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di Daniele Rocchi
S.I.R. 18 giugno 2019
Un villaggio gemellato con le sue rocce rossastre, quelle del massiccio al Qalamoun, mimetizzato come se ne avesse rubato i colori. Ti si apre davanti man mano che la strada sale fino a toccare i 1500 metri di altezza. Buche e crateri disseminati ovunque ti obbligano a una sorta di gimkana con la polvere che si alza ad ogni manovra di guida. Damasco è lontana solo 60 km, il confine con il Libano anche meno.
È Maaloula roccaforte cristiana della Siria dove si parla ancora l’aramaico, la lingua di Gesù Cristo. Uno dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco, abitato da poche migliaia di cristiani che vegliano sulle sue chiese e monasteri come quello greco ortodosso di santa Tecla, discepola di san Paolo, e quello melkita del VI secolo Mar Sarkis, dei santi Sergio e Bacco. I due santuari rupestri sono uniti da una gola scavata nel corso di millenni da pioggia e vento. È qui, secondo la leggenda, che Santa Tecla avrebbe trovato rifugio dai suoi persecutori. Prima della guerra Maaloula era una meta di tanti pellegrini che da ogni parte del mondo ogni anno venivano a pregare tra queste montagne, in una delle culle del cristianesimo siriano.
Ma i ricordi del sacerdote non si fermano qui. Emerge anche un particolare “l’accanimento dei terroristi verso le immagini sacre: Le icone sono state tutte sfregiate, avevano paura di guardarle. Hanno sfregiato i volti dei santi, del Cristo, mandato in frantumi le statue. Hanno fatto a pezzi gli altari, le iconostasi, il fonte battesimale”. “Ma la cosa che mi ha colpito di più è stato il rogo dei registri dei battesimi. È come se avessero voluto azzerare la nostra fede, ma non ci sono riusciti, perché siamo ancora qui”, afferma con orgoglio padre Toufic. Poco distanti i resti di una statua di san Giorgio posta nel cortile della chiesa omonima dove da poco è stata rimessa una statua di santa Rita da Cascia, “restaurata da uno dei nostri giovani purtroppo morto in guerra”. Arrivano dei bambini che sfidando una pioggia inattesa si mettono a giocare nel piazzale. Il parroco li guarda e sorride: “sono un segno di vita da preservare. Il futuro di Maaloula passa per loro”. È anche per questi piccoli che si danna l’anima per riparare i danni della guerra. Cinque anni dopo essere stata ripresa dall’esercito regolare siriano, Maaloula oggi si presenta quasi disabitata: “la popolazione è fuggita e ancora non ha fatto ritorno. Le case hanno bisogno di essere rimesse in piedi velocemente. La comunità cristiana – dice il parroco – è composta adesso da circa 800 persone, poche rispetto alle oltre 3mila di qualche anno fa. Abbiamo restaurato la chiesa e, grazie anche alla Chiesa cattolica italiana, rimesso in piedi 190 abitazioni. All’appello ne mancano ancora 130, per una spesa totale di un milione di dollari. Stiamo ricominciando da zero grazie all’aiuto di tanti benefattori sparsi nel mondo. La priorità è dare un tetto a chi non ce l’ha più e trovare il modo di continuare a vivere. Quest’anno ho celebrato solo un matrimonio, nessuno nel 2018. I battesimi si contano sulla dita di una mano. La vita qui è una grande sfida, sperare è una sfida. La ricostruzione delle abitazioni sta favorendo la ripresa del lavoro”. Ne è un esempio “un piccolo ristorante che ha riaperto i battenti da poco”. Un buon viatico per qualche pellegrino “che timidamente si sta riaffacciando da queste zone ora pacificate. Lo scorso marzo – rivela padre Toufic – sono arrivati qui sei occidentali. Sono stati accolti da alcune famiglie che per pochi dollari hanno offerto loro un letto e del cibo. Era accaduto anche in passato ma poi la guerra ha impedito di proseguire nell’accoglienza. Ma speriamo di riprendere”.
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