L’Attacco all’Iran come strumento per abbattere Trump (e la Sovranità)

Un piano sofisticato sotto copertura

Nelle dinamiche di escalation tra Israele e Iran, molti osservatori continuano a leggere gli eventi secondo uno schema binario classico nella solita chiave antagonista (ove c’è un buono e un cattivo). In questo contesto si distinguono deterrenza nucleare, alleanze, interessi regionali. Ma in realtà sotto questa superficie agitata si muove un piano più ambizioso: un’operazione coordinata per deviare, sabotare o demolire l’unica reale alternativa all’establishment globalista negli Stati Uniti — il movimento MAGA e Trump.

Lungi dall’essere una semplice reazione militare, il conflitto in Medio Oriente sta assumendo le sembianze di una trappola geopolitica su più livelli, destinata a trasformare radicalmente il contesto interno americano e a consolidare un nuovo paradigma transatlantico guidato non più da Washington, ma da Londra.


Iran come pretesto, Trump come obiettivo reale

Mentre i media descrivono la crisi come una “risposta necessaria” all’aggressività iraniana, alcuni analisti vicini agli ambienti dell’intelligence (vedi Simplicius The Thinker, ma anche il think tank russo Tsargrad) parlano apertamente di un’operazione “reverse false flag” pianificata per attribuire a Teheran azioni destabilizzanti compiute in realtà da strutture di intelligence per procura.

Ciò che emerge è un copione già noto: creare un casus belli, suscitare l’indignazione pubblica, e costringere Trump — che ha finora evitato nuove guerre — a scegliere tra l’immagine del “presidente debole” o quella del “traditore dell’alleanza con Israele”.

Secondo indiscrezioni di ex funzionari del Pentagono (diffuse in ambienti alternativi vicini a Darren Beattie di Revolver.news) il rischio concreto è quello di un attacco a basi statunitensi in Iraq o Giordania con tracciabilità “iraniana”, ma eseguito da milizie fuori controllo o persino forze false flag angloamericane.


Londra orchestra, Washington esegue

La centralità britannica nel disegno geopolitico attuale è stata ampiamente sottovalutata. A prima vista, il Regno Unito appare come un alleato subordinato degli Stati Uniti, ma dietro le quinte esercita un’influenza strategica di lungo periodo, soprattutto nei centri decisionali e di intelligence americani.

Uno degli esempi più rilevanti è Fiona Hill, politologa britannico-americana, ex funzionaria del National Security Council (NSC) degli Stati Uniti, specializzata in affari russi. Hill ha servito sotto tre presidenti (Bush, Obama e Trump) ed è stata tra le principali artefici delle narrative anti-russe che hanno dominato la politica estera statunitense nell’ultimo decennio. Durante la presidenza Trump, è diventata nota per la sua testimonianza nel processo di impeachment, in cui ha assunto posizioni critiche contro il presidente, accusandolo di indebolire l’Ucraina e favorire Putin.

Ma Hill non è solo una figura di apparato: è un simbolo della continuità della visione atlantista anche oltre i cambi di amministrazione. Rappresenta quel “deep expertise” britannico che, in apparenza tecnico e neutro, svolge in realtà un ruolo ideologico e operativo nel mantenere l’asse transatlantico in funzione anti-sovrana e anti-multipolare.

A questo si aggiungono i legami tra il GCHQ (l’intelligence elettronica britannica) e la NSA americana, che negli ultimi anni hanno condotto operazioni congiunte di sorveglianza globale, come rivelato nei leaks di Edward Snowden. Allo stesso modo, il MI6, il servizio segreto estero britannico, fornisce “consulenze strategiche” e risorse analitiche a numerosi think tank statunitensi, come il Center for Strategic and International Studies (CSIS) o l’Atlantic Council — centri influenti nella formulazione della politica estera americana e noti per il loro orientamento interventista e pro-NATO.

