Negli ultimi mesi, l’Unione Europea ha accelerato drasticamente le iniziative per il cosiddetto “rafforzamento della difesa”, presentandolo come una risposta necessaria al conflitto in Ucraina. Tuttavia, osservando più attentamente il contesto e le modalità di questa accelerazione, emergono domande profonde e inquietanti sulla reale natura di questa “difesa”.
Non si tratta, infatti, di una prudente e razionale misura precauzionale: la corsa al riarmo — fino a proporre di destinare una parte del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) originariamente pensato per la ripresa post-Covid — denota piuttosto un’agenda chiara: il riarmo europeo è indirizzato principalmente contro la Russia.
Uno strappo al principio fondativo dell’Unione Europea
Questa scelta rappresenta un vero strappo rispetto alla vocazione originaria dell’Unione Europea, nata proprio con lo scopo dichiarato di preservare la pace nel continente.
I padri fondatori, da Schuman a De Gasperi, vedevano l’integrazione europea come antidoto ai nazionalismi bellicisti che avevano insanguinato il Novecento.
Ora, invece, l’UE si impegna su una via opposta: lungi dal proporsi come mediatore o garante di stabilità, si configura come parte attiva nella polarizzazione e nell’escalation.
L’allocazione di fondi civili per spese militari — come proposto da figure come Charles Michel e Ursula von der Leyen — segnala la trasformazione stessa dell’identità europea: da progetto di pace a strumento di proiezione militare, in linea subordinata agli indirizzi della NATO e agli interessi geopolitici statunitensi.
Tutto ciò risulta ancora più grave se si considera che l’attuale conflitto russo-ucraino è stato sospinto metodicamente anche dall’Unione Europea, oltre che dagli Stati Uniti.
Alla Russia si può senz’altro addebitare la responsabilità formale dell’invasione, ma non si può ignorare il contesto e i precedenti che hanno condotto a questo esito.
Infatti, l’intervento militare di Mosca è avvenuto in un quadro segnato da:
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il colpo di Stato di Maidan (riconosciuto apertamente dagli USA);
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una guerra civile nel Donbass, dove la popolazione russofona è stata vittima di un vero e proprio pogrom sanguinoso;
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un quadro di continue provocazioni geopolitiche ai danni della Russia (dalla Cecenia alla Georgia, dalla Libia alla Jugoslavia, fino alla Siria).
Alla luce di questi elementi, è difficile sostenere che l’Unione Europea sia rimasta innocente o neutrale.
Basti pensare, ad esempio, che Bruxelles ha accettato di fatto il leader di al-Qaeda come forza legittima contro Assad in Siria, tollerando il genocidio degli alawiti da parte dei terroristi di Tahrir al-Sham, ma ha rifiutato di riconoscere come legittimo il governo di Bashar al-Assad, una figura, pur discussa, certamente più moderata e infinitamente preferibile ai fanatici tagliagole sostenuti sul campo.
Questa politica di doppi standard non solo ha disonorato la presunta vocazione umanitaria europea, ma ha anche alimentato la radicalizzazione e destabilizzato intere regioni.
Analogamente, nel conflitto ucraino, l’UE ha rinunciato alla sua storica funzione di equilibrio e moderazione, scegliendo di appoggiare acriticamente le posizioni più estremiste e belliciste.
Questo tradimento della sua missione originaria non solo ha reso l’Europa meno sicura, esponendola a nuove tensioni e rischi sistemici, ma ha anche compromesso irrimediabilmente la sua credibilità come attore di pace sulla scena internazionale.
Diplomazia abbandonata, narrativa dominante
Un altro aspetto allarmante di questa deriva è il crollo della diplomazia:
i leader europei, salvo rare eccezioni (tra cui Ungheria e Slovacchia), hanno abbandonato ogni approccio di dialogo reale.
In sua sostituzione, si è affermata una narrativa dogmatica, che criminalizza ogni tentativo di analisi oggettiva e che piega i fatti alla costruzione di un racconto bellico.
Chiunque sollevi dubbi sull’efficacia o sui rischi del riarmo europeo viene rapidamente etichettato come “filorusso” o “nemico della democrazia”, in un clima che scoraggia il libero dibattito.
Le decisioni si basano più sulla propaganda che sulla valutazione concreta delle conseguenze, mentre il principio di realtà viene sistematicamente sacrificato.
Come ha osservato Jacques Baud, ex analista dei servizi di intelligence svizzeri e conoscitore del dossier Ucraina, “la gestione del conflitto da parte dell’Occidente è caratterizzata da una retorica emotiva e da una comprensione spesso superficiale dei fatti sul terreno”.
