Il ruolo di Londra nella guerra segreta contro la Russia. il Mar Nero come campo di battaglia imperiale

Il Progetto Alchemy e la guerra segreta di Londra nel Mar Nero

“La guerra moderna è una guerra dell’ombra. E l’ombra ha sempre parlato inglese.”

In un mondo che si ostina a raccontare la guerra in Ucraina come una difesa dell’Occidente democratico contro la barbarie russa, la verità — scomoda, documentata e ignorata — si chiama Progetto Alchemy. A portarla alla luce, ancora una volta, è stato il lavoro instancabile di indagine di The Grayzone, voce dissidente e insopportabile per l’establishment atlantista.

Secondo i documenti ottenuti da Grayzone, classificati e provenienti da fonti interne al Ministero della Difesa britannico, la Gran Bretagna non solo è coinvolta nel conflitto: lo sta guidando. E lo fa con metodo, cinismo e un obiettivo strategico preciso: il Mar Nero.

Operazioni “sotto soglia”: sabotaggi, bordelli e guerra dell’ombra

I documenti rivelati da The Grayzone spalancano uno squarcio inquietante sulla natura reale della guerra moderna, quella non dichiarata ma perseguita con ferocia, sotto la maschera della “difesa della democrazia”. Tra le operazioni pianificate dall’intelligence britannica nell’ambito del Progetto Alchemy, spiccano metodi che sfidano non solo le convenzioni di guerra, ma la stessa decenza umana.

Si va da sofisticati attacchi sottomarini con mine magnetiche piazzate manualmente da sommozzatori trasportati con veicoli stealth, alla progettazione di vere e proprie trappole sessuali, in cui donne ucraine di lingua russa avrebbero operato sotto copertura in bordelli allestiti in Crimea per raccogliere informazioni da marinai russi ubriachi. In un documento classificato, Dominic Morris suggeriva di “aprire un bar e un bordello per raccogliere intelligence. Gli agenti dovranno essere attraenti e capaci di manipolare le debolezze del maschio russo medio.”

A questo si aggiunge il piano per far esplodere il ponte di Kerch utilizzando una nave cargo russa “catturata”, caricata con fertilizzante e materiale esplosivo, da far detonare sotto le campate del ponte: “Da quattro a sei piloni verrebbero distrutti, rendendo il ponte inutilizzabile per lungo tempo”, si legge nel piano operativo. L’obiettivo? Non solo un danno strutturale, ma un vero shock politico: “La distruzione del ponte potrebbe causare un colpo di Stato al Cremlino”, ipotizzava Morris, con cinismo imperiale.

Tutto questo viene formalmente inquadrato come “attività sotto soglia”, cioè azioni che restano tecnicamente al di sotto della soglia legale di un conflitto armato, evitando l’obbligo di dichiarazioni ufficiali o responsabilità diplomatiche. In un passaggio emblematico, Morris definiva questa strategia come un’occasione irripetibile:

“C’è l’opportunità di distruggere tutta la Flotta del Mar Nero senza nemmeno entrare in guerra.”

Questa è la guerra moderna secondo Londra: una guerra sporca, invisibile, cinica. Una guerra che uccide senza apparire. Nessun dibattito nei Parlamenti, nessuna condanna da parte delle istituzioni europee, che anzi si fanno complici nella loro inerzia. L’“antifascismo militante” dell’Unione si dissolve come neve al sole di fronte all’impiego sistematico di metodi che — se fossero stati scoperti da parte russa — avrebbero causato scandali internazionali. Invece: solo silenzio. Solo complicità.

Perché il Mar Nero? Perché l’Indo-Pacifico.

Per comprendere appieno la natura dell’impegno britannico nel Mar Nero, occorre spostare lo sguardo oltre il campo di battaglia ucraino. Ciò che i documenti trapelati mostrano con chiarezza è che Londra non sta combattendo per Kiev, ma per se stessa. Il Mar Nero non è una semplice appendice geografica del conflitto: è il perno di una più ampia visione strategica, che collega direttamente l’Europa orientale al futuro dell’influenza angloamericana sull’Indo-Pacifico.

