Il ruolo del petrolio nella crisi siriana

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Il dossier a cura di Legambiente che fa il punto sul legame tra il petrolio e lo scoppio di guerre nel mondo. E’ del 15 aprile 2016, ma sempre attuale per capire le vere dinamiche del conflitto attuale e la spregiudicatezza dei paesi cosiddetti democratici.

«Io chiamo il petrolio lo sterco del Diavolo. Porta solo problemi: sprechi, corruzione e debiti che pagheremo per anni» (1975 Juan Pablo Pérez Alfonso, politico venezuelano uno degli ideatori e dei fondatori dell’Opec) 

«L’età della pietra non è finita per mancanze di pietre e l’età del petrolio non finirà per il prosciugamento dei pozzi» Ahmed Zaki Yamani (2000 – ministro del petrolio saudita dal 1962 al 1986) 

[su_heading style=”modern-2-blue” size=”21″]Progetti l’un contro l’altro armato: la Siria[/su_heading]

E’ finita l’era del petrolio a buon mercato e di facile accesso. E’ dal 2005 che «la crescita di offerta viene garantita dallo sfruttamento di categorie di petrolio provenienti da giacimenti non convenzionali, più costose sia in termini economici che in termini energetici» (Luca Pardi – presidente ASPO Italia, Associazione per lo studio del picco del petrolio). Il petrolio non sta finendo, ma costa di più, il che vuol dire che i prezzi bassi sono un potente fattore di destabilizzazione e che non potranno durare a lungo e che comunque la torta si è ristretta, e quindi si scatena la competizione per mantenere le quote di mercato esistenti, non riducendo la produzione.

Inoltre si indurisce il conflitto per il controllo di nuovi giacimenti, mentre, nell’immediato, gli investimenti si bloccano, in attesa che il prezzo risalga. Ma la concorrenza delle rinnovabili rende aleatorio anche la ripresa della domanda e quindi il recupero dei prezzi. Una instabilità che non solo preannuncia altre tempeste nel regime dei prezzi, ma soprattutto crea tensioni e conflitti, che travalicano drammaticamente la competizione commerciale. Sono in campo strategie molto ampie, finalizzate ad acquisire il controllo delle ultime risorse petrolifere e di gas disponibili.

A partire dal fatto che comunque il Medio Oriente possiede il 47,7% delle riserve accertate di greggio nel mondo (In ordine Arabia Saudita, Iran, Iraq, Kuwait, EAU). Stanno qui le ragioni della guerra in Siria. Nel 2011, l’anno delle primavere arabe e della rivolta anti Assad, viene pubblicato uno studio (francobritannico) che esplicita il significativo “potenziale idrocarburico” di tre giacimenti al largo delle coste siriane. Si parla di 1,7 mld di barili di petrolio e 3,5 trilioni di m³ di gas naturale, secondo un rapporto del Strategie Studie Istitute (SSI – 2014) dell’esercito statunitense, che stima che le risorse offshore della Siria facciano parte di un sistema più ampio di giacimenti nel Mediterraneo orientale che coinvolgono più Stati in concorrenza tra loro.

Questi giacimenti, sempre secondo lo SSI, rappresentano un’opportunità strategica per ridurre la dipendenza dell’Europa dal gas russo e per rinforzare l’autonomia energetica di Israele. Lo scoppio della guerra civile fa saltare i progetti di esplorazione delle grandi imprese petrolifere occidentali e mette in difficoltà la strategia statunitense che aveva provato a corteggiare Assad per garantire le attività petrolifere. Si capisce ora perché, durante la primavera araba, di fronte alle prime violente repressioni delle manifestazioni pacifiche anti Assad, l’allora Segretario di stato USA, Hillary Clinton, volle sottolineare che Assad era un riformatore. Tre anni dopo l’inizio della guerra civile, lo SSI torna sul tema, propugnando un’azione militare USA per garantire l’accesso ai bacini individuati e che si snodano nelle acque territoriali tra Egitto, Israele, Libano, Cipro, Siria e Turchia.

