La guerra dei significati: dove oggi si decide il potere

La guerra dei significati: dove oggi si decide il potere

Oggi non si vince più con i carri armati, ma con le parole. Il vero campo di battaglia non è fatto di trincee, ma di simboli, cornici narrative e suggestioni mediatiche. In un’epoca dominata da flussi incessanti di informazioni e comunicazioni globali, purtroppo non è più la verità dei fatti a decidere, ma la pervasività con cui quei fatti vengono raccontati. Chi impone per primo una ‘narrazione efficace’ – e la ripete ossessivamente – non descrive semplicemente la realtà: la costruisce, la rende accettabile, desiderabile, inevitabile.

I governi e le élite che dominano i media non si limitano a spiegare le loro decisioni: le fanno apparire naturali, legittime, perfino morali, anche quando conducono a disastri sociali, guerre assurde o alla cancellazione della memoria e della percezione di sè. Così, il “campo dei significati” si trasforma nella vera prima linea del potere contemporaneo. E in questa guerra silenziosa, chi detiene il monopolio del racconto pubblico vince senza sparare un colpo, perché ottiene la cosa più preziosa: il consenso delle masse, senza che se ne accorgano.

Psicologia delle masse e influenza mediatica

L’analisi critica della manipolazione dell’opinione pubblica affonda le radici negli studi di fine Ottocento sulla psicologia delle folle. Gustave Le Bon, ne “Psicologia delle Folle” (1895), evidenziò come gli individui riuniti in massa tendano a perdere la capacità di giudizio critico, diventando fortemente suggestionabili. Le Bon osservò che le masse non cercano la verità, ma preferiscono le illusioni che le seducono; di conseguenza, “chi sa illuderle può facilmente diventarne il padrone; chi tenta di disilluderle ne è sempre la vittima”.

In altri termini, un abile comunicatore può guidare le folle facendo leva su miti rassicuranti o emozioni semplici, piuttosto che su analisi razionali dei fatti. Parallelamente, il sociologo Gabriel Tarde notò l’emergere di nuovi strumenti di influenza sulle masse: i media e la comunicazione a distanza. All’inizio del ‘900 Tarde sosteneva che l’“età delle folle” tradizionali stesse lasciando spazio all’“era del pubblico” connesso dai mezzi di comunicazione.
Egli individuò in particolare nei giornalisti e nei formatori d’opinione i nuovi “conduttori delle folle”, capaci di instillare un’idea unica in un gruppo vasto di persone attraverso la stampa.

Questo “contagio mentale” – così lo definivano Tarde e altri – permette a pochi comunicatori di diffondere idee, slogan e cornici interpretative a moltitudini di individui separati fisicamente, ma uniti dalle stesse narrazioni mediatiche.
Già oltre un secolo fa, dunque, veniva riconosciuto il potere della nascente società di massa e dei suoi strumenti comunicativi nel plasmare credenze collettive. Tali intuizioni risultano oggi quantomai attuali, nell’era di internet, social media e informazione 24/7, in cui le folle – fisiche o virtuali – possono essere influenzate e guidate con straordinaria efficacia.

Elite e consenso: dalle teorie di Mosca e Pareto alla “fabbrica del consenso”

Se Le Bon e Tarde descrivevano il comportamento psicologico delle masse, altri pensatori si focalizzarono sul ruolo delle élite nel guidare e manipolare l’opinione pubblica. I sociologi italiani Vilfredo Pareto e Gaetano Mosca, esponenti della teoria delle élite, sostenevano che in ogni società esiste una minoranza ristretta che governa e una maggioranza che viene governata. Questa minoranza al potere – la classe politica – legittima il proprio dominio tramite un’ideologia accettabile, una “formula politica” basata su principi morali universali condivisi.

