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“Io, esule di Aleppo con la forza del perdono”

by Redazione online
25 Gennaio 2016
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[su_panel]Ovviamente il perdono non è il perdono ‘dichiarato’ che non serve a nulla. Non è la risposta alla domanda fatidica ed idiota del cronista che chiede, nell’imminenza di un delitto, se si è perdonato: questo è nient’altro che il prodotto vuoto della nostra epoca, che non è capace di cambiare nulla e perciò esige il perdono. Che non crede al male innato nell’uomo e perciò non crede alla Redenzione. Perciò esige il perdono, per mettere le cose a posto…  Il perdono, quello vero, è dire che la vita vale, che la vita vale così tanto anche dopo un evento così ingiusto e crudele. Anzì vale di più. Perchè perdonare vuol dire non chiudersi alla vita, è rendere l’estremo omaggio alla persona amata e persa, dirgli così che la sua morte non è stata inutile. Ed il prof. Zerez con la sua vita ha dimostrato questo perdono come estremo amore a sua figlia perchè prevalga il bene e quell’amore sia eterno.
Il perdono vero è quello che produce un cambiamento in sè stessi prima che nell’altro, è una misericordia inanzitutto per sè, è riconoscere che l’ingiustizia ed il dolore non nega che l’uomo vale perchè è voluto, perchè la vita ha un senso a dispetto dell’odio e del cinismo.
Il perdono vero per l’assassino non è amarlo ma che si converta. Perchè il bene e la libertà è solo in un riconoscimento.

Vietato Parlare[/su_panel]

La testimonianza di Claude Zerez, siriano, che ha avuto una figlia rapita e uccisa dai jihadisti: «Ho fatto mie le parole di Gesù: “Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno”. I musulmani? La maggior parte sono vittime come noi»

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fonte Vatican Insider – Giorgio bernardelli

«Quando accompagnavo i pellegrini era Pascale ad insegnare loro il Padre Nostro in aramaico». C’è tutta la vita di Claude Zerez, nell’immagine della ragazzina che proietta sullo schermo. L’amore profondo per le sue radici, il dolore per quella figlia portata via in modo brutale, ma anche lo sguardo di chi dentro la sua via crucis non è rimasto prigioniero dell’odio.

Era il 9 ottobre 2012 quando la rapirono, mentre su un autobus da Homs stava tornando ad Aleppo. Erano milizie legate all’Esercito Siriano Libero, il fronte degli oppositori a Bashar al Assad. Aveva vent’anni, la ritrovarono cadavere. Fu allora che questo cristiano melchita di Aleppo – grande conoscitore dell’arte sacra dell’Oriente, guida di tanti gruppi di pellegrini in Siria – scrisse una lettera aperta a Francois Hollande, con parole molto forti sul sostegno politico offerto dalla Francia ai gruppi ribelli, sempre più infiltrati dai gruppi salafiti. «Avete visto come Aleppo, la città più antica è diventata una città fantasma? – scriveva nell’ottobre 2012 -. Potete immaginare Parigi come una città fantasma, dove centinaia di migliaia di famiglie francesi si aggirano in cerca di ripari per evitare spari, bombe e atti di discriminazioni arbitrarie, di fanatismo e brutalità?».

A distanza di tempo quelle parole si sono rivelate una drammatica profezia. «Ma a Parigi è successo un giorno solo. Invece ad Aleppo da cinque anni è una storia quotidiana». A raccontarlo è lui stesso, in un incontro organizzato a Bresso dal locale Centro Culturale Manzoni, tappa milanese di una serie di testimonianze che Claude Zerez sta tenendo in questi giorni in diverse città italiane. Non analisi geopolitiche, ma il racconto di una storia che porta dentro di sé anche mille altre ferite.