2 «Una volta risolto il conflitto siriano, le prospettive per la produzione offshore siriana sono molto alte», le risorse di gas e di petrolio offshore del paese possono essere sviluppate «in maniera relativamente facile una volta stabilizzata la situazione politica»: a scriverlo è Mohammed El-Katiri, consigliere del ministero della difesa degli Emirati Arabi Uniti ed ex capo ricercatore dell’Advanced Research and Assessment Group (ARAG) del ministero della difesa britannico.

Questo progetto va in rotta di collisione con il progetto di Assad, “sponsorizzato” dai due principali sostenitori di Assad stesso: Russia e Iran, in base al quale la Siria dovrebbe divenire «un centro di trasbordo tra la Russia e l’Iran da un lato e l’Europa dall’altro» (Nafeez Ahmed –Direttore esecutivo dello Institute for Policy Research and Development, IPRD). Nel 2010 viene avanzata la proposta di un oleodotto che doveva attraversare Iran, Iraq e Siria, l’anno dopo tra i tre paesi viene sottoscritta l’intesa per un gasdotto “sciita”, l’Islamic Gas Pipeline, di 5.000 km, che dovrebbe portare in Europa il gas dell’Iran, bypassando la Turchia, in competizione quindi con il gasdotto Nabucco, voluto dall’Unione Europea, che doveva invece attraversare la Turchia.

Con il procedere della guerra civile, nel 2013, Assad stringe un accordo con la Russia in base al quale la società petrolifera russa Soyuz Nefte Gaz, inizia le esplorazioni sulla costa occidentale della Siria, mentre il gasdotto Turkish Stream, che doveva portare il gas russo in Europa attraverso la Turchia è stato sospeso. Ma non finisce qui. Nel frattempo entra in campo un terzo oleodotto, sostenuto dagli Stati Uniti, che porta il gas dal Qatar all’Europa, passando per l’Arabia saudita, la Giordania, la Siria e la Turchia. Dentro uno scenario così intricato si definiscono gli schieramenti: gli sciiti con il gasdotto dall’Iran, i sunniti con il gasdotto dal Qatar, gli occidentali e la Russia alla ricerca di spazi per i giacimenti già individuati …..

In un quadro del genere, tutt’altro che stabile e duraturo, si capisce bene perché a un certo punto l’Occidente ha appoggiato i ribelli, senza mai però premere l’acceleratore fino in fondo, ha attaccato l’Isis solo per contenerne l’espansione, e lo stesso sul fronte opposto ha fatto la Russia, come se ci fosse un disegno che punta alla disgregazione territoriale della Siria e dell’Iraq in aree di influenza ben distinte. In questo quadro è fortemente coinvolta Israele, che nelle Alture del Golan ha rilasciato concessioni esplorative alla ricerca di nuovi giacimenti.

Mentre le riserve stimate in circa mille miliardi di metri cubi nel così detto Bacino del Levante, nell’area offshore prospicente la striscia di Gaza, potrebbero regalare ad Israele quell’autonomia energetica di cui ha bisogno e una forza negoziale nell’area del tutto inedita. Ecco perché, quando un anno e mezzo fa l’Iran minacciò Israele annunciando di avere a disposizione missili dalla gittata di 2.000 km, le minacce fecero esplicito riferimento proprio ai giacimenti offshore di Israele. E l’ISIS?

[su_heading style=”modern-2-blue” size=”21″]Petrolio in armi[/su_heading]

Il petrolio è stato ed è l’obiettivo ed il movente principale della strategia dell’Isis sul territorio. Innanzitutto perché il controllo di alcuni grandi campi estrattivi in Iraq permette al Califfato di vendere il petrolio sul mercato nero, pagando con i soldi guadagnati guerriglieri ed armi. Per far questo ha bisogno di godere di una certa impunità, che qualcuno deve avergli garantito, perché le documentazioni sulle vie del contrabbando di petrolio e sulle tratte seguite sono ormai di dominio pubblico. Secondo i calcoli dei russi, il petrolio, che viene venduto di contrabbando a circa la metà del prezzo vigente, ha creato negli ultimi sei anni un bottino da 2 miliardi di dollari l’anno, che nell’ultimo anno di prezzi bassi si è ridotto a circa un milione e mezzo al giorno, per 400-500 milioni di dollari l’anno, grazie ad una flotta di 800.000 autocisterne che attraversano il confine turco e trasportano il greggio alle raffinerie turche o direttamente ai porti del Mediterraneo da dove arriva da noi.

