Tra indignazione reale e disegno orchestrato
Le recenti ondate di proteste e disordini urbani negli Stati Uniti presentano due volti. Da un lato, nascono da problematiche reali – brutalità della polizia, tensioni razziali, questioni migratorie – che hanno alimentato un’autentica indignazione popolare. Non pochi americani vedono queste manifestazioni come spontanee e legittime espressioni di malcontento sociale. Dall’altro lato, cresce il sospetto che dietro il caos apparentemente spontaneo vi sia una precisa regia politica. L’opinione pubblica è divisa: c’è chi scende in piazza convinto di lottare per giustizia, e chi osserva quelle stesse piazze intravedendo lo zampino di strateghe e finanziatori occulti.
Per correttezza va riconosciuto che le cause originarie delle proteste sono fondate (dalla rabbia per casi di violenza poliziesca contro minoranze, alle preoccupazioni per politiche migratorie ritenute inumane). Tuttavia, dopo aver premesso ciò, è lecito chiedersi se e come queste istanze vengano strumentalizzate in un gioco politico più ampio. In un contesto di estrema polarizzazione, l’ipotesi che elementi organizzati stiano sfruttando il malcontento per fini propri – pur – appare credibile a molti osservatori.
Dalle rivoluzioni “morbide” esportate… al ritorno di fiamma interno
Gli Stati Uniti sono da decenni maestri nell’ingegneria delle “rivoluzioni colorate” all’estero. Con questo termine si indicano quelle mobilitazioni popolari (spesso non violente all’inizio) che portano al cambio di regime in paesi bersaglio, tipicamente attraverso proteste di piazza, campagne mediatiche e supporto di attori esterni. Tali rivoluzioni hanno mirato a instaurare governi di orientamento filo-occidentale e in diversi casi sono scaturite da brogli elettorali contestati. Un elemento chiave emerso nelle “rivoluzioni colorate” degli anni 2000 (dalla Georgia all’Ucraina) è stato proprio il ruolo di ONG internazionali finanziate dall’Occidente nel coordinare e sostenere le proteste. Studi sul tema indicano esplicitamente che gli interessi di politica estera americana – veicolati tramite ONG e fondazioni statunitensi – hanno fornito il carburante per queste transizioni politiche: senza l’intervento di tali attori esterni, difficilmente paesi come la Georgia o l’Ucraina avrebbero visto cambiare il proprio panorama di potere in “nuovi colori”. In altre parole, dietro le quinte di molte rivoluzioni colorate vi era l’ombra lunga di Washington.
Un esempio emblematico fu la Rivoluzione delle Rose in Georgia (2003), che seguì un copione quasi da manuale: dopo elezioni contestate, manifestanti organizzati occuparono le piazze di Tbilisi chiedendo le dimissioni del presidente Eduard Shevardnadze; organizzazioni non-governative finanziate dall’Occidente (come l’Open Society Foundation) fornirono supporto logistico e mediatico al movimento di protesta. Allo stesso modo, l’anno seguente in Ucraina la Rivoluzione Arancione mobilitò folle enormi a Kiev contro brogli elettorali, con ingente assistenza da reti attiviste addestrate e sostenute anche da enti statunitensi. Queste rivoluzioni “morbide” tendevano ad utilizzare metodi tecnici collaudati – comunicazione via internet, addestramento dei leader giovanili, copertura mediatica favorevole internazionale – per ottenere cambi di governo senza interventi militari diretti.
Oggi è ironico osservare come quella formula di destabilizzazione politico-sociale, affinata dagli USA all’estero, sembri essersi rivolta verso l’interno. Il “ritorno di fiamma” è inquietante: nelle proteste che infiammano città americane molti vedono riflessi gli stessi schemi applicati in altre latitudini. Washington, abituata a esportare rivoluzioni colorate, pare ora trovarsi ad affrontare una rivoluzione colorata interna, dove attori domestici (partiti, ONG, media) utilizzano tecniche analoghe per minare la stabilità del proprio governo federale.
Proteste coordinate secondo un preciso playbook
Le manifestazioni e rivolte che hanno scosso metropoli come Los Angeles, Minneapolis e New York negli ultimi anni presentano caratteristiche che difficilmente possono essere attribuite al caso. Al di sotto dell’autentica rabbia popolare (soprattutto di di talune fazioni specifiche), infatti, si intravede spesso un meccanismo organizzativo sofisticato, quasi un manuale operativo delle rivoluzioni colorate applicato al contesto americano. Si parla di centrali organizzative – con legami a settori del Partito Democratico – che impiegano un repertorio collaudato di strategie per alimentare e indirizzare i disordini. Ecco alcuni elementi chiave osservati:
-
Mobilitazione di massa pianificata: tramite reti di attivisti locali, social media e ONG sul territorio, si riesce a radunare rapidamente migliaia di persone nei punti nevralgici della protesta. Le adunate avvengono quasi in sincronia, segno di una regia unitaria più che di esplosioni spontanee.