Ogni classe di governo tende a giustificare il proprio potere appellandosi a qualche principio morale universale. Ciò significa che i governanti invocano valori astratti (diritti, libertà, nazione, progresso,democrazia, ecc.) per ottenere il consenso spontaneo dei governati, presentando le proprie decisioni come giuste e inevitabili. In modo che persino nelle democrazie parlamentari la rappresentanza popolare può rivelarsi una finzione, dietro cui continua ad agire una ristretta cerchia di potenti

In “Trattato di Sociologia Generale” (1916), Pareto osserva che “in tutte le società si trova una classe governante poco numerosa che si mantiene al potere in parte con la forza e in parte col consenso della classe soggetta, molto più numerosa”. Il consenso, tuttavia, non è necessariamente spontaneo: viene spesso fabbricato attraverso l’astuzia – la “volpe” di cui parlava Machiavelli – ovvero tramite propaganda, manipolazione dell’informazione e costruzione di miti politici utili allo status quo.

In breve, per Pareto e Mosca le masse non governano mai davvero se stesse: esse vengono guidate dall’alto, con la persuasione o con la forza, e convinte ad accettare decisioni anche contrarie ai propri interessi tramite abili narrazioni legittimanti. Queste intuizioni sulle élite hanno trovato eco nel XX secolo nelle analisi di studiosi come Noam Chomsky. Chomsky, studiando il funzionamento dei media nelle democrazie avanzate, coniò insieme a Edward Herman il concetto di “fabbrica del consenso” (manufacturing consent). Egli sostiene che i media mainstream, lungi dall’essere arbitri neutrali, tendono a operare “in maniera non dissimile dagli apparati di propaganda di Stato”, specialmente quando sono in gioco grandi interessi politici ed economici. Nella famosa metafora di Chomsky, “la propaganda è alla democrazia ciò che il randello è allo Stato totalitario”

In altri termini, nelle società formalmente libere l’arma per ottenere obbedienza non è la coercizione brutale, ma la persuasione occulta attraverso un flusso continuo di messaggi filtrati. Attraverso meccanismi di filtro (proprietà dei media, finanziamenti pubblicitari, fonti ufficiali, pressioni e “nemici” utili) il sistema mediatico limita il dibattito pubblico ai soli confini accettabili per l’élite, modellando così l’agenda e i parametri entro cui l’opinione pubblica può formarsi. Il risultato, come spiegato da Chomsky, è che la maggioranza dei cittadini finisce per accettare le decisioni dei governanti pensando che siano liberamente volute da loro stessi, mentre in realtà tale consenso è stato accuratamente costruito. Questa “fabbrica del consenso” moderna applica, con mezzi aggiornati, proprio quel misto di forza e illusione descritto da Pareto: oggi la forza bruta lascia spesso il posto alla forza simbolica della propaganda, non meno efficace nel ridurre al silenzio il dissenso.

L’industria culturale e la passivizzazione delle coscienze

Un ulteriore tassello nella critica al controllo delle opinioni viene dalla Scuola di Francoforte, in particolare da Theodor W. Adorno e Max Horkheimer. Nel celebre saggio “L’industria culturale: Illuminismo come inganno delle masse” (Dialettica dell’Illuminismo, 1947), i due filosofi denunciarono come la cultura di massa – veicolata dai mezzi di comunicazione di massa e dall’intrattenimento popolare – diventi uno strumento formidabile per manipolare le coscienze e conservare l’ordine esistente. L’industria culturale (radio, cinema, televisione, musica leggera, oggi social network e piattaforme digitali) produce prodotti standardizzati che intrattengono il pubblico, ma allo stesso tempo ne plasmano i bisogni e le abitudini secondo la logica del sistema dominante.

Adorno e Horkheimer sottolineano che questa cultura commerciale soddisfa solo bisogni falsi, indotti dal capitalismo, e anestetizza lo spirito critico delle masse In pratica , il bombardamento di divertimento facile e messaggi semplificati rende le persone docili e soddisfatte, anche quando la realtà socio-economica sarebbe difficile. Ciò conduce a quello che Adorno definisce “annientamento del pensiero autonomo e della critica” da parte dell’industria culturale, il cui scopo ultimo è proprio “preservare l’ordine dominante”. Intrattenuta e distratta da un flusso incessante di stimoli, la popolazione perde la capacità di mettere in discussione il sistema; anzi, finisce per contribuire volontariamente al suo mantenimento, consumando i prodotti culturali e interiorizzandone i valori.