Alcune di queste petroliere sono state viste attraccare anche nei nostri porti di Augusta e Trieste. 3 Ma l’azione dell’Isis rientra in una strategia più ampia che mira al controllo sunnita delle vie del petrolio e dei giacimenti in una larga alleanza mediorientale, che copre le spalle all’Isis, consente all’Isis stesso, per interposta persona, di trattare con le potenze occidentali ed avere, indirettamente, un riconoscimento del ruolo e della forza conquistata sul campo. Il che, probabilmente, significa aprire la strada, secondo l’Isis ed i suoi alleati mediorientali, alla costituzione di un’area egemonica dei sunniti tra Siria e Iraq. Ma quello che va detto oggi è che, se si vanno a leggere le dinamiche dell’area, emerge con drammatica chiarezza che nessuno ha interesse a sconfiggere l’Isis.

Le potenze occidentali dall’inizio della guerra si sono poste tutt’al più l’obiettivo di contenerlo, come ebbe a dire Obama stesso pochi giorni prima degli attentati di Parigi. A fronte di roboanti dichiarazioni di guerra dopo ogni attentato (che non ha l’obiettivo di “conquistare l’Europa all’Islam” ma di tenere alta la tensione per attrarre nuovi adepti e creare risonanza all’esistenza stessa di un Califfato sunnita – in altra epoca e su altri livelli l’avevamo chiamata in Italia Strategia della tensione), non si è attuato un intervento efficace, non sono state bloccate le linee di approvvigionamento dell’Isis attraverso la Turchia e men che meno sono stati impediti sistematicamente i convogli petroliferi, mentre il rapporto con le forze curde rimane sempre più ambiguo e non vengono sostenute come sarebbe possibile. Per l’Occidente l’obiettivo fondamentale è limitare il potere della Russia e dei suoi alleati (gli sciiti iraniani e Assad) e ridurre la dipendenza energetica dell’Europa, che prende dalla Russia un quarto del suo gas (Gazprom vende all’Europa l’80% del suo gas!!), aprendo nuove vie del petrolio e del gas e creando bilanciamenti politici alleandosi con i sunniti (che sono a loro volta alleati dell’Isis).

Neanche la Russia ha interesse ad eliminare definitivamente l’Isis perché la sua presenza impedisce alle forze occidentali di sbarazzarsi di Assad, che è il principale garante per la Russia del suo progetto di mettere un piede nel Mediterraneo e controllare lo sbocco verso l’Europa anche su questo versante. Ovviamente non ce l’hanno i paesi arabi, soprattutto Arabia Saudita, Qatar, EAU, Kuwait, che attraverso i propri uomini d’affari e potenti signori locali, finanziano, più o meno indirettamente l’Isis stesso. «L’ISIS, in altre parole, è un’organizzazione terroristica che gode del sostegno (più o meno diretto) di vari Stati; ed è addirittura finanziata da vari regimi alleati dell’Occidente che sono parte integrale della coalizione anti-ISIS.» (Nafeez Ahmed).

In questa rocambolesca situazione emerge con evidenza che l’Occidente dipende dai regimi che sostengono il terrorismo, perché da essi dipende l’accesso dell’Occidente stesso alle risorse petrolifere e di gas. L’Europa tutta si trova così ad essere invischiata in una tremenda ragnatela da cui non sa liberarsi: da un lato infatti è stretta nell’alleanza con le potenze regionali sunnite, che finanziano l’Isis, che a sua volta progetta e organizza gli attentati nelle città europee, dall’altro acquista dall’Isis il petrolio, con i cui proventi l’Isis stesso finanzia quegli attentati e garantisce la sopravvivenza del califfato. Oltre a trovarsi incapace di governare i flussi migratori, che le stesse guerre del petrolio, di cui è indirettamente e direttamente responsabile, provocano.