In sostanza, Londra non agisce più da comprimario, ma da regista silenzioso. E personaggi come Fiona Hill incarnano questa strategia: non impongono decisioni apertamente, ma orientano in profondità l’apparato burocratico e narrativo degli Stati Uniti, rendendo l’indipendenza politica americana — specie nella versione sovranista incarnata dal movimento MAGA — sempre più difficile da esercitare.

Il potere, oggi, si esercita per catene narrative e di delega: non più per dichiarazioni ufficiali, ma per concatenazioni di eventi. In questa logica, i servizi britannici giocano un ruolo simile a quello avuto ai tempi dell’Operazione Mockingbird: orientare l’opinione pubblica e infiltrare i centri decisionali americani con agenti “friendly”.


Guerra di significati, non di territori

L’obiettivo non è solo l’Iran. Il vero bersaglio è l’autonomia decisionale. L’epoca in cui un presidente USA poteva rifiutare il modello NATO-centrico e parlare di pace con Putin o Xi è vista oggi come una “deviazione pericolosa”. L’intera operazione mira a distruggere il principio stesso della soggettività politica — ovvero la possibilità che esista un altro paradigma, nazionale, non interventista, cooperativo.

Trump è questo: un’anomalia. E come tale, va reinquadrato o eliminato. Non fisicamente, ma simbolicamente, politicamente, elettoralmente. Le operazioni in Medio Oriente non servono a cambiare governi regionali: servono a impedire che si affermi un nuovo paradigma multipolare.


La trappola per Trump

È ormai chiaro che il vero rischio per Trump è il suo stesso silenzio o la sua ambiguità. Le sue recenti dichiarazioni, in cui condanna l’Iran senza proporre soluzioni concrete, è il segno di una pressione crescente da parte dell’apparato di sicurezza americano, che non ha mai digerito la sua linea diplomatica e anti-interventista.

Se Trump sceglie di reagire con durezza, perde il sostegno di quanti lo vedevano come l’uomo della distensione e del dialogo con Putin. Se tace o minimizza, verrà accusato di debolezza o addirittura di complicità filoiraniana, soprattutto da parte dei neocon infiltrati nel GOP (come Nikki Haley o Lindsey Graham).

Secondo Glenn Greenwald, la macchina mediatica sta già predisponendo il terreno per questo framing, in collaborazione con gruppi come AIPAC e Atlantic Council.


Tre obiettivi, un solo piano

L’operazione si articola su tre assi fondamentali:

  1. Militare – indebolire Teheran, isolarlo da Russia e Cina, e promuovere un intervento “inevitabile” che stravolga gli equilibri.

  2. Politico – trascinare Trump in un conflitto o in una posizione ambigua, rompendone la base elettorale e la coerenza narrativa.

  3. Geoeconomico – ridisegnare la mappa energetica del Medio Oriente, bloccando i corridoi strategici iraniani e tagliando fuori la Russia dal teatro indo-caspico, come spiegato in un recente rapporto di OilPrice.com.


L’imperialismo dei significati

Non siamo di fronte a un ritorno al “vecchio imperialismo militare”, ma a una nuova forma di dominio: quella della narrazione e del controllo semantico. A contare non è chi vince sul campo, ma chi impone la lettura dei fatti. In questo scenario, la vera posta in gioco non è la supremazia militare, ma la distruzione di ogni alternativa sovrana.

In altre parole, un attacco all’Iran è oggi anche un attacco a Trump. E soprattutto a ciò che rappresenta: una visione degli Stati Uniti liberi da vincoli imperiali, capaci di trattare da pari con potenze autonome.


Trump deve rompere con l’ambiguità

La trappola è già in moto. Trump può ancora evitarla — ma solo se rompe l’ambiguità, denuncia pubblicamente il gioco sporco in corso, e torna ad abbracciare apertamente lo spirito originario del MAGA: pace, sovranità, potere al popolo.

Altrimenti, rischia di diventare — proprio come i suoi avversari desiderano — il garante involontario di un ordine globale che non è mai stato il suo.

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