Questa analisi, pur sviluppata negli anni ’40, appare straordinariamente profetica rispetto all’odierna società mediatica: la saturazione comunicativa odierna – dalla televisione h24 ai social media algoritmici – può essere letta come un’estensione di quel fenomeno, dove l’adesione passiva dell’opinione pubblica è ottenuta non solo tramite la propaganda politica diretta, ma anche tramite un clima culturale generale che scoraggia la profondità critica. In sintesi, l’industria culturale crea cittadini-spettatori, coinvolti nel consumo e disimpegnati dalla contestazione, facilitando così l’accettazione acritica delle direttive dell’establishment.

Narrazioni e realtà: il caso dell’Unione Europea

Queste riflessioni teoriche trovano riscontro nel contesto attuale, in particolare osservando l’evoluzione dell’opinione pubblica in Europa e il ruolo delle comunicazioni di massa nelle vicende politico-sociali dell’UE. Negli ultimi decenni l’Unione Europea ha progressivamente sviluppato una complessa strategia comunicativa volta a orientare i cittadini verso il sostegno del progetto comunitario e delle sue politiche, spesso presentandole come inevitabili o moralmente giuste. Ufficialmente si parla di promuovere i “valori europei” e combattere disinformazione e populismi; in pratica, alcuni studi denunciano l’esistenza di una vera e propria “macchina di propaganda” istituzionale europea, sofisticata e capillare.

Secondo l’analisi del ricercatore Thomas Fazi, l’UE – dietro il nobile scudo retorico dei valori democratici – finanzia con milioni di euro una rete di ONG, fondazioni e think tank allineati, con lo scopo di influenzare l’opinione pubblica degli Stati membri e promuovere l’agenda politica di Bruxelles. Questo sistema opera tramite quella che viene definita “propaganda per procura”: le organizzazioni finanziate dall’UE fungono da cassa di risonanza (“megafoni”) della Commissione, diffondendo messaggi favorevoli all’integrazione e sostenendo le politiche comunitarie nei vari Paesi. Lungi dall’essere voci veramente indipendenti della “società civile”, tali enti dipendono economicamente da Bruxelles e di fatto veicolano la narrazione voluta dalle istituzioni UE.

Non si tratta quindi di un supporto neutrale al dibattito, ma – come osserva Fazi – di un’operazione costruita per rafforzare le narrazioni pro-UE, screditare il dissenso euroscettico e presentare l’integrazione europea come unica via possibile
lindipendente. L’effetto di queste campagne è di creare “l’illusione di un consenso diffuso attorno all’agenda dell’UE”, mentre in realtà si tratta di un consenso artificiale, costruito ad arte con risorse pubbliche.

Le ONG e i gruppi beneficiari dei fondi europei vengono presentati al pubblico come voci autonome e rappresentative, ma sono in realtà parte organica dell’apparato che sostiene l’ideologia istituzionale. In tal modo – nota il rapporto – “si maschera un enorme conflitto di interessi da partecipazione democratica”, poiché l’UE finanzia i propri laudatori mentre le opinioni critiche restano marginalizzate, prive di mezzi e spesso delegittimate. Parallelamente, la lotta alla “disinformazione” e all’“hate speech” viene talora utilizzata come strumento per silenziare voci dissenzienti: ogni messaggio che rischi di erodere la fiducia dei cittadini nelle politiche UE può venire etichettato come fake news o propaganda ostile, e dunque censurato. In sintesi, attraverso finanziamenti mirati e il controllo indiretto dei circuiti informativi, l’establishment comunitario è in grado di indirizzare il dibattito pubblico europeo su binari favorevoli, ottenendo che larga parte della popolazione non metta in discussione anche scelte fallimentari (una “china pessima”, per citare la preoccupazione diffusa) in materia di politica estera o economica, perché convinta – a livello narrativo – della loro correttezza o inevitabilità.