-
Coordinamento delle sommosse: i tumulti, pur caotici in apparenza, seguono una linea d’azione comune. Ciò suggerisce la presenza di organizzatori che forniscono risorse (cartelli stampati in serie, scorte di materiali, assistenza legale) e direttive ai manifestanti. Il caos risulta tutt’altro che casuale, bensì orientato a obiettivi specifici (come occupare un municipio, bloccare una freeway, attirare l’attenzione mediatica internazionale).
-
Conquista delle strade e simboli di potere: occupare fisicamente il territorio è fondamentale. Dalle autostrade bloccate alle zone autonome dichiarate in alcune città, le proteste mirano a conquistare le strade – tradizionale simbolo di legittimità politica dal basso. Durante l’estate 2020, ad esempio, militanti legati a Black Lives Matter e gruppi Antifa arrivarono a stabilire una “zona autonoma” libera da polizia a Seattle, mentre rivolte violente e incendi dilagavano in molte città Quell’ondata di disordini somigliò a una rivoluzione politica: radicali bruciarono interi isolati e sfidarono apertamente le autorità costituite, in una sequenza di eventi ben più organizzata di quanto potesse apparire.
-
Pressione sulle istituzioni di sicurezza: le forze dell’ordine vengono sistematicamente demonizzate e messe sotto pressione. Nei media e sui social gli agenti sono ritratti come oppressori; qualsiasi intervento energico rischia di essere filmato e usato come prova di “brutalità”. Campagne come “Defund the Police” (tagliare i fondi alla polizia) hanno preso piede nel 2020, minando il morale e l’autorità dei reparti di polizia locali. Di conseguenza, molti agenti – timorosi di essere accusati o perseguiti – esitano a intervenire con fermezza, lasciando campo libero ai facinorosi. In parallelo, si segnalano veri e propri sabotaggi interni in alcune agenzie federali di sicurezza, dove frange politicizzate avrebbero rallentato o contrastato l’attuazione di ordini dell’esecutivo non graditi.
-
Narrativa mediatica ostile al ripristino dell’ordine: un aspetto fondamentale è il framing mediatico. I principali media mainstream tendono a descrivere i disordini in termini empatici verso i manifestanti (“proteste per la giustizia razziale”) e a definire immediatamente “repressione autoritaria” qualsiasi mossa governativa volta a fermare il caos. Durante i tumulti di Los Angeles nel 2025, ad esempio, vari esponenti democratici e testate giornalistiche hanno bollato l’invio della Guardia Nazionale da parte dell’amministrazione federale come “escalation pericolosa” e passo “su una via verso la tirannia” (theguardian.com). Ogni opposizione organizzata ai gruppi radicali viene stigmatizzata con etichette come “fascismo” o “odio razziale”, creando un clima di pressione psicologica costante sul potere costituito.
Questa tattica di erosione dell’autorità centrale ricalca in modo impressionante gli schemi delle rivoluzioni colorate orchestrate all’estero: si delegittima il governo in carica sia sul piano pratico (controllo delle strade, paralisi delle forze dell’ordine) sia su quello simbolico e mediatico (campagne di opinione contrarie all’uso della forza, narrative che dipingono i governanti come tiranni). L’obiettivo ultimo non è semplicemente esprimere dissenso, ma logorare le istituzioni fino a provocare un cambio di potere.
Non sorprende che analisti e commentatori di area conservatrice abbiano riconosciuto in questi eventi i tratti di un’operazione politica intenzionale. Ad esempio, già nel 2020 dall’emittente Fox News si metteva in guardia sul fatto che frange del Partito Democratico e insider di governo stessero pianificando una sorta di “rivoluzione colorata” per rovesciare Trump, con proteste orchestrate e perfino ipotesi di brogli elettorali di contorno. Il popolare conduttore Tucker Carlson ha suggerito che ci troviamo di fronte a una “guerra culturale” volta a delegittimare il governo e a consolidare l’influenza di élite progressiste. In questa lettura, le proteste di massa non sono affatto fenomeni organici, bensì parte di una strategia deliberata per impedire al campo avverso (in questo caso l’amministrazione Trump e i suoi sostenitori) di governare efficacemente, preparando il terreno a un ribaltamento dei rapporti di forza.
