Nel cuore delle montagne dell’Iran, a sud di Qom, si nasconde una delle strutture più protette e discusse del Medio Oriente: il sito nucleare di Fordow. Tornato al centro delle tensioni internazionali dopo un raid israeliano attribuito all’operazione “Leone Nascente”, Fordow non è soltanto un obiettivo militare: è un rebus strategico, un capolavoro di ingegneria sotterranea e un simbolo di sfida all’unilateralismo occidentale. Ma è anche – paradossalmente – un impianto monitorato e trasparente. Attaccarlo, oltre a essere tecnicamente velleitario, è politicamente inutile.
Un bunker sotto la montagna: il punto cieco dei missili occidentali
Scavato tra il 2006 e il 2007 in una ex base dei Pasdaran e reso pubblico solo nel 2009 dopo pressioni diplomatiche, Fordow è stato progettato per resistere all’impensabile. Situato a circa 100 metri sotto una montagna di 960 metri d’altezza, è protetto da strati di cemento rinforzato con fibre avanzate e polveri di quarzo, capaci di reggere pressioni fino a 30.000 psi. In pratica, una struttura resistente a terremoti, bombe bunker-buster e persino attacchi nucleari tattici.
Nelle sue viscere operano oltre 3.000 centrifughe IR-6, le più sofisticate del programma iraniano, capaci di arricchire uranio molto più rapidamente rispetto ai vecchi modelli. Nel 2023, l’AIEA ha rilevato tracce di uranio arricchito all’83,7% – vicino alla soglia per un ordigno nucleare – ma ha sempre precisato che non esiste alcuna prova di un programma militare attivo.
Una missione impossibile: Israele attacca ma non penetra
Il raid israeliano del 13 giugno 2025 ha preso di mira simultaneamente Fordow, Natanz e Isfahan. Ma la realtà ha subito ridimensionato la narrazione: le analisi satellitari hanno rilevato danni solo marginali a infrastrutture esterne – un muro, una strada d’accesso – mentre le sezioni sotterranee, dove si concentra il nucleo del programma, sono rimaste intatte.
Senza la potentissima GBU-57 americana – una bomba da 13 tonnellate capace di penetrare decine di metri di roccia – Israele non ha i mezzi tecnici per colpire Fordow con successo. Nessuno, nemmeno le grandi potenze, ha mai osato attaccare un sito nucleare attivo protetto come Fordow: non è successo per Raven Rock negli USA, né per Yamantau in Russia, né per Longpo in Cina.
Una struttura trasparente: ma allora perché attaccarla?
È qui che si manifesta l’assurdità geopolitica dell’operazione: Fordow è già sotto controllo internazionale. Gli ispettori dell’AIEA hanno accesso regolare al sito, possono verificare l’arricchimento dell’uranio e hanno potuto confermare l’assenza di attività clandestine legate ad armi nucleari. Lo stesso direttore dell’AIEA, Rafael Grossi, ha dichiarato alla CNN:
“Un’azione militare, da qualsiasi parte provenga, è una decisione politica. Non ha nulla a che vedere con ciò che diciamo. E noi non abbiamo trovato prove di un programma di armamento nucleare iraniano.”
Ma la dichiarazione è arrivata solo dopo il raid israeliano, suscitando l’ira di Teheran, che ha accusato Grossi di aver fornito una “copertura preventiva” a una decisione già presa.
Fordow come simbolo: un’architettura della deterrenza
Colpire Fordow non è solo difficile: è strategicamente miope. L’attacco non ha compromesso il programma nucleare, ha rafforzato il fronte interno iraniano e ha legittimato la linea dura dell’Iran sul piano regionale. La sua posizione nei pressi di Qom – città santa sciita – amplifica il suo valore simbolico: toccarlo significa aggredire l’identità religiosa e nazionale dell’Iran.
Per l’ayatollah Khamenei, Fordow è un monito concreto: l’Iran può sviluppare la capacità nucleare, ma non intende usarla per fini bellici, come ribadito nella sua fatwa contro le armi atomiche. Ma questa ambiguità calcolata rappresenta una delle forme più raffinate di deterrenza asimmetrica.
Il futuro: nuovi bunker, nuove strategie
Secondo fonti d’intelligence, l’Iran starebbe costruendo un nuovo impianto ancora più profondo nella zona della Pickaxe Mountain, con l’obiettivo di aumentare la sopravvivenza in caso di attacchi futuri. Questo approccio “a rete” – diffondere le infrastrutture critiche su più siti – dimostra che Teheran non punta solo alla resistenza, ma alla continuità operativa in ogni scenario.
Le voci su infiltrazioni del Mossad, cyberattacchi, sabotaggi o omicidi mirati non hanno mai fermato davvero Fordow. Il sito è ancora lì, operativo, e sorvegliato.
Conclusione: il paradosso Fordow
Attaccare Fordow non serve a fermare l’Iran. Serve – al massimo – a inviare un messaggio politico. Ma è un messaggio che ritorna indietro come un boomerang. Perché dimostra l’incapacità di piegare l’Iran con la forza, e l’inutilità di colpire un impianto già trasparente per gli osservatori internazionali.
Fordow è una montagna, sì. Ma soprattutto è un’allegoria geopolitica: dimostra che la vera vittoria non è nell’annientare il nemico, ma nel resistere alla pressione con lucidità strategica. Una lezione per chi crede che la guerra preventiva sia ancora una soluzione.
Articolo pubblicato su Vietato Parlare