Dal punto di vista ideologico-culturale, diversi commentatori mettono in luce come la narrazione dominante in Europa stia operando una sorta di “rivoluzione silenziosa” nei valori, spesso in contrapposizione con il patrimonio storico del continente. L’UE abbraccia un’ideologia globalista e post-nazionale, che promuove principi liberal-progressisti omogenei a scapito delle identità tradizionali locali. Ad esempio, le istituzioni europee hanno sostenuto attivamente cause come la ridefinizione dei diritti in tema di famiglia, genere e bioetica, scontrandosi con governi e società dell’Europa orientale di forte impronta conservatrice o cristiana (si pensi alle polemiche con Polonia e Ungheria su stato di diritto, diritti LGBTQ+, aborto, ecc.). Questo atteggiamento è una forma di “omologazione culturale” , se non un “imperialismo culturale” portato avanti sotto la bandiera dei “valori UE”. Mons. Giampaolo Crepaldi, ad esempio, ha osservato con preoccupazione che “la cultura dell’Unione Europea è sostanzialmente atea e anti-cristiana, nascosta dietro il principio della libertà religiosa”.

Paradossalmente, nel nome della tolleranza e della laicità, si afferma un pensiero unico tecnocratico che tende a relegare ai margini proprio il retaggio cristiano e umanistico su cui l’Europa si è costruita nei secoli. L’“ideologia europeista”, quando posta al di sopra di tutto come dogma indiscutibile, rischia di diventare essa stessa illiberale – una nuova ortodossia che delegittima qualunque voce contraria tacciandola di populismo, oscurantismo o disinformazione. Ancora una volta si conferma il principio per cui chi controlla il linguaggio e i significati domina il campo politico: definendo cosa è progresso, cosa è odio, cosa è verità o fake news, le istituzioni orientano le masse ad approvare politiche che in altre epoche avrebbero generato vasto dissenso. La costruzione narrativa dell’“Europa inevitabile” e “virtuosa” serve così a evitare che il “gregge docile” – per riprendere Le Bon – si disperda: la critica è confinata fuori dal recinto accettabile del discorso pubblico, e la maggioranza dei cittadini finisce per accettare passivamente anche decisioni controverse, giustificandole come necessari passi avanti verso il bene comune.

Verso un’alfabetizzazione critica del popolo

Lo scenario delineato è indubbiamente preoccupante: le moderne comunicazioni di massa fungono da potentissimi strumenti di indirizzamento del pensiero collettivo, capaci di far apparire legittime e inevitabili anche politiche malsagge o ingiuste, purché confezionate nella narrazione giusta. La “vittoria” sul campo dei significati di cui si diceva all’inizio comporta che chi crea l’interpretazione dominante di un evento vince, a prescindere dalla bontà intrinseca delle proprie ragioni. Abbiamo visto, con il supporto di autorevoli studiosi, come ciò sia possibile: le folle, assetate di miti più che di verità, seguono chi le sa illudere (Le Bon) (aforismario.eu); i media, guidati da comunicatori abili, instillano idee-forza uniformi in milioni di menti (Tarde) (ilmanifesto.it); una ristretta élite organizza e legittima il proprio potere tramite ideologie e propaganda (Mosca, Pareto) (realclearhistory.com); i sistemi democratici-mediatici moderni perfezionano questa gestione attraverso la fabbrica del consenso e la limitazione occulta del dibattito (Chomsky)chomsky.info; l’industria culturale complessiva intanto mantiene le masse docili, distraendole e conformandole ai valori di chi comanda (Adorno, Horkheimer)culturalstudiesnow.blogspot.com. Il caso dell’Europa odierna illustra concretamente questi meccanismi: un’intera sovrastruttura comunicativa crea senso comune, marginalizza le voci dissenzienti e spinge i popoli ad accettare trasformazioni epocali – dalla geopolitica alla cultura – senza che un dibattito autentico abbia luogo (lindipendente.online).