Il caso CHIRLA: attivismo no-profit finanziato dallo Stato
Un esempio concreto di come operano questi ingranaggi dietro le quinte ci viene dalla California. A Los Angeles, epicentro di recenti scontri legati all’immigrazione, è emerso che uno degli attori chiave nel fomentare le proteste anti-ICE è una organizzazione no-profit finanziata pubblicamente e ben collegata ai vertici democratici locali. Si tratta della Coalition for Humane Immigrant Rights of Los Angeles (meglio nota come CHIRLA). Questa ONG, teoricamente dedita alla tutela dei diritti degli immigrati, in realtà ha assunto posizioni estremiste negli ultimi anni – ad esempio guidando nel 2018 la campagna per abolire l’agenzia federale ICE (Immigration and Customs Enforcement) (gellerreport.com).
CHIRLA oggi coordina la Los Angeles Rapid Response Network, una rete di gruppi che monitorano le operazioni dell’ICE sul territorio e inviano attivisti a “rispondere” in tempo reale ai raid delle forze dell’ordine. In pratica, appena circola voce di un intervento di ICE per arrestare immigrati irregolari, questa rete allerta schiere di manifestanti che accorrono sul posto per ostacolare gli agenti o inscenare proteste e sit-in. Non a caso, molti disordini scoppiati a Los Angeles di recente innescati da retate anti-immigrazione hanno visto la regia, più o meno palese, di CHIRLA e gruppi affini.
Dal punto di vista politico, CHIRLA vanta forti legami con il Partito Democratico californiano. Tramite un braccio di lobbying, l’organizzazione ha appoggiato l’elezione di vari candidati Dem e mantiene relazioni privilegiate – ad esempio – con l’attuale sindaco di Los Angeles Karen Bass Inoltre CHIRLA collabora strettamente col potente movimento sindacale dello Stato (in particolare con il SEIU, il sindacato dei dipendenti dei servizi) che a sua volta è un importante finanziatore dei politici democratici. Questa commistione tra attivismo “di strada”, potere locale e interessi di partito crea un terreno fertile per mobilitazioni orchestrate: l’ONG fornisce le truppe e la logistica, il partito fornisce copertura politica e risorse.
Un episodio emblematico si è verificato di recente: in un clima già rovente per via di operazioni federali contro l’immigrazione clandestina, CHIRLA ha indetto una manifestazione di protesta a Los Angeles per contestare le misure dell’ICE e l’arresto di David Huerta (presidente del sindacato SEIU California), avvenuto perché Huerta avrebbe deliberatamente ostacolato un’indagine federale sul campo. La protesta, degenerata poi in scontri, mostra chiaramente il modus operandi descritto: un evento scatenante (l’arresto di un leader vicino alla sinistra locale) viene sfruttato per infiammare la piazza, con un’organizzazione pronta a convocare attivisti e simpatizzanti in massa.
Ma l’aspetto forse più sorprendente è un altro: CHIRLA opera in gran parte con denaro pubblico dei contribuenti californiani. Documenti finanziari hanno rivelato che nell’ultimo anno fiscale (concluso a giugno 2023) l’ONG ha ricevuto circa 34 milioni di dollari dallo Stato della California, attraverso principalmente il Dipartimento dei Servizi Sociali, somma che rappresenta il 72% delle sue entrate totali. Si tratta di finanziamenti triplicati rispetto all’anno precedente, segno di un forte incremento di supporto pubblico verso questa organizzazione. In aggiunta, CHIRLA aveva ottenuto anche un contratto federale da 450.000 dollari nel 2023 (per programmi educativi destinati agli immigrati), che l’allora sindaco Bass si era attribuita il merito di aver facilitato. Tuttavia, a febbraio 2025 il Department of Homeland Security (sotto l’amministrazione Biden) ha congelato quei fondi federali in attesa di verifiche, spingendo CHIRLA a fare causa; l’agenzia ha infine cancellato il contratto e la causa è stata ritirata
In altre parole, lo Stato finanzia lautamente un ente che poi incanala energie (e rabbia) contro lo stesso Stato – quantomeno contro le sue articolazioni federali come l’ICE. La paradossale situazione ha portato alcuni a parlare di un nuovo complesso di potere: «Eisenhower mise in guardia dal complesso militare-industriale; ora ci troviamo di fronte al complesso industriale non-profit». Così è stata descritta la realtà di organizzazioni non-profit iper-finanziate e politicizzate, che agiscono come braccio civile di battaglie ideologiche, proprio come il complesso militare-industriale agiva da braccio armato della politica estera. CHIRLA, lungi dall’essere un semplice gruppo umanitario, incarna questo modello: usufruisce di fondi pubblici per perseguire agende radicali (come l’abolizione delle politiche di controllo dell’immigrazione) e contribuire a mobilitare proteste di piazza che favoriscono uno schieramento politico ben definito.