Di questa situazione caotica il ruolo della Turchia ed il suo rapporto con l’Europa rappresentano l’esempio più eclatante. Turchia che ha sostenuto l’Isis, non solo coprendone il contrabbando, ma anche facilitando l’attraversamento dei confini ai combattenti dell’Isis, combattendo a sua volta le forze curde, le uniche in grado di contrastare l’Isis sul territorio. Ma la Turchia è anche l’anello fondamentale nella strategia di riduzione della dipendenza dell’Europa dal gas russo, qui dovrebbe passare infatti il gasdotto “sunnita”.

[su_heading style=”modern-2-blue” size=”21″]Davvero una Rivoluzione energetica[/su_heading]

Di fronte a questo coacervo di interessi e violenze occorre un drastico cambio di passo. E’ possibile? 4 Mai come in questo periodo appare evidente che da alcuni anni stiamo vivendo nel pieno di una vera rivoluzione energetica. Tutto sta cambiando. E come sempre nelle rivoluzioni, c’è chi spinge e chi resiste, chi guarda in avanti e chi cammina con gli occhi rivolti al passato. Siamo entrati nell’era della fine del petrolio, non perché il petrolio stia finendo, ma perché non è più il dominatore assoluto dei rifornimenti energetici.

Non lo è perché è finita l’era del petrolio facile, del petrolio dai bassi costi di produzione, e perché dopo il declino del carbone e del nucleare (per l’aumento esponenziale dei costi “indiretti”: emissioni inquinanti e climalteranti, il primo, costruzione e gestione scorie e decomissioning il secondo), oggi il petrolio vede crescere un nuovo imbattibile concorrente: le energie rinnovabili e l’efficienza energetica. Ma, come ogni gigante ferito a morte, che si dimena e prova a rimettersi in piedi, così il sistema petrolio mondiale si agita e si contorce, attraverso le azioni scoordinate, contraddittorie, avventuriste dei suoi principali protagonisti, e provoca danni, conflitti, tragedie. Come è spesso accaduto nella storia, l’avvicendarsi delle fonti e delle tecnologie energetiche provoca grandi sommovimenti. L’esaurirsi della capacità di accaparrare schiavi sulla riva sud del Mediterraneo ha causato il crollo dell’impero romano, e poi la sostituzione del mulino con la macchina a vapore ha posto le premesse per l’urbanizzazione spinta, così come la conosciamo oggi.

E gli ultimi due secoli sono stati caratterizzati dal passaggio del controllo diretto di territori ricchi di materie prime al controllo politico indiretto, alle sfere di influenza. Oggi ci troviamo in uno di questi passaggi della storia: in un’era di cambiamento determinata dalla fine del dominio assoluto del petrolio. Un passaggio che provoca conflitti, distruzioni, sofferenze e vittime, sconvolgimenti politici, in cui gli interessi di chi difende il proprio potere, basato sul sistema petrolio, producono strategie ed alleanze “pericolose” e scatenano guerre e violenze, che ci hanno già fatto entrare in quella che in modo così incisivo Papa Francesco ha definito “La terza guerra mondiale a pezzi”. Un passaggio che però apre anche scenari positivi e possibilità di rilancio di politiche e pratiche sostenibili, accoglienti, ispirate ai valori della pace e della convivenza civile, in un percorso di liberazione dai combustibili fossili.

Negli ultimi 36 anni le guerre del petrolio si sono susseguite, con qualche breve sospensione negli anni Novanta, e senza soluzione di continuità dal 2003 ad oggi. E’ l’idea stessa di pace che oggi è stata stravolta. Dobbiamo sapere che intorno al petrolio non si snodano soltanto infiniti episodi di inquinamento materiale e morale: sversamenti marini, territori bruciati, emissioni climalteranti, ricorrenti storie di corruzione e di illegalità; ma da ottant’anni a questa parte il petrolio è al centro di guerre e di violenze inedite, mentre la maggior fonte di ricchezza del mondo ha provocato e continua a provocare esodi biblici, fame, povertà, desertificazione, come nessun altro fattore mai. Anche per questo la distinzione operata dall’Europa, sotto indicazione della Merkel, tra profughi di guerra, profughi economici e, noi aggiungiamo, profughi ambientali, non ha alcuna ragion d’essere, se non qualche non troppo pronunciabile ragion di stato.

