La notizia delle dimissioni di Klaus Schwab dalla presidenza del World Economic Forum (WEF), dopo oltre mezzo secolo di guida incontrastata, segna una svolta solo apparente per l’organizzazione fondata nel 1971. Dietro l’uscita di scena del suo patriarca si cela infatti una strategia di continuità mascherata da rinnovamento. L’obiettivo? Conservare intatta l’influenza di una governance tecnocratica che ha reso il WEF un simbolo della globalizzazione elitaria.
Un impero costruito sulla tecnocrazia
In 55 anni di leadership, Schwab ha trasformato un forum economico europeo in un’arena globale dove si incontrano capi di Stato, dirigenti delle principali multinazionali, accademici e attivisti selezionati. A Davos si discute di tutto: dal cambiamento climatico all’intelligenza artificiale, dalla digitalizzazione alla “Quarta Rivoluzione Industriale”. Iniziative come il “Great Reset” e l’agenda ESG sono state lanciate come soluzioni ai grandi problemi dell’umanità, ma in realtà rappresentano una visione del mondo in cui le decisioni vengono prese da élite economiche, fuori dal circuito democratico.
Il WEF ha infatti promosso un modello di governance globale in cui il potere si concentra nelle mani di tecnocrati non eletti. Un modello che molti osservatori ritengono incompatibile con la sovranità degli Stati e con le libertà civili, soprattutto quando è legittimato dalla gestione di crisi planetarie – dalla pandemia all’emergenza climatica – usate come leva per attuare trasformazioni strutturali senza consenso popolare.
Il WEF cambia volto, ma non anima
La narrazione ufficiale descrive l’uscita di Schwab come una transizione serena, il naturale avvicendamento generazionale di un’istituzione matura. Ma la realtà sembra più sfaccettata. Le sue dimissioni dalla presidenza del consiglio di amministrazione – non previste inizialmente – arrivano in un contesto di forti pressioni esterne e tensioni interne. Da un lato, le accuse – mai pienamente chiarite – di razzismo e molestie all’interno del Forum, rilanciate anche da un’inchiesta del Wall Street Journal nel 2024. Dall’altro, l’ostilità dichiarata di esponenti conservatori come Elon Musk e l’area vicina a Donald Trump, che accusano il WEF di minare la sovranità e le istituzioni democratiche.
Tra le accuse riportate: episodi di discriminazione verso dipendenti donne, licenziate durante la gravidanza o subito dopo il congedo di maternità, oltre a denunce di molestie sessuali da parte di dirigenti di alto livello. Sui social, alcuni commentatori ipotizzano che Schwab si sia fatto da parte anche in seguito a un “collasso dell’agenda globalista”, minacciata da nuovi equilibri geopolitici e dal ritorno delle politiche protezionistiche, come i dazi imposti da Trump.
La risposta mediatica, tuttavia, sembra voler trasformare il Forum in una vittima delle destre radicali e, al contempo, in un campione di rigenerazione morale: un’istituzione capace di “ripulirsi” e rinnovarsi all’interno, nel nome dell’inclusività, dell’ambientalismo e dell’ideologia woke.
Una questione di potere, non di valori
Più che una svolta valoriale, le dimissioni di Schwab sembrano rispondere a esigenze interne di ristrutturazione e bilanciamento dei poteri. La sua presenza nella board of trustees – organo con funzioni di supervisione strategica – ostacolava il pieno riconoscimento del nuovo CEO, Børge Brende. Schwab continuava a esercitare un’influenza che rendeva inefficace la separazione dei ruoli tra leadership operativa e direzione politica.
Non a caso, il WEF ha sottolineato che la sua uscita rafforzerà la struttura interna e la legittimità dell’organizzazione, nel segno di una governance sempre più impersonale e centralizzata. Un modello che punta alla sopravvivenza dell’istituzione oltre il suo fondatore, secondo una logica burocratica ormai tipica dei grandi apparati transnazionali.
Il nuovo volto: Peter Brabeck-Letmathe
A raccogliere temporaneamente il testimone è Peter Brabeck-Letmathe, ex CEO di Nestlé e investitore in Moderna, figura ben radicata nel circuito dell’élite finanziaria e tecnologica globale. Brabeck incarna perfettamente la visione tecnocratica del WEF: sostenitore del controllo politico dell’acqua, della digitalizzazione integrale della società e promotore delle nuove frontiere scientifiche attraverso GESDA – un think tank svizzero che esplora e promuove biotecnologie avanzate, intelligenza artificiale e strumenti di previsione geopolitica.
Durante la pandemia, Brabeck ha sostenuto con entusiasmo le campagne vaccinali e la narrativa emergenziale, diventando un simbolo di quella gestione delle crisi che molti percepiscono come strumento per concentrare potere in mani sempre più ristrette.