Dal Black Lives Matter all’estremismo politico
Le proteste attuali contro le politiche migratorie non sono l’unico esempio di come una giusta causa possa essere deviata verso un estremismo con connotati partitici. Un parallelo evidente si trova nelle manifestazioni di Black Lives Matter (BLM) esplose nell’estate 2020. In origine, BLM era (ed è) un movimento di denuncia delle ingiustizie razziali, nato da tragedie reali come l’uccisione di George Floyd da parte di un agente a Minneapolis. La causa – chiedere giustizia e riforme contro gli abusi della polizia verso le minoranze afroamericane – era sacrosanta e ha raccolto un sostegno trasversale enorme. Milioni di americani, di ogni orientamento, sono scesi in piazza in buona fede, indignati per un’ingiustizia evidente e desiderosi di cambiamento.
Tuttavia, col passare delle settimane, quella genuina indignazione popolare è stata cavalcata e spinta oltre da elementi radicali. Accanto ai manifestanti pacifici, ben presto si sono attivati gruppi organizzati (tra cui fazioni Antifa e militanti di estrema sinistra) che hanno orientato le proteste verso la violenza sistematica e lo scontro frontale con le autorità. Le manifestazioni, inizialmente pacifiche, sono degenerate in riot diffusi in decine di città, con saccheggi, incendi dolosi e attacchi alle forze dell’ordine. L’estate 2020 ha visto alcune delle rivolte urbane più distruttive nella storia americana recente: interi quartieri sono stati dati alle fiamme e saccheggiati, commissariati assediati o bruciati, e perfino zone “liberate” in cui la polizia non osava entrare. Il tutto sotto le bandiere della giustizia razziale, ma con modalità che poco avevano a che fare con la protesta pacifica originaria.
È qui che si nota il cambio di paradigma: dal grido “Black Lives Matter” si è passati a slogan estremi come “Defund the Police” (togliere fondi alla polizia) e ad azioni di guerriglia urbana. Questa svolta radicale ha avuto evidenti benefici politici per uno schieramento. All’epoca, alla Casa Bianca c’era Donald Trump, spesso accusato di insensibilità sulle questioni razziali. Le tensioni del 2020 hanno ulteriormente polarizzato il paese lungo linee partitiche: da un lato, i Democratici e i media liberal hanno appoggiato o giustificato le proteste (anche nelle loro espressioni più accese), dipingendole come un necessario movimento di cambiamento; dall’altro, Trump e i conservatori invocavano legge e ordine, finendo però per apparire – nella narrazione dominante – come repressori autoritari.
L’impatto elettorale di quella stagione di proteste è stato significativo. Le manifestazioni di BLM hanno galvanizzato l’elettorato progressista e mobilitato tanti nuovi votanti contro Trump. Organizzazioni vicine ai Democratici hanno colto l’occasione per registrare elettori durante i cortei e per fare campagna sull’onda dell’emozione del momento. Come riportato dalla rivista Time, quell’ondata di indignazione fu vista dai strateghi Dem come una possibile “miniera d’oro” elettorale: un modo per rafforzare la partecipazione degli afroamericani e dei giovani alle urne e aumentare le registrazioni al voto. Effettivamente, nell’immediato periodo successivo, si registrò un picco di nuove iscrizioni ai registri elettorali grazie a iniziative legate a BLM, e nelle elezioni di novembre 2020 l’affluenza nelle comunità di colore crebbe notevolmente. In sostanza, le proteste per la giustizia razziale furono anche un volano politico per il Partito Democratico, che sperava di capitalizzare il malcontento contro Trump (time.com).
Dal canto suo, l’amministrazione Trump tentò di reagire al caos. Trump si presentò come il candidato della “legge e ordine”, minacciando di dispiegare l’esercito per sedare i disordini nelle città governate dai Democratici. Ma anche qui, la narrazione mediatica dominante si rivolse contro di lui: l’uso della mano dura venne interpretato come prova di atteggiamenti autoritari. Quando Trump ventilò l’idea di invocare l’Insurrection Act e schierare truppe per fermare i saccheggi, fu immediatamente attaccato sulla stampa mainstream e da esponenti Dem, che lo accusarono di voler instaurare una tirannia. La vicepresidente candidata Kamala Harris definì l’intervento federale “una pericolosa escalation pensata per provocare caos”, parte di un “calcolato disegno per diffondere panico”. Altri rappresentanti democratici parlavano apertamente di “deriva verso la tirannia”. In questo clima, qualunque mossa dell’amministrazione per ristabilire l’ordine veniva letta come repressione antidemocratica, mentre le frange violente nelle strade beneficiavano – indirettamente – di una sorta di immunità morale garantita dal favore dell’opinione pubblica progressista. La vicenda di BLM mostra dunque come da una legittima istanza si possa scivolare in un estremismo polarizzante, con risultati politicamente vantaggiosi per una parte (gli avversari di Trump) e deleteri per l’altra.
