazione ufficiale confezionata da Tel Aviv, Washington e Londra, l’ultima offensiva israeliana contro l’Iran – per estensione, intensità e coordinamento – tradisce un obiettivo ben più ambizioso del presunto contenimento nucleare. Si tratta, in realtà, di un attacco strategico che s’inserisce in uno scenario globale ben più ampio: la guerra latente dell’Occidente contro l’espansione eurasiatica della Cina. L’Iran non è che il bersaglio più vulnerabile nel punto più nevralgico di questo confronto.

Un attacco senza causa apparente

Il primo paradosso è la mancanza di un pretesto immediato. Se davvero, come sostengono fonti “anonime” riprese dai media occidentali, l’Iran fosse a un passo dalla produzione di ordigni nucleari, allora un attacco aperto da parte di Israele avrebbe significato giocare con l’apocalisse. Eppure, l’azione è avvenuta, senza una reale provocazione recente, e con una freddezza operativa che smentisce qualsiasi allarme improvviso.

Gli indizi di una pianificazione a lungo termine abbondano: la chiusura coordinata delle missioni diplomatiche israeliane nel mondo, l’evacuazione preventiva del personale statunitense dall’Iraq e da altre zone sensibili, il posizionamento di bombardieri strategici a Diego Garcia mesi prima. Tutto fa pensare a un attacco preparato con largo anticipo e con il pieno consenso (se non la regia) di Washington.

I preparativi di terra: un’invasione silenziosa

Secondo fonti interne ai circuiti dell’intelligence occidentale, è in atto un dispiegamento discreto ma crescente di forze statunitensi e israeliane nell’est della Turchia, una regione montuosa ideale per nascondere truppe e mezzi agli occhi dei satelliti. Lì, nelle vecchie basi NATO del sud-est anatolico, si stanno accumulando aerei, carri armati e missili.

Il quadro che si delinea è quello di un possibile blitz terrestre, una “fase due” che completi l’opera dei raid aerei, destabilizzando l’Iran dall’interno o provocando un crollo militare nella regione occidentale del paese. Anche la scelta della Turchia, in apparenza neutrale, segnala l’intento di ridurre al silenzio Ankara con la minaccia o la promessa di un ruolo strategico nel nuovo assetto regionale.

Obiettivo vero: interrompere la Nuova Via della Seta

Dietro le quinte, l’Iran è molto più di un “problema nucleare”. È un nodo fondamentale della Belt and Road Initiative (BRI), la rete infrastrutturale con cui Pechino vuole ridisegnare gli scambi commerciali tra Asia, Africa ed Europa. Interrompere questo nodo significa rallentare – o far deragliare – l’espansione globale cinese.

Distruggere l’Iran, o semplicemente trasformarlo in un territorio instabile e invivibile, ha dunque una logica: spezzare le rotte della BRI e minacciare le nazioni adiacenti, a partire dalla Turchia, altro crocevia fondamentale dell’iniziativa cinese. Una crisi permanente in Medio Oriente, con la variabile impazzita curda sul tavolo, creerebbe instabilità politica endemica in Iraq, Siria, Iran e Turchia, rendendo impossibile ogni progetto logistico coerente in quell’area.

Creare caos per dominare

In questo contesto, non è difficile immaginare che si voglia riesumare il vecchio progetto di uno stato curdo, inizialmente in territorio iraniano, che fungerà da detonatore per insurrezioni diffuse e interventi esterni sotto copertura “umanitaria”. Secondo quanto riportato dal portale russo vizitnlo.ru, che cita fonti interne all’intelligence occidentale, il dispiegamento di truppe statunitensi e israeliane nell’est della Turchia – proprio nelle aree più adatte dal punto di vista geografico e tattico – potrebbe preludere non solo a un’operazione terrestre contro Teheran, ma anche alla preparazione di uno scenario caotico finalizzato alla frammentazione dell’Iran attraverso la leva curda.

Come in Ucraina, anche qui il disegno è chiaro: creare una rivoluzione permanente per logorare le potenze non allineate, coinvolgere altri attori regionali (Turchia, Siria, Iraq) in un circolo vizioso di instabilità e favorire condizioni ideali per insurrezioni, rivolte “colorate” e guerre per procura che blocchino ogni prospettiva di cooperazione eurasiatica autonoma.

Nel frattempo, l’interruzione delle rotte marittime nel Golfo Persico, nello Stretto di Hormuz, nel Canale di Suez e nel Bab al-Mandeb – già oggi minacciate – avrebbe effetti devastanti su Pechino, che importa ancora grandi quantità di energia attraverso queste vie. E non solo: il caos in questi corridoi rilancerebbe l’IMEC (India-Middle East-Europe Economic Corridor), l’alternativa pro-occidentale al progetto cinese, passando da India, Emirati, Israele e Mediterraneo orientale.

Una rotta “sicura”, sotto controllo americano, che marginalizza il ruolo egiziano e – paradossalmente – utilizza Grecia e Cipro come pedine sacrificabili di una partita che non controllano e che rischiano di pagare a caro prezzo.

La Cina osserverà ancora?

Pechino ha espresso il suo sostegno diplomatico a Teheran, ma la vera incognita è quanto a lungo potrà rimanere ferma. Una risposta limitata – intelligence, supporto logistico, missili a corto raggio – è già ipotizzabile. Ma l’elemento decisivo sarà la volontà cinese di proiettare potenza in difesa dei propri corridoi strategici.

Il rischio, per gli Stati Uniti, è di avere aperto un fronte che costringerà la Cina a superare la soglia dell’attivismo militare, magari coinvolgendo la Russia in un’alleanza non solo diplomatica, ma operativa.

Conclusione

L’attacco all’Iran, lungi dall’essere una semplice misura difensiva contro un presunto programma nucleare, si configura come un passo deliberato nella strategia di contenimento globale della Cina. Israele è il braccio armato, ma la mente è a Washington, e l’obiettivo è la Nuova Via della Seta.

L’Occidente sta giocando una partita a somma zero, dove ogni destabilizzazione regionale è vista come un successo, e ogni Stato sovrano una pedina sacrificabile. La Cina dovrà decidere se restare spettatrice o se diventare attore. E l’Europa, come sempre, si limiterà ad applaudire… o a pagare.

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