Israele, guerra e potere: la transizione che le élite vogliono fermare

Ogni accusa mossa all’Iran sul fronte nucleare appare gravemente viziata se posta a confronto con il caso israeliano. Il programma atomico di Tel Aviv, nato in segreto e mai sottoposto a veri controlli internazionali, è stato storicamente protetto, legittimato e mai sanzionato dalle potenze occidentali. Studi della George Washington University e inchieste del Washington Post rivelano che tra gli anni ’50 e ’60 Israele sviluppò clandestinamente armi nucleari, con il supporto della Francia e della Norvegia, mentre mentiva sistematicamente agli Stati Uniti.

Il reattore di Dimona, camuffato da centro di ricerca, e il test nucleare sospetto del 1979 al largo del Sudafrica (intercettato dal satellite Vela 6911) sono solo due esempi documentati di una strategia fondata sull’inganno e sull’impunità. Israele rifiuta tuttora di aderire al Trattato di Non Proliferazione (TNP), ma viene considerato un attore “affidabile”, mentre l’Iran — firmatario del TNP e soggetto a continue ispezioni — viene trattato come una minaccia esistenziale.

Ciò che viene ignorato è che il vero pericolo per l’ordine globale non è la proliferazione in sé, ma la selettività con cui essa viene tollerata o demonizzata, in base a logiche di potere. È in questa cornice che l’Iran rivendica il diritto a sviluppare capacità nucleari — non come strumento offensivo, ma come deterrente strategico e simbolo di sovranità.


La denuncia iraniana scuote le Nazioni Unite

In una tesa riunione d’emergenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l’ambasciatore iraniano Amir Saeed Iravani ha pronunciato un intervento durissimo, accusando l’ONU di connivenza con l’aggressione israeliana e statunitense. “Se non condannerete questi attacchi, ne sarete complici”, ha dichiarato, puntando il dito contro l’inerzia istituzionale e l’ipocrisia del diritto internazionale applicato a geometria variabile.

Iravani ha attaccato frontalmente anche Rafael Grossi, direttore dell’AIEA, definendolo “complice di ogni goccia di sangue degli eroi caduti del mio amato Iran”, denunciando l’agenzia come strumento politico in mano occidentale. Ha poi accusato il premier israeliano Netanyahu di aver trascinato gli Stati Uniti in una guerra costosa, definendo gli attacchi “barbari” e “una macchia nella storia delle Nazioni Unite”.

In un passaggio particolarmente simbolico, Iravani ha attribuito a Donald Trump il ruolo di esecutore di un progetto fallito da Israele, sostenendo che Washington stia sacrificando la propria sicurezza solo per proteggere Netanyahu. La conclusione del suo intervento è stata netta: l’Iran si riserva il diritto alla legittima difesa, e saranno le sue forze armate a stabilire modalità, tempi e obiettivi della risposta.


Diplomazia sospesa: tra deterrenza e trattativa

Nel frattempo, un’esclusiva del Wall Street Journal rivela che gli Stati Uniti, tramite attori regionali, hanno trasmesso a Teheran la volontà di Israele di porre fine al conflitto. Tuttavia, i bombardamenti israeliani su obiettivi iraniani non si sono interrotti, configurando un’ambigua strategia del “colpisci e negozia”, che riflette più debolezza che controllo.

Di fronte a questo scenario, Teheran è posta davanti a una scelta cruciale: rispondere militarmente anche agli Stati Uniti, con il rischio di un’escalation su larga scala, oppure riaprire i negoziati sul nucleare, accettando potenziali concessioni. Ma qualsiasi ritorno al tavolo, avverte la dirigenza iraniana, non potrà avvenire sotto minaccia, né attraverso l’imposizione di condizioni unilaterali.

L’Iran si mostra risoluto a non apparire come attore ricattabile, mantenendo intatta la propria immagine di potenza regionale autonoma. Al tempo stesso, dimostra di comprendere la portata del momento storico: non è in gioco solo la sua sicurezza, ma la legittimità stessa di un ordine multipolare fondato sull’equilibrio tra potenze, e non sul dominio di una sola parte.


Trump, la bandiera dorata e un messaggio in codice

Nel pieno dell’escalation, un episodio apparentemente minore ha attirato l’attenzione di osservatori più attenti. Il Presidente Trump, alle ore 16:02 del giorno successivo all’attacco statunitense contro le infrastrutture iraniane, ha pubblicato un post su Truth Social con un messaggio criptico: “Congratulazioni mondo, è tempo di pace!”. Ma ciò che ha sollevato interrogativi non è solo il tempismo, quanto l’immagine che accompagnava la frase.

Nella foto, Trump è ritratto davanti a una bandiera americana con frange dorate. Un dettaglio che, secondo giuristi alternativi e analisti critici del sistema, rimanda non a un contesto civile, ma a una giurisdizione militare e commerciale speciale. Quella bandiera, si sostiene, appare solo in tribunali dell’Ammiragliato, in zone di guerra o nei teatri in cui si sospende il diritto ordinario.

Se questo simbolo ha un significato, allora l’intera comunicazione appare più come un segnale codificato che come una dichiarazione pacifista. Alcuni osservatori avanzano l’ipotesi che la guerra visibile sia solo una rappresentazione teatrale, mentre la vera battaglia si svolge all’interno delle strutture di potere statunitensi. La frase “È tempo di pace” potrebbe allora indicare non la fine della guerra militare, ma l’inizio di una nuova fase, in cui le regole cambiano e si svelano le vere linee di conflitto , che sembrano essere interne ai paesi.

Forse non era una guerra vera quella appena vista (gli USA hanno avvisato prima l’Iran dell’attacco e la stessa cosa ha fatto l’Iran prima della risposta sulle basi USA in Iraq e Qatar). Forse la guerra vera si sta combattendo dietro le quinte, da tempo. E “È tempo di pace” non è un auspicio, ma l’annuncio di una transizione: da un’epoca a un’altra. Con nuove regole. E nuovi arbitri.


Il multipolarismo è già iniziato

Questa crisi non è un conflitto circoscritto: è la cartina di tornasole di un cambiamento epocale. Mentre l’Occidente continua a imporre le sue regole con criteri di legittimità selettiva, Iran, Russia, Cina e altri attori emergenti stanno ridefinendo i confini della legalità internazionale. In questo nuovo contesto, la sovranità non è più negoziabile e la deterrenza non è appannaggio esclusivo dell’asse euro-atlantico.

L’Iran, con l’Operazione True Promise III, non cerca lo scontro diretto con l’Occidente, ma ribadisce il proprio ruolo in uno scacchiere globale dove i popoli non vogliono più essere subordinati. La vera minaccia per l’ordine attuale, dunque, non è la bomba iraniana, ma la fine dell’obbedienza automatica. L’autonomia dei popoli – questo è il detonatore reale che agita le capitali occidentali.

Ma forse ci saranno sorprese. La partita non è finita. È appena cambiata.

☕ Hai un caffè per me?

Scrivere, approfondire e scavare oltre la superficie richiede tempo, passione... e parecchia caffeina! 😅

Se ti piace quello che leggi su Vietato Parlare, puoi offrirmi un caffè simbolico (o più di uno) per tenermi sveglio e continuare questo lavoro controcorrente. Anche mensilmente, se ti va!

☕ Offrimi un caffè

✍️ Vietato Parlare – Spunti per una visione oltre le apparenze