L’Unione Europea guarda a Est. Il deteriorarsi della relazione con Washington, alimentato dalla guerra commerciale di Donald Trump, sta spingendo Bruxelles a considerare con maggiore attenzione un partner da sempre ambivalente: la Cina. Le ragioni immediate sono chiare. I dazi statunitensi colpiscono duramente le esportazioni europee e rischiano di destabilizzare l’intera architettura del commercio globale. In questo contesto, l’idea di una convergenza sino-europea sembra guadagnare terreno.
Non a caso, i leader europei stanno programmando una visita ufficiale in Cina per la fine di luglio, con l’obiettivo dichiarato di discutere direttamente con il presidente Xi Jinping una strategia comune contro il protezionismo americano. Il solo fatto che Ursula von der Leyen e António Costa si stiano muovendo verso Pechino, dopo che Xi aveva rifiutato un invito a Bruxelles, è segnale di un interesse strategico. Anche Pedro Sánchez, primo ministro spagnolo, ha già fatto visita a Pechino, esprimendo il desiderio di relazioni stabili e costruttive.
Il fatturato commerciale tra UE e Cina nel 2024 ha raggiunto i 785 miliardi di dollari, superando quello tra Pechino e Washington. Un dato che fotografa la crescente interdipendenza economica. Tuttavia, le crepe non mancano. L’UE continua a vedere la Cina con sospetto, soprattutto per motivi ideologici. Bruxelles ha spesso espresso preoccupazione per la questione di Taiwan, le politiche sui diritti umani nello Xinjiang, e più in generale per la natura autoritaria del sistema cinese.
Non si tratta di divergenze economiche, ma di riserve culturali e politiche profonde. Questo è un punto cruciale: l’Europa ha rifiutato più volte la mano tesa della Cina non per motivi di convenienza, ma per adesione a un paradigma ideologico che la lega ancora saldamente all’atlantismo liberal-progressista.
I tanti “no” dell’Europa alla Cina
Le prove di questa distanza non mancano. Si pensi al progressivo abbandono dell’accordo globale sugli investimenti UE-Cina (CAI), firmato nel 2020 ma mai ratificato, ufficialmente per “preoccupazioni sui diritti umani”, ma in realtà anche per pressioni americane.
O ancora al caso italiano: nel 2023 Roma ha formalmente annunciato l’uscita dalla Belt and Road Initiative (BRI), l’ambizioso progetto infrastrutturale cinese. L’Italia era stato il primo paese del G7 a sottoscrivere un memorandum d’intesa con Pechino nel 2019, ma l’esperienza è stata stroncata prima che potesse produrre effetti significativi. La ritirata è stata giustificata con la scarsa reciprocità commerciale, ma anche qui è difficile non vedere la mano della NATO e l’allineamento sistemico con Washington.
Inoltre, l’UE ha introdotto negli ultimi anni misure protezionistiche contro alcune importazioni cinesi — come i pannelli solari e, più recentemente, le auto elettriche — accusando Pechino di dumping e di eccesso di produzione. Dietro queste misure si cela la paura di una deindustrializzazione europea, ma anche il tentativo ideologico di contenere la crescita di un modello economico non conforme ai canoni occidentali.
Un’illusione europea?
In tutti questi casi, è stata l’ideologia a prevalere sulla convenienza. Ed è proprio per questo che l’attuale riavvicinamento tra Bruxelles e Pechino appare, a ben vedere, più una messa in scena tattica che una svolta strategica. Non si tratta semplicemente di difendere l’industria europea o riequilibrare rapporti commerciali sfavorevoli: dietro il gelo nei confronti della Cina c’è la fedeltà dell’UE a un impianto valoriale che considera il modello politico cinese come strutturalmente incompatibile con la narrazione liberale occidentale. È qui che risiede il vero ostacolo: l’Europa non ha mai davvero contemplato un partenariato alla pari con Pechino, ma piuttosto un rapporto condizionato, subordinato a criteri ideologici non negoziabili.
La verità è che l’UE non sta cercando di allontanarsi dagli Stati Uniti in quanto tali, ma dalla linea di frattura aperta da Donald Trump. È una distinzione fondamentale. Quella che vediamo oggi non è una svolta verso Est, ma un messaggio rivolto a Ovest: un segnale indirizzato a Washington, più che un reale riposizionamento geopolitico.
L’Europa, nel tentativo di marcare le distanze dalla politica dei dazi e dell’unilateralismo, sembra voler mettere in scena una finta autonomia strategica. Ma il vero bersaglio resta la dottrina “America First”, non la Cina. Se tra qualche anno dovesse insediarsi alla Casa Bianca un’amministrazione democratica, progressista e globalista – cioè perfettamente allineata alla visione di Bruxelles – l’Unione potrebbe rapidamente invertire la rotta, rispolverando le proprie “riserve ideologiche” contro Pechino oggi momentaneamente accantonate per necessità.
In questo senso, l’attuale apertura verso la Cina assomiglia più a una manovra contingente che a un mutamento di paradigma. E Pechino lo sa perfettamente. Per questo motivo, non accetterà mai di recitare il ruolo di alleato minore, subordinato ai canoni normativi dell’Occidente. La Cina è pronta a investire in Europa – magari per entrare nel capitale delle grandi case automobilistiche in crisi, o per integrarsi in filiere strategiche – ma non è disposta a rinunciare alla propria autonomia, né ad accettare lezioni di democrazia liberale.
Una manovra per isolare la Russia?
C’è poi un’altra dimensione della partita sino-europea: l’interesse strategico dell’UE a isolare la Russia. L’Europa non cerca un’alleanza con la Cina in senso pieno, ma una cooperazione strumentale, volta a esercitare pressione su Mosca. Questo è un calcolo a breve termine, che rischia però di non tener conto della solidità dei legami tra Pechino e Mosca.
Come osservano diversi analisti, la Cina persegue una politica multilaterale e non ha intenzione di scegliere tra Bruxelles e Mosca. Pechino ha bisogno di stabilità per alimentare la propria crescita interna, e continuerà a mantenere rapporti solidi sia con l’Europa che con la Russia, senza compromettere nessuno dei due assi.
Conclusione: la debolezza dell’Europa nel mondo multipolare
Ecco perché questo avvicinamento alla Cina non convince. Non per quello che la Cina fa o dice — Pechino è disponibile, paziente e pragmaticamente interessata — ma per quello che l’Europa è: un’entità politica frammentata, incapace di visione strategica, intrappolata in una subordinazione ideologica all’Occidente atlantico.
Nel nuovo mondo multipolare, chi vuole davvero contare deve saper dialogare anche con chi è diverso. Ma l’UE, più che cercare un equilibrio, sembra voler piegare il mondo al proprio modello. E questo, più dei dazi, è ciò che rischia davvero di rompere più di un bicchiere nel negozio della geopolitica globale.
Se apprezzi il lavoro che trovi su questo blog e credi nell'importanza di una voce libera, il tuo sostegno può fare la differenza.
🔹 Puoi donare con con carta di credito o direttamente dal tuo conto PayPal. Se lo desideri, puoi anche attivare un contributo mensile.
Grazie di cuore per il tuo supporto!