India e Pakistan sull’orlo: l’ombra lunga del Kashmir tra escalation e trappole strategiche

La crisi tra India e Pakistan è entrata in una fase critica. Dopo l’attacco indiano a basi terroristiche ritenute responsabili dell’attentato in Kashmir, Islamabad ha risposto abbattendo tre cacciabombardieri indiani. La tensione è altissima: Donald Trump e la Cina hanno offerto la loro mediazione per prevenire un’escalation incontrollata.

Ma per comprendere le ragioni profonde di questo conflitto, è necessario risalire indietro nel tempo, fino alla fine degli anni ’80, quando fu concepita una delle operazioni strategiche più incisive e durature nella regione: l’Operazione Tupac.

Operazione Tupac: il progetto segreto per destabilizzare il Kashmir

Lanciata dal generale Zia-ul-Haq e guidata dall’Inter-Services Intelligence (ISI) pakistana, l’Operazione Tupac prese il nome da Tupac Amaru II, il leader rivoluzionario peruviano del XVIII secolo che si ribellò al dominio coloniale spagnolo. Il nome stesso rifletteva l’ambizione: una sollevazione popolare contro il “dominio coloniale” indiano sul Kashmir.

Secondo diverse analisi, l’operazione fu attuata sotto la stretta supervisione dell’MI6 britannico, in un contesto geopolitico segnato dalla guerra fredda e dalla recente vittoria dei mujaheddin afghani contro l’Unione Sovietica, una vittoria in cui il Pakistan aveva svolto un ruolo cruciale come retrovia logistica e operativa.

L’ISI cercò di replicare il modello afghano in Kashmir, incanalando il malcontento politico e religioso della regione in una rivolta armata che avrebbe dovuto logorare l’India sia militarmente che economicamente.

L’operazione si articolava in tre fasi:

  1. Infiltrazione armata: l’ingresso clandestino di militanti addestrati nel Jammu e Kashmir, con l’obiettivo di colpire infrastrutture chiave e minare le istituzioni locali.
  2. Pressione sulla LoC: azioni di sabotaggio e attacchi lungo la Linea di Controllo per distogliere risorse militari indiane e destabilizzare il fronte.
  3. Mobilitazione religiosa: trasformare la ribellione in una “jihad” su larga scala, facendo leva sui sentimenti religiosi per amplificare la portata del conflitto e preparare il terreno per un’eventuale annessione al Pakistan.

Le PSYOP: la battaglia invisibile

Un elemento cruciale, spesso trascurato, è il ruolo delle operazioni psicologiche (PSYOP) condotte da entrambe le parti. Nel conflitto indo-pakistano, la propaganda, la disinformazione e le narrative simboliche sono sempre state armi strategiche, finalizzate a influenzare la popolazione locale e l’opinione internazionale. L’Operazione Tupac non fu solo un’infiltrazione militare, ma una vera e propria guerra per il controllo delle percezioni, alimentata da messaggi ideologici, campagne di delegittimazione e uso strumentale dei media.

Un’eredità di lunga durata

L’Operazione Tupac, pur prendendo spunto dall’Operazione Gibilterra del 1965 (fallita per la mancanza di sostegno popolare e l’efficace reazione indiana), fu concepita per evitare gli errori del passato e per sfruttare la vulnerabilità sociopolitica del Kashmir, aggravata dalle contestate elezioni del 1987 e dal malcontento diffuso.

Tuttavia, anche questa strategia ha generato effetti collaterali devastanti: decenni di insurrezione armata, migliaia di vittime civili, la migrazione forzata dei Pandit kashmiri e un clima di conflitto a bassa intensità che ha bloccato lo sviluppo della regione e perpetuato l’ostilità tra India e Pakistan.

Le vulnerabilità strategiche del Pakistan

Oggi, mentre la crisi si riaccende, emerge un dato sorprendente: secondo l’Indian Express, l’esercito pakistano si trova in una grave carenza di munizioni di grosso calibro. A causa delle forniture segrete di proiettili all’Ucraina dal 2022 – mai riconosciute ufficialmente da Islamabad – le scorte di artiglieria pakistane sarebbero sufficienti solo per quattro giorni di combattimento ad alta intensità.