A rivelarlo è un rapporto del marzo 2022 del Geostrategic Council, organismo vicino al Ministero della Difesa britannico, che afferma:

“La guerra in Ucraina ha aumentato in modo significativo la posta in gioco britannica nella regione del Mar Nero.”

Ma il passaggio chiave arriva subito dopo, dove si chiarisce la ratio imperiale dell’interesse:

“Una potenza che controlli il Mar Nero sarà in grado di esercitare una pressione significativa sulle principali rotte marittime che collegano l’Europa all’Indo-Pacifico.”

In altre parole, l’egemonia nel Mar Nero è un’estensione diretta della dottrina del “Pivot to Asia”: l’Ucraina è semplicemente il teatro operativo di una battaglia ben più ampia, che vede la Gran Bretagna, come partner privilegiato degli Stati Uniti, tentare di ritagliarsi un ruolo dominante in un mondo multipolare che non controlla più.

La revisione strategica integrata della sicurezza e della difesa britannica del luglio 2021 — ben prima dell’invasione russa — aveva già tracciato questa traiettoria: rafforzare la proiezione militare globale, con particolare attenzione all’Asia orientale, al Golfo Persico e, appunto, al Mar Nero.

Il ricorso alla guerra per procura in Ucraina è dunque una scorciatoia cinica e funzionale: permette a Londra di indebolire una potenza rivale come Mosca senza esporsi direttamente, lasciando agli ucraini il ruolo di “boots on the ground” in una partita che riguarda ben poco la sovranità di Kyiv.

Questa dinamica, con evidenza sempre maggiore, non ha nulla a che vedere con la difesa della democrazia: al contrario, ne è la perversione. Si tratta di una strategia neocoloniale travestita da crociata etica, in cui il fine ultimo non è la pace né la libertà, ma il controllo dei corridoi commerciali, energetici e marittimi globali. E per farlo, si può sacrificare un Paese, distruggerne l’economia, la popolazione, il futuro.

L’Ucraina — scriveva cinicamente Morris — “è il teatro ideale per esercitare una pressione asimmetrica contro la Russia con un coinvolgimento minimo della NATO”.

Ed è questa la cifra del pensiero strategico occidentale oggi: trasformare i popoli in strumenti e la guerra in un’occasione di posizionamento globale. La verità è che la democrazia serve come cornice ideologica per un’aggressione sistemica, orchestrata da élite che non rispondono più a nessun principio morale né a nessuna sovranità nazionale.


L’inversione dell’etica: l’Occidente come nuovo destabilizzatore

C’è un paradosso che grida vendetta alla ragione e all’onestà intellettuale: le stesse élite europee che si dichiarano custodi dell’antifascismo e dei “valori democratici”, sono oggi i principali sostenitori di gruppi paramilitari ucraini apertamente neonazisti, come confermato da innumerevoli dossier e documenti ufficiali, a cominciare dal sostegno britannico all’intelligence militare di Kiev, ampiamente infiltrata da elementi radicali.

Il Progetto Alchemy ne è l’emblema: bordelli usati come basi di spionaggio, agenti donna utilizzati come merce di scambio sessuale per raccogliere informazioni, sabotate infrastrutture civili, tentativi pianificati di colpire petroliere nel Mediterraneo e attacchi contro navi in acque contese. Siamo di fronte a forme sofisticate di terrorismo di Stato, coperte dalla stampa, celebrate da un’opinione pubblica ammaestrata e rese possibili da una classe dirigente sempre più scollegata da ogni riferimento etico reale.

In uno dei documenti più crudi emersi dall’inchiesta di The Grayzone, si afferma che il flusso di sacchi mortuari verso la Russia, risultante da queste operazioni clandestine, “avrà un impatto significativo sull’opinione pubblica” russa. Un calcolo gelido, che vede nella morte altrui un’opportunità strategica, nella sofferenza umana una variabile utile al conseguimento di obiettivi geopolitici.

“L’inflizione di pesanti perdite deve continuare”, scriveva Morris con spietata lucidità. “Il flusso di cadaveri alimenta la pressione interna sul governo russo.”

In parallelo, in Europa, chi prova a denunciare questa ipocrisia viene bollato come agente della disinformazione, come “putiniano”, come nemico dell’ordine liberale. I partiti euroscettici — persino quando democraticamente eletti — vengono sistematicamente isolati, ridicolizzati, delegittimati. Il pensiero critico è diventato un crimine morale.