Ed in questo scenario il Mediterraneo torna al centro della storia e della cronaca, perché qui stanno venendo al pettine i nodi della nostra epoca e l’intreccio “esplosivo” tra i massimi importatori ed i massimi esportatori di petrolio, tra democrazie ed autoritarismi, tra culture e popoli in movimento. Il Mediterraneo può tornare ad essere cerniera oppure solco esplosivo tra interessi e punti di vista che possono trovare una sintesi o esplodere per distruggersi reciprocamente.

Il Mediterraneo è molto più grande dei suoi confini, aggrega tutto ciò che gli sta intorno e tiene insieme (nella buona e nella cattiva sorte!!) Europa Asia Africa. Ed oggi, dopo due secoli di controllo da parte delle potenze imperiali europee e del dollaro, si stanno determinando dinamiche nuove, dettate dal restringimento della “torta” del petrolio, dovuta in parte a intrinseci fattori fisici ed economici, che dà ancora più valore ai nuovi giacimenti e alle linee di trasporto del gas, in parte alla minor “indispensabilità” dell’oro nero, assediato dalla maggior convenienza (tecnologica, economica, climatica ed ambientale) delle 5 energie rinnovabili. Ed i conflitti tra gli interessi delle potenze locali e quelli dei vecchi signori del mondo del ‘900 esplodono in guerre sempre più violente. Ma oggi c’è un valore aggiunto nella prospettiva di liberarsi dal petrolio, che è quello di riuscire a ridurre gli effetti nefasti dei cambiamenti climatici, supportando lo sviluppo di nuove tecnologie energetiche, ed insieme riuscire a limitare i rischi di guerra.

Questi scenari ci fanno dire che affrontare oggi l’emergenza climatica significa porre le premesse per la costruzione di una pace duratura, di una vera battaglia contro la fame e la povertà, per i diritti dei profughi anche ambientali, per la democrazia. Per questo è indispensabile avere una bussola, condividere la direzione di marcia e muoversi con determinazione per liberarci progressivamente del peso del petrolio, ridimensionandone progressivamente la capacità di condizionamento e di ricatto. I signori della guerra sono anche i signori del petrolio (con buona pace di chi vorrebbe ridurre le stragi di questi anni a scontro di civiltà e di religione): l’accordo prodotto a Parigi dalla COP21 rappresenta la porta stretta attraverso cui passa anche l’inversione di questa drammatica tendenza all’inevitabilità del conflitto armato.

Abbiamo urgente bisogno che al risveglio delle coscienze, alla condanna del terrorismo e della violenza, segua la capacità di imporre politiche diverse, che passano anche dall’accoglienza e dalla solidarietà, ma soprattutto devono rivoluzionare quello che fino ad oggi noi occidentali abbiamo fatto nelle aree dove esplodono i conflitti, che abbiamo contribuito a far esplodere. Se non si aggrediscono in quelle aree la povertà, la fame, la disoccupazione, se si pretende di risolvere i problemi con nuove bombe, se non si garantisce l’accesso all’acqua e all’energia, per avere dignitose condizioni di vita per tutti, saremo inevitabilmente tutti vittime di queste inaccettabili logiche di guerra, di cui portiamo pesantissime responsabilità. Per questo pensiamo che nel Mediterraneo, anche per noi ambientalisti, si giochi gran parte della partita per tenere insieme la battaglia per il clima e contro la povertà. Senza lungimiranza, senza una idea equa di sviluppo e di accoglienza l’Europa non va da nessuna parte.

[su_heading style=”modern-2-blue” size=”21″]Le guerre del petrolio[/su_heading]

La storia del petrolio ci racconta bene le enormi responsabilità dell’Occidente. Inizia a metà Ottocento, il primo pozzo moderno sembra sia stato aperto vicino a Baku (Azerbaijan) nel 1848. Dopo cinquant’anni, all’inizio del secolo la potenza economico militare dipende ancora dal carbone, ma il petrolio è già una risorsa strategica. La prima guerra per il petrolio arriva nel 1932: tra Bolivia e Paraguay in un’area delle Ande che si credeva ricca di petrolio. Dietro i due stati c’erano le prime grandi compagnie petrolifere. La guerra durò tre anni con una sostanziale vittoria del Paraguay e provocò circa 100 mila vittime. Anche nella seconda guerra mondiale c’è lo zampino del petrolio.