Le esportazioni di armamenti pakistane sono passate da 13 milioni di dollari nel 2021-22 a 415 milioni di dollari nel 2023, ma questo boom commerciale ha prosciugato le riserve interne. Le fabbriche di munizioni del Pakistan, basate su infrastrutture obsolescenti, non riescono a incrementare la produzione, esponendo l’esercito a una fragilità logistica critica proprio nel momento in cui il rischio di conflitto si intensifica.

Equilibrio precario e diplomazia in bilico

La crisi attuale si gioca su più livelli: militare, ideologico, psicologico e diplomatico. La doppia offerta di mediazione da parte di Trump e della Cina riflette la consapevolezza internazionale del rischio sistemico che un conflitto tra due potenze nucleari rappresenta.

Ma ogni tentativo di pacificazione dovrà misurarsi non solo con le dinamiche contingenti, ma con radici storiche profonde, che affondano in operazioni segrete, fallimenti del passato e una guerra psicologica mai interrotta.

In questo equilibrio precario, la vulnerabilità strategica del Pakistan – logistica, economica e industriale – rischia di diventare un moltiplicatore d’instabilità: potrebbe spingere Islamabad a scelte più aggressive e avventate per mascherare le proprie debolezze, oppure costringerla a un negoziato meno favorevole.

Se la diplomazia fallirà, il conflitto rischia di trascendere i confini del Kashmir, con conseguenze incalcolabili per la stabilità dell’Asia meridionale.

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Appendice: che cos’è l’Operazione Gibilterra

L’Operazione Gibilterra fu un piano militare segreto ideato e attuato dal Pakistan nell’agosto del 1965, con l’obiettivo di fomentare una rivolta armata nella regione del Jammu e Kashmir allora amministrata dall’India.

Prendendo il nome dall’omonima roccaforte strategica situata nello stretto di Gibilterra – simbolo di controllo e penetrazione – l’operazione prevedeva l’infiltrazione di circa 30.000 guerriglieri pakistani travestiti da ribelli locali all’interno del Kashmir indiano, per incitare la popolazione musulmana alla ribellione contro il governo indiano e destabilizzare la regione dall’interno.

Gli obiettivi principali erano:

  1. Incoraggiare una insurrezione popolare spontanea, sfruttando il malcontento religioso e politico locale.

  2. Attaccare infrastrutture chiave e linee di comunicazione indiane per paralizzare la risposta militare.

  3. Creare un pretesto per un intervento militare pakistano diretto, presentandolo come sostegno a un movimento di liberazione autoctono.

Il fallimento dell’operazione:

L’Operazione Gibilterra si rivelò un fallimento per diverse ragioni:

  • La popolazione locale non rispose all’appello alla rivolta, rimanendo per lo più passiva o ostile agli infiltrati.

  • Le forze di sicurezza indiane scoprirono rapidamente gli infiltrati, neutralizzando gran parte delle incursioni.

  • La mancanza di un reale sostegno popolare impedì di trasformare l’azione clandestina in una sollevazione di massa.

La reazione militare indiana sfociò in una controffensiva che portò alla seconda guerra indo-pakistana del 1965, conclusasi con un cessate il fuoco mediato dall’Unione Sovietica e formalizzato con gli Accordi di Tashkent nel gennaio 1966.

L’eredità dell’Operazione Gibilterra:

Il fallimento dell’Operazione Gibilterra divenne una lezione chiave per i vertici pakistani. Negli anni successivi, l’esperienza fu analizzata per identificare errori tattici e strategici, portando – due decenni dopo – alla formulazione dell’Operazione Tupac, che puntava a una destabilizzazione più graduale e sotterranea attraverso l’infiltrazione di militanti e l’uso prolungato di operazioni psicologiche.

In sintesi, l’Operazione Gibilterra fu il primo grande tentativo del Pakistan di modificare lo status del Kashmir attraverso mezzi non convenzionali, segnando l’inizio di una lunga fase di “guerra a bassa intensità” tra India e Pakistan che continua a influenzare la geopolitica regionale.