E così, il nuovo destabilizzatore globale non è più una potenza emergente fuori dal G7, ma proprio l’Occidente che pretende di rappresentare la stabilità. Il vero nemico, oggi, non è chi bombarda — ma chi osa raccontarlo.

Siamo entrati in una fase in cui la verità è trattata come una minaccia, e la menzogna come strumento di governo. In questo contesto, l’etica pubblica viene rovesciata: l’antifascismo si riduce a paravento, la pace a slogan di circostanza, mentre il potere reale opera nell’ombra, senza scrupoli e senza opposizione.


Un monito per l’Europa

L’inchiesta di The Grayzone non è solo una denuncia, è un monito che l’Europa farebbe bene a prendere sul serio. I documenti emersi mostrano con chiarezza che la Gran Bretagna ha assunto un ruolo attivo e pianificatore nella conduzione della guerra contro la Russia, trasformando l’Ucraina in un laboratorio di guerra per procura, e trascinando di fatto l’intero continente in una spirale di destabilizzazione che non è mai stata oggetto di un dibattito democratico né di un mandato politico condiviso.

Londra agisce con un’agenda propria, imperiale, orientata a ridefinire gli equilibri globali lungo l’asse euro-atlantico–indo-pacifico. E lo fa sfruttando non solo la debolezza militare dell’Ucraina, ma l’ambiguità strategica dell’Unione Europea, che si ritrova sempre più nella posizione di vassallo geopolitico, incapace di articolare una propria visione autonoma.

“La NATO non è impegnata in operazioni di combattimento”, scriveva Morris. “Questo è il momento ideale per il Regno Unito di distruggere la flotta russa senza entrare formalmente in guerra.”

È questa la logica che ci viene imposta: la guerra come teatro a bassa intensità, legalmente ambigua ma strategicamente distruttiva, dove il controllo del messaggio è tanto importante quanto l’effetto delle armi. E l’Europa, in tutto questo, sta giocando un ruolo servile, sacrificando la propria sovranità, la propria sicurezza, e persino la propria identità politica.

Dovremmo chiederci — con urgenza e onestà — a chi giova tutto questo. A chi serve un’Europa ostaggio di un confronto permanente con Mosca, priva di canali diplomatici autonomi, spinta ad aumentare le spese militari mentre le proprie economie reali rallentano e le tensioni sociali crescono? Chi trae vantaggio da un continente dipendente da armi, gas e tecnologia altrui, mentre la sua popolazione è invitata a prepararsi a razionamenti, blackout e retoriche belliche sempre più martellanti?

Davvero vogliamo accettare che il nostro futuro venga sacrificato sull’altare di una nuova Guerra Fredda in versione NATO-centrica, decisa da potenze extra-europee, in nome di valori che vengono traditi ogni giorno nei fatti?

L’Europa oggi non è solo complice: è ostaggio di una narrazione che non controlla più. E chi osa rompere questo incantesimo — chi prova a chiedere trasparenza, a reclamare sovranità, a difendere la pace come bene superiore — viene isolato, diffamato, silenziato.

Non si tratta più di posizionamenti politici. Si tratta della sopravvivenza di una civiltà che ha smesso di interrogarsi sul senso delle proprie azioni, e ha lasciato che fossero altri — a Londra, a Washington, in qualche think tank atlantista — a decidere cosa è bene e cosa è male.

Il tempo del conformismo è finito. O l’Europa ritrova il coraggio di pensare con la propria testa — o ne pagherà il prezzo in termini di instabilità, insicurezza e irrilevanza.


Fonti e approfondimenti


La verità oltre la nebbia di guerra

In un’epoca in cui la disinformazione è strategia, riscoprire il senso critico è un atto politico e spirituale. Questa guerra non è solo militare: è una guerra contro la verità, contro la libertà di pensiero, contro la giustizia.

Non si può essere neutrali di fronte a un sistema che usa le guerre altrui per alimentare la propria illusione di potenza.

“Vietato Parlare”, perché chi tace acconsente. E chi racconta, resiste.

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ARTICOLO AGGIORNATO ORE 19:54 del 01/07/2025

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