Roosvelt decise l’embargo totale delle forniture petrolifere al Giappone, Gran Bretagna e Olanda bloccarono le esportazioni di petrolio dall’Indocina al Giappone. La risposta fu Pearl Harbour. L’invasione tedesca dell’Urss rispose anche alla necessità del Terzo Reich di accaparrarsi i campi petroliferi nell’area di Baku, una riserva indispensabile per sostenere la macchina da guerra hitleriana. Nel corso degli anni Sessanta aumenta la produzione nel Golfo Persico e comincia a cambiare lo scacchiere geopolitico. Per gli Stati arabi il petrolio diviene una risorsa ed un’arma da usare per fini commerciali e politici. Nel decennio successivo, esattamente nel 1973, esplode la prima crisi energetica dell’era del petrolio. La miccia è il conflitto israelo-palestinese, che porta il mondo arabo, dopo la sconfitta nella guerra del Kippur 6 di Siria ed Egitto contro Israele, ad usare il prezzo del petrolio come “ricatto” contro il mondo occidentale e gli USA in particolare.

Il prezzo triplica di botto e arriva a 11$ a barile, è l’inizio di un periodo di forte instabilità e di recessione, con un costo del barile vicino ai 50$. Nel 1980 il prezzo del petrolio ha un picco improvviso (guerra Iran-Iraq) e aumenta di dieci volte, arrivando a 110 $. Il Medio Oriente diviene un’area strategica , e la guerra fredda diviene una sotterranea guerra del petrolio, combattuta attraverso la diplomazia, l’economia ed i conflitti regionali. La partita fu vinta dagli USA e dall’Europa per la maggior capacità del proprio mercato di assorbire la produzione mediorientale. La reazione USA fu su due piani: quello diplomatico, che portò agli accordi di pace di Camp David del 1979, tra Israele ed Egitto, e quello energetico, per diminuire la dipendenza dal petrolio: in otto anni il Pil crebbe del 27%, l’impiego del petrolio calò del 17%, le importazioni di greggio dal Golfo Persico calarono dell’87%.

L’Arabia saudita reagì con un’inversione di politica ed il drastico taglio dei prezzi, spiazzando l’industria petrolifera americana e riguadagnando forza. Ma, intanto, nel confronto USA-URSS gli Stati Uniti avevano vinto la prima guerra del petrolio, l’unica non combattuta sul campo, preparando la disfatta economica dell’URSS. Da allora, inizia un periodo lungo 36 anni di guerre del petrolio, quasi senza soluzione di continuità, una più cruenta dell’altra. Nel 1979 l’URSS invade l’Afghanistan, tra i suoi obiettivi non è secondaria l’espansione verso il Golfo Persico. La guerra si conclude nel 1989. Indefinito il numero delle vittime. Dal 1980 al 1988 la guerra Iran-Iraq, combattuta anche per il controllo delle province ricche di petrolio del Khuzestan, forse un milione le vittime. Nel 1990 l’Iraq invade il Kuwait, che viene liberato l’anno dopo da una coalizione guidata dagli USA sotto l’egida dell’ONU.

Molto imprecise le stime delle vittime, si parla di 35.000-100.000 vittime tra i militari e di circa 100.000 vittime tra i civili. Nel corso degli anni Novanta, mentre nuove guerre, meno legate al petrolio, insanguinano i continenti, sotto la “nuova” bandiera della pulizia etnica ( guerra civile in Somalia, in Georgia, nei Balcani, in Afghanistan, in numerosi paesi africani come Ruanda, Congo, Sierra Leone, …), si innesta il conflitto nel delta del Niger, in Nigeria, che si protrae fino ai giorni nostri, esploso per contrasti etno-politici tra gruppi locali, multinazionali del petrolio e governo, dove emerge, nella forma forse più evidente nel mondo, che le estrazioni di petrolio non hanno mai portato benefici sostanziali alle popolazioni locali.