Di fronte a questo quadro, emergono con urgenza due esigenze fondamentali. Da un lato, vi è bisogno di una presa di coscienza critica da parte dei cittadini: recuperare quello spirito autonomo e quello scetticismo costruttivo che sono antidoti naturali alla manipolazione. Solo una società con individui davvero informati, capaci di riconoscere retoriche ingannevoli e pensare con la propria testa, può sfuggire al destino di “spettatore” passivo assegnatole dall’industria culturale (culturalstudiesnow.blogspot.com). Dall’altro lato, in un mondo in cui la guerra è anche guerra di narrazioni, diventa cruciale il ruolo di intellettuali indipendenti, media liberi e centri studi pluralisti che sappiano produrre contro-narrazioni e smascherare le costruzioni propagandistiche. In questo è da notare che nella attuale battaglia propagandistica narrativa tra Russia ed occidente, la Russia, che non dispone di una propria macchina semantica finisce per inseguire le definizioni altrui, rimanendo sempre un passo indietro. Per superare questo stato di cose, non solo come ìstrategia’ ma come difesa dell’idendità umana, promuovere una sorta di “ingegneria del significato” etica e trasparente: sviluppare competenze per analizzare criticamente i discorsi pubblici, svelarne gli archetipi nascosti, proporre visioni alternative basate su fatti verificabili e valori umanistici genuini, non su slogan vuoti.

Naturalmente, tutto questo sarebbe semplificato in un percorso di catechesi cristiana , che per mia esperienza, da la facolta di percepire il ‘nocciolo delle questioni’ e riconoscere il bene ed il male.

In conclusione, la libertà di una società si misura anche dal controllo che essa mantiene sui significati circolanti — cioè sulla capacità di custodire un criterio di verità che nasca dall’esperienza e non dalla suggestione, da una fedeltà al reale e non dall’adattamento ideologico. Serve una cittadinanza vigile e pensante, capace di spezzare l’incantesimo delle narrazioni preconfezionate e tornare a giudicare le scelte dei governanti con occhi liberi, rifiutando di giustificare il male col pretesto del bene comune.

Ma questo non è possibile senza una sorgente più profonda: nella tradizione cattolica, solo una coscienza formata da un’esperienza spirituale autentica — cioè aperta al vero, al bene e al destino dell’uomo nella sua totalità — può riconoscere la menzogna, smascherare l’inganno e resistere al conformismo. Dove viene meno questo radicamento, la libertà diventa fragile, e l’uomo si fa preda del potere che controlla i simboli. In gioco, sul campo dei significati, non c’è solo la politica: c’è la verità sull’uomo, e quindi la sostanza stessa della nostra libertà.

Fonti: Le citazioni e analisi presenti sono tratte dagli studi classici sulla psicologia sociale e la teoria delle élite di Gustave Le Bon (aforismario.eu), Gabriel Tarde (ilmanifesto.it), Vilfredo Pareto (realclearhistory.com) e Gaetano Mosca (realclearhistory.com); dalle critiche moderne di Noam Chomsky ai media e alla propaganda (chomsky.info); dalle opere di Theodor W. Adorno e Max Horkheimer sull’industria culturaleculturalstudiesnow.blogspot.com; nonché da ricerche contemporanee sul sistema comunicativo dell’Unione Europea e sull’orientamento dell’opinione pubblica nel contesto europeo (lindipendente.online)  (lanuovabq.it). Questi riferimenti mettono in luce un fenomeno comune: il potere di definire i significati è divenuto esso stesso potere politico, e un percorso di consapevolezza sul proprio e sull’esistenza, è il primo passo per comprenderne le dinamiche e non esserne sopraffatti.