Porta al collo il rosario di Pascale: l’ha accompagnato nel suo cammino da esule. Perché anche Claude Zerez è stato costretto a fuggire lontano dagli orrori della guerra; oggi vive proprio in Francia. «Ho perso tutto quello che avevo – racconta -. Ma la cosa peggiore è ovviamente perdere una persona cara. Come credente ho trascorso i primi sei mesi a lottare con Dio. Ma la rabbia per l’assenza fisica di mia figlia, a poco a poco, ha lasciato il posto a una presenza spirituale. Quando siamo scappati da Aleppo tutti ci dicevano che eravamo matti, era troppo pericoloso. Abbiamo dovuto attraversare un’infinità di posti di blocco, ogni volta avremmo potuto morire. Ma proprio lì ho sentito accanto la presenza di Pascale, come se avesse steso un velo per proteggerci».

«Mi chiedono spesso se abbia perdonato gli assassini di mia figlia – continua Claude Zerez -. Rispondo: perdono, ma non dimentico. Ho fatto mie le parole di Gesù: “Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno”. Un musulmano me l’ha sentito dire e mi ha detto: “Lei mi ha spinto ad amare di più i cristiani”. Ecco: questo è l’inizio della riconciliazione».

Li nomina spesso i musulmani Claude Zerez. Sottolinea che sono vittima anche loro delle bande jihadiste che imperversano nel suo Paese e le cui atrocità mostra senza sconti nelle immagini durante la sua testimonianza. «Non mi sarei mai aspettato che la Siria arrivasse a questo punto dopo secoli di convivenza – commenta -. Ma ancora adesso i rapporti tra cristiani e musulmani in tante situazioni sono buoni. Quando è stata uccisa mia figlia i nostri amici hanno pregato per lei in moschea. E 40 giorni dopo alla liturgia di suffragio in chiesa c’erano più musulmani che cristiani. Siamo tutti vittime della stessa oppressione».

Gli chiediamo dei cristiani di Aleppo, quanti sono rimasti oggi? «In una città di quattro milioni di persone, come era Aleppo fino al 2011, i cristiani erano 300 mila – risponde -. Gli ultimi dati parlano di appena 22mila cristiani rimasti. Perché fuggono? Non c’è più luce, pane, acqua, possibilità di scaldarsi. Un litro di gasolio costava un euro, oggi ne costa quattro». Sull’embargo non ha dubbi: come avveniva in Iraq colpisce solo i più poveri, favorisce il mercato nero e aggrava le sofferenze.

Che cosa si può fare per aiutare la Siria? Risponde che la prima cosa è pregare. Ma ce n’è anche una seconda: «Uscire dall’indifferenza – ammonisce -. Noi cristiani non possiamo accontentarci di vivere tranquillamente la nostra vita. Dobbiamo ascoltare la voce di Gesù che dice: avevo fame, avevo sete… Siamo chiamati a uscire dall’indifferenza per un nuovo Esodo. Uscire da sé per andare verso gli altri: la paura oggi è il peccato più grave».

Non vorrebbe parlare di politica, ma è inevitabile arrivarci. «Che cosa servirebbe? Mettere fine alla guerra. Basterebbe una comunità internazionale con onestà e coscienza. Invece i cristiani d’Oriente valgono meno di un barile di petrolio oggi…», commenta con amarezza. «Bashar al Assad non è un angelo e anche Putin ha i suoi interessi – spiega Claude Zermez -. Ma l’Oriente è diverso dall’Occidente, il concetto di cittadinanza non c’è. Qui viene prima l’etnia, poi la religione e solo dopo la nazionalità. Ciò che oggi vogliono i siriani è uno Stato che li protegga e faccia valere la legge. Senza faremmo la fine della Libia».

Descrive nel dettaglio gli orrori che lo Stato islamico sta seminando in Siria. Parla della sfida più difficile: «Quale domani per i bambini che gli uomini con le bandiere nere oggi educano a uccidere?». Ma parla anche della vita che continua, delle associazioni caritative che nel momento della prova aiutano tutti senza fare distinzioni. Della tomba di padre Frans van der Lugt, il gesuita olandese ucciso a Homs nell’aprile 2014, «veneratissima da tutti, cristiani e musulmani». Indica una strada. Alla politica il compito di raccoglierla.

La Stampa – 88x31[1]

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