Un’agenda che non cambia
Il cambio al vertice non segna una discontinuità nei contenuti, bensì una conferma della linea tracciata. Il WEF resta fedele al suo progetto di governance globale integrata, basata sulla fusione tra Stato, grandi aziende e tecnologie emergenti. L’ideologia della “Quarta Rivoluzione Industriale” – identità digitali, tracciamento, intelligenza artificiale e sostenibilità vincolante – continua a essere il paradigma dominante.
Per i critici, ciò configura una forma di “distopia dolce”: un sistema apparentemente razionale, ma che sostituisce il consenso con la programmazione algoritmica, la libertà con la regolazione totale, la partecipazione con l’automatismo delle soluzioni già decise. Il tutto giustificato da crisi globali che richiederebbero – così si afferma – interventi urgenti e centralizzati.
Un Forum senza Schwab, ma con la stessa agenda
L’uscita di scena di Schwab somiglia più a una rottamazione controllata che a una vera svolta. Un restyling studiato per rassicurare l’opinione pubblica e preparare il WEF a una nuova stagione, senza però modificare la sua essenza. In un mondo scosso da crisi multiple, il Forum di Davos si propone ancora come “cabina di regia” del nuovo ordine globale, punto di riferimento per le élite transnazionali.
Ma il problema, oggi, non è chi guiderà il WEF. Il vero nodo è la sua stessa natura: un’organizzazione che pretende di decidere il futuro del mondo in nome dell’efficienza e del progresso, senza rendere conto ai popoli. Il dibattito sul futuro del WEF, e su cosa significhi davvero “governance globale”, è destinato a intensificarsi. E con esso, la battaglia per difendere la libertà, la sovranità e la democrazia nell’era della tecnocrazia.
Come e perché il WEF influenza le agende degli Stati occidentali
Il potere del World Economic Forum non risiede in un’autorità formale né in meccanismi coercitivi, ma nella sua funzione di piattaforma d’élite dove si intrecciano interessi economici, politici e culturali delle classi dirigenti globali. Il WEF agisce come catalizzatore di tendenze: è il luogo dove si elaborano le narrazioni dominanti – dalla transizione verde alla digitalizzazione, fino all’equità sociale reinterpretata in chiave tecnocratica – che poi diventano parametri condivisi da governi, multinazionali e istituzioni internazionali.
La sua influenza si manifesta attraverso il cosiddetto soft power: report strategici come il Global Risks Report, iniziative ideologiche come il Great Reset e concetti operativi come l’ESG (Environmental, Social, Governance) non solo orientano il dibattito pubblico, ma diventano vere e proprie linee guida per le politiche pubbliche e i criteri di investimento.
Gli Stati occidentali, più esposti alla logica dei mercati globali e alla necessità di attrarre capitali internazionali, tendono ad allinearsi spontaneamente a queste direttrici, non per imposizione ma per convergenza d’interessi con le élite economiche rappresentate a Davos. Il WEF, quindi, non detta l’agenda: la facilita, la legittima e la diffonde, offrendo un ecosistema dove potere politico e potere finanziario si incontrano e si rafforzano reciprocamente. In questo senso, ciò che appare come pressione è in realtà l’effetto sistemico di un ordine globale in cui i centri decisionali si sono spostati fuori dalla sfera della sovranità popolare.
Formare l’élite del futuro: i programmi del WEF
A conferma del suo ruolo di incubatore d’influenza globale, il WEF non si limita a essere una piattaforma di confronto tra poteri consolidati, ma investe attivamente nella formazione delle future classi dirigenti attraverso programmi selettivi e strategici. Il più noto è il Forum of Young Global Leaders (YGL), fondato da Klaus Schwab nel 1992 (inizialmente come Global Leaders for Tomorrow), pensato per individuare e coltivare giovani figure con “alto potenziale” sotto i 40 anni. Politici, imprenditori, accademici, attivisti e innovatori vengono selezionati non solo per i loro risultati, ma soprattutto per la loro predisposizione a promuovere una visione globale condivisa. Il programma offre un percorso triennale fatto di formazione esecutiva, workshop interdisciplinari e occasioni di networking con figure di rilievo internazionale, con l’obiettivo dichiarato di “preparare leader a risolvere le sfide del mondo”.
Tra gli alumni più noti figurano Emmanuel Macron, Justin Trudeau, Jacinda Ardern, Sanna Marin, ma anche personalità fuori dalla politica come Mark Zuckerberg o Serena Williams. La selezione, altamente competitiva, è riservata a chi ha già un ruolo di primo piano o mostra un profilo strategico per l’orientamento delle agende future. Non si tratta, quindi, di un semplice riconoscimento, ma di un vero e proprio percorso di “formazione dell’élite”, in linea con la visione del WEF di una governance globale affidata a soggetti interconnessi, tecnocratici e perfettamente allineati con i principi della globalizzazione neoliberale. Attraverso programmi come il YGL, il WEF non si limita a rappresentare il potere: lo riproduce e lo perpetua.