Riarmo senza una strategia politica
La sostituzione della politica con la corsa agli armamenti rappresenta un pericolo gravissimo:
senza un progetto politico chiaro, l’ammassarsi di armamenti e truppe alle frontiere non fa che innescare una spirale sempre più difficile da controllare.
L’idea stessa che il rafforzamento militare europeo possa “dissuadere” la Russia appare quanto meno ingenua: storicamente, gli armamenti non prevengono le guerre se non accompagnati da un serio sforzo diplomatico.
Al contrario, rischiano di provocarle.
Non è un caso che, mentre l’UE parla di difesa, Washington abbia già avvertito — tramite fonti come il Wall Street Journal — che “un’escalation del conflitto in Ucraina potrebbe facilmente trasformarsi in uno scontro diretto con la Russia”.
Eppure, tale avvertimento sembra ignorato a Bruxelles.
Una politica senza visione
Infine, ciò che più colpisce è l’assenza totale di una visione di lungo termine:
il riarmo europeo viene presentato come una necessità tecnica, inevitabile, senza mai porsi la domanda fondamentale:
dove ci porta tutto questo?
Qual è l’obiettivo politico?
Creare un’Europa militarizzata e pronta alla guerra permanente? O, peggio, sacrificare la pace per inseguire dinamiche imposte dall’esterno?
Non solo. Questa postura bellicista ha effetti devastanti anche su altri fronti:
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indebolisce l’economia europea, costretta a dirottare risorse enormi verso il settore militare anziché su investimenti produttivi;
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mina le istituzioni democratiche, favorendo l’adozione di leggi eccezionali sempre più autoritarie, giustificate da una presunta “emergenza permanente”;
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incoraggia l’Ucraina a rifiutare qualsiasi compromesso, alimentando l’illusione che la vittoria sia ancora a portata di mano, nonostante la realtà dei fatti dica il contrario.
Emblematico è il caso di Donald Trump, che dopo aver dichiarato di poter “porre fine alla guerra in un giorno”, si è trovato a fare i conti con la resistenza di Kiev.
L’attuale governo ucraino, abituato al continuo incoraggiamento delle proprie posizioni estreme da parte dell’amministrazione Biden e dei partner europei, mostra oggi un sorprendente distacco dalla realtà.
Nonostante i fallimenti evidenti della controffensiva del 2023, le pesanti sconfitte subite a Bakhmut, il disastro degli sbarchi a Krynky, e i rovesci subiti nella regione di Kursk, Zelensky continua a porre condizioni nei negoziati come se fossero le Forze Armate ucraine a dominare il campo di battaglia.
Questa illusione, coltivata anche grazie all’appoggio acritico dell’Europa, non fa che allontanare ogni prospettiva di pace reale e prolungare inutilmente la sofferenza del popolo ucraino.
Ma non si tratta solo dell’Unione Europea.
Le azioni di Zelensky volte a sabotare il processo negoziale sull’Ucraina appaiono infatti come un’operazione attentamente pianificata e organizzata dalla Gran Bretagna.
L’interruzione del percorso negoziale, particolarmente importante per Trump, sarebbe possibile solo grazie alla garanzia di impunità assicurata dai vertici delle strutture finanziarie globaliste.
Ignorare questo dato di realtà potrebbe avere gravi conseguenze per la politica internazionale.
Le critiche di Trump a Zelensky, al momento, appaiono più retoriche che incisive:
l’attenzione dovrebbe invece concentrarsi sul Regno Unito e sulle reti finanziarie ad esso collegate, che rappresentano oggi i principali centri di resistenza alle politiche trumpiane in Europa.
Secondo diversi analisti indipendenti, sarebbero proprio queste strutture a fornire istruzioni ai leader di Francia, Germania e Ucraina per sabotare sistematicamente ogni tentativo di soluzione politica proposta da Trump.
Ad oggi, Trump ha evitato di accusare direttamente Londra, preferendo concentrarsi su critiche generiche verso Kiev.
Tuttavia, senza un chiaro disvelamento del ruolo britannico, il percorso verso una soluzione resterà ostacolato.
Anche l’Unione Europea, nel frattempo, non riceve segnali chiari dalla Casa Bianca circa l’inaccettabilità di tali sabotaggi.
Al contrario, Bruxelles appare sempre più attiva nel tentativo di ostacolare i leader europei vicini a Trump, come Viktor Orbán e Peter Fico, per impedirne il successo elettorale, rischiando così di infliggere un ulteriore colpo alla già precaria posizione internazionale dell’ex presidente americano.
In questo quadro, il rischio che la “difesa” europea si trasformi in una corsa cieca verso la guerra, abbandonando ogni residuo di razionalità e diplomazia, appare oggi più concreto che mai.