Chi tira le fila e perché?
In definitiva, la domanda cruciale rimane: chi regge davvero la regia dietro questa destabilizzazione interna e con quale scopo ultimo? Le analisi sopra esposte suggeriscono che non si tratti di semplici coincidenze o di un inevitabile “sfogo” sociale, ma piuttosto di un processo eterodiretto da attori ben precisi.
Molti indizi portano verso ambienti dell’élite progressista americana, legati al Partito Democratico e a una galassia di ONG, fondazioni e gruppi di attivismo ben finanziati. Questi soggetti – sfruttando il malcontento reale di parte della popolazione – orchestrano le proteste per ottenere vantaggi politici. Il pattern riscontrato è chiaro: si crea caos nelle strade, si delegittima l’autorità costituita accusandola di oppressione, si indebolisce la capacità di risposta dello Stato, e si orienta la narrazione pubblica in favore di un “cambiamento” di regime. È uno schema già visto all’opera all’estero (contro governi ritenuti scomodi per Washington) e che ora pare essere riadattato in chiave domestica.
Quanto agli obiettivi strategici, se davvero esiste una “regia” intenzionale, essi possono essere molteplici. Da un lato potrebbe trattarsi di un test su larga scala: verificare fino a che punto il sistema americano possa reggere a spinte centrifughe interne, quasi un esperimento di guerra psicologica condotto sul proprio terreno. Dall’altro – l’ipotesi più immediata – c’è il fine di erodere il potere esecutivo quando esso è in mani invise a chi manovra questi processi. Nel caso del 2020, indebolire Trump e preparare il terreno alla vittoria democratica; nel caso di Los Angeles 2025, mettere in difficoltà le agenzie federali sull’immigrazione e galvanizzare la base liberal in vista di futuri scontri politici.
Va sottolineato che riconoscere tale possibilità non significa abbracciare una teoria del complotto infondata, bensì collegare fra loro fatti concreti: finanziamenti pubblici a gruppi radicali, sincronizzazione di proteste in diverse città, immediate campagne mediatiche a supporto di una narrativa univoca. Certo, le proteste hanno anche cause genuine e partecipazione spontanea, ma ciò non esclude che vi sia chi le indirizza e sfrutta deliberatamente.
In conclusione, gli Stati Uniti sembrano trovarsi di fronte a uno spettro da loro stessi evocato. Le tecniche di destabilizzazione politica perfezionate in Medio Oriente e nell’Europa dell’Est stanno trovando applicazione sul suolo americano, trasformando conflitti sociali interni in quello che appare a tutti gli effetti come un tentativo di “rivoluzione colorata” interno. Mentre gli americani comuni scendono in piazza per cause in cui credono sinceramente, dietro le quinte potenti registi muovono i fili affinché quelle proteste vadano nella direzione desiderata. È una sfida senza precedenti all’ordine democratico degli Stati Uniti: la nazione che esportava rivoluzioni morbide all’estero deve ora guardarsi dal suo manuale applicato in casa propria (opendemocracy.net).
Fonti:
-
Sreeram Chaulia, Democratisation, NGOs and “colour revolutions”, openDemocracy (opendemocracy.net).
-
Colour revolution (voce di Wikipedia) (en.wikipedia.org).
-
Pamela Geller, Riots in LA Not Organic or Spontaneous, But a Well Organized…, Geller Report (9 giugno 2025) (gellerreport.com).
-
Tyler O’Neil, Who Organized the LA Anti-ICE Protests That Grew Into Riots?, The Daily Signal (9 giugno 2025) (dailysignal.com).
-
Christopher F. Rufo, Disrupt Violent Left-Wing Networks, City Journal (27 novembre 2023) (city-journal.org).
-
Charlotte Alter, How Black Lives Matter Could Reshape the 2020 Elections, TIME (17 giugno 2020) (time.com).
-
Joseph Gedeon, Reaction to Trump’s crackdown on LA protests splits sharply on party lines, The Guardian (9 giugno 2025) (theguardian.com).
-
Caitlin Dickson, Conservatives claim Trump is target of ‘color revolution’, Yahoo News (21 settembre 2020) (news.kodoom.com).