Il presidente ungherese Viktor Orbán ha recentemente invitato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, in netto contrasto con la posizione di alcuni leader europei, che hanno dichiarato l’intenzione di arrestarlo qualora mettesse piede nei loro Paesi. Tra questi figura anche Josep Borrell, alto rappresentante dell’UE per la politica estera.
A prima vista, il comportamento di Orbán potrebbe apparire controverso, ma è in realtà perfettamente comprensibile, soprattutto se osservato alla luce della politica internazionale attuale.
Orbán, che ha da tempo un rapporto conflittuale con l’Unione Europea, ha bisogno di rafforzare le proprie alleanze internazionali a seguito delle sue posizioni sulla guerra in Ucraina, che adottano la via diplomatica per la risoluzione del conflitto e non la bellicosa linea europea. Inoltre, non dimentichiamaolo: il presidente ungherese è osteggiato e minacciato in sede europea anche per il suo sovranismo e la sua difesa dei valori tradizionali e della fede cristiana.
E qui entra in gioco Donald Trump: il leader ungherese sa bene che il sostegno americano a Israele è un punto fermo della politica estera statunitense, trasversale e solido, indipendentemente dalle variazioni amministrative. Di conseguenza, posizionarsi a favore di Netanyahu non è una scelta ideologica, ma una strategia pragmatica volta a consolidare il supporto di un importante alleato come Trump e a rispondere agli euroburocrati, che hanno persino tentato di rovesciare il governo da lui guidato. Inoltre, non è escluso che vi sia stata una consultazione preventiva con l’attuale o futura amministrazione statunitense.
In definitiva: in questo contesto, l’Ungheria adotta una linea coerente; il ricorso alla Corte Penale Internazionale (CPI) non è lo strumento adeguato per affrontare questioni politiche e diplomatiche di tale portata. La CPI, nel corso della sua storia, ha spesso fatto più danni che benefici, dimostrandosi parziale e poco trasparente nelle sue decisioni. Sebbene in questo caso possa aver colto nel segno, il suo ruolo rimane secondario rispetto alle dinamiche geopolitiche più ampie e in passato si è ampiamente compromessa.
Orbán, quindi, ha scelto di pagare un “dazio” simbolico invitando Netanyahu, ma i benefici superano di gran lunga i costi.
L’Ungheria, attraverso questa mossa, si posiziona in modo favorevole rispetto a dossier internazionali cruciali, grazie all’appoggio di Trump. Questo è particolarmente rilevante se si considera che tali dossier toccano tematiche che includono persino la sopravvivenza stessa del genere umano, in primis la fine della guerra in Ucraina, come pure il controllo degli equilibri globali.
Al contrario, le dichiarazioni di alcuni leader europei, che minacciano l’arresto di Netanyahu, appaiono poco genuine. È plausibile che queste prese di posizione siano dettate da altri obiettivi, come il tentativo di distinguersi dagli Stati Uniti, specialmente in vista della presidenza Trump. Tale atteggiamento appare in linea con quanto già espresso in altre occasioni. Un’ulteriore ipotesi è che l’Unione Europea stia cercando di favorire un cambio di leadership in Israele. Tuttavia, un eventuale avvicendamento ai vertici israeliani non modificherebbe le dinamiche di fondo: il sostegno americano a Israele resterebbe saldo, così come le priorità strategiche nella regione.
In un’epoca in cui la politica internazionale si gioca su equilibri sottili, la mossa di Orbán appare meno assurda di quanto possano sembrare le scelte di alcuni Paesi europei, inclusa l’Italia. In un’epoca in cui la politica internazionale si basa su delicati equilibri di potere, Orbán ha compreso che la priorità non è assecondare posizioni comunque contraddittorie (di chi in altre occasioni tradisce il proprio cinismo di fondo), bensì garantire che le scelte politiche siano orientate al bene concreto del proprio popolo e alla stabilità globale.
Come già evidenziato, Orbán mette in luce un aspetto fondamentale: le relazioni internazionali non possono essere dominate da dinamiche punitive o simboliche, come quelle rappresentate dal CPI, che raramente producono risultati concreti. Né possono essere gestite seguendo l’esempio del trattamento riservato a Putin, spesso travisato in chiave propagandistica in modo sistematico. Al contrario, è necessaria una strategia che consideri le reali esigenze dei popoli coinvolti e promuova una pace duratura a livello globale.
Se i Paesi europei fossero realmente sinceri nel loro umanitarismo sarebbero intervenuti prima, e non ora che Gaza è ridotta a una ‘tabula rasa , dopo aver inviato le proprie marine a difesa di Israele e appoggiato per lungo tempo politiche che ora si sono ulteriormente estremizzate ulteriormente. Ed appunto: non avrebbero inflitto causato alla Siria una devastazione, né continuerebbero a imporre le inique sanzioni che ancora gravano sul Paese.
In definitiva, scegliendo di non sostenere il Tribunale Penale Internazionale e di opporsi alla postura europea, Orbán invia un segnale chiaro, ponendosi come contrappeso all’aggressività dell’Unione Europea nei confronti del suo governo e della politica estera europea, spesso influenzata da agende globaliste. In questo contesto, appare logico che le alleanze in tempo di guerra siano determinate dalla minaccia più immediata, anche se ciò implica stringere accordi o adottare azioni che potrebbero sembrare inusuali, non convenzionali o perfino insensibili dal punto di vista umano. Tuttavia, una decisione diversa da parte di Orbán non avrebbe portato alcun beneficio al popolo palestinese, né avrebbe risolto nulla; al contrario, avrebbe semplicemente aggravato la posizione dell’Ungheria, un Paese che, ormai, può contare quasi esclusivamente sul sostegno della futura amministrazione Trump. Sarà in quel contesto che il peso specifico di Orbán, già riconosciuto da Trump in diverse occasioni, potrà realmente fare la differenza.
Purtroppo, gli “strateghi europei” dimostrano ancora una volta di non sapere come muoversi in circostanze di questo tipo, continuando ad adottare politiche sanzionatorie e giustizialiste, prive però di un’efficace capacità di affrontare e risolvere le situazioni concrete delle persone, al di là delle scelte ideologiche e di schieramento.
La posizione di Orban, pur attirando critiche, rivela una capacità di analisi e una determinazione che mancano a molti altri leader europei. Orbán sembra voler anteporre gli interessi concreti e tangibili della nazione ai richiami ideologici o alle pressioni di corto respiro. In un mondo dove le grandi potenze si contendono la supremazia e gli equilibri si fanno sempre più fragili, questo approccio potrebbe rivelarsi non solo pragmatico, ma necessario per salvaguardare l’autonomia politica e il futuro del proprio Paese.