All’inizio del XXI secolo riprendono le guerre del petrolio, da allora non si sono più interrotte. Nel 2003 scoppia la seconda guerra del Golfo, che dura fino al 2011. Non vi sono stime certe di vittime, quello che è certo è che le vittime civili sono molto superiori a quelle dei combattenti. Nel 2011 la guerra esplode in Libia, in Siria, nel 2012 in Sudan del Sud, nel 2015 in Yemen. Sempre con il petrolio “discreto” protagonista, ben mascherato da motivazioni etniche o religiose. Nel prossimo futuro sembra che sarà la Libia il nuovo bivio tra una nuova guerra del petrolio oppure una via pacifica alla costruzione di un regime legittimo e democratico in un paese fin troppo martoriato e da qualche anno al centro di molteplici appetiti.

[su_heading style=”modern-2-blue” size=”21″]Le guerre non sono tutte uguali[/su_heading]

Le guerre del petrolio non esauriscono, purtroppo, il panorama dei conflitti armati. Ma ci sono guerre di serie A e guerre di serie B, guerre che stanno sulle prime pagine dei nostri giornali e guerre invisibili, che non esistono per i media. Secondo Medici Senza Frontiere, in dieci anni, dal 2004 al 2014, i telegiornali italiani hanno dedicato in totale 1596 servizi ai conflitti in Africa, pari al 7% della presenza complessiva della voce “guerre e terrorismo”, mentre nella realtà le guerre di media e alta intensità nella sola Africa 7 Subsahariana sono in testa alla classifica mondiale (64 su 223 – il totale dei conflitti tra alta, media e bassa intensità è di 424 – che non vuol dire 424 paesi, perché in molti paesi si registrano più conflitti su fronti diversi), e, guarda caso, il paese di cui si è parlato di più è la Nigeria, dove, come in Medio Oriente, troviamo un gruppo terroristico in armi, di matrice islamista, come BoKo Haram, e i giacimenti petroliferi con i grandi interessi delle compagnie petrolifere occidentali.

Mentre, ad esempio, non è mai comparsa nei nostri TG la guerra nel poverissimo territorio della Repubblica Centrafricana, che pure è costata la vita a migliaia di persone, con centinaia di migliaia di profughi ed il diffuso utilizzo dei bambini soldato. D’altra parte anche la Nigeria, quando avviene un strage come quella di Charlie Hebdo, a Parigi all’inizio del 2015, scompare, così infatti è stato per i massacri compiuti in quei giorni da Boko Haram nella città di Baga, con un numero imprecisato di vittime, ma certamente superiore al migliaio. Basta poco per rendersi conto che il criterio di selezione dell’attenzione politica e mediatica è dato dalla vicinanza geografica del conflitto o dalla vicinanza agli interessi dell’Europa e più in generale dell’Occidente.

E’ questo il caso del petrolio e del radicalismo islamista, che, per altro, vivono di un intreccio inestricabile. Le guerre che ci interessano sono le guerre del petrolio! Ma se andiamo a vedere le analisi internazionali fatte anche da Istituti importanti, come nel caso dell’Heidelberg Institute for International Conflicts Research, che dal 1991 stila ogni anno il «Conflict Barometer», le categorie che vengono usate per definire le motivazioni più comuni dei conflitti sono: potere nazionale o internazionale, territorio, secessioni, motivi legati alla decolonizzazione o alla richiesta di autonomia, con un predomino di due categorie: ideologia e risorse. Quello che non compare, né è leggibile da queste categorizzazioni, è quanto abbiamo provato a raccontare: l’inestricabile intreccio tra i signori della guerra e del terrore e i signori del petrolio. La categoria “petrolio” non è prevista e la categoria “risorse” non è di per sé esaustiva, perché qui troviamo anche i conflitti per l’acqua e la terra, altre risorse indispensabili, ma molto diverse dal petrolio!

[su_heading style=”modern-2-blue” size=”21″]La guerra dei prezzi[/su_heading]

Nel pieno dell’instabilità delle guerre in Afghanistan ed in Medio Oriente, a luglio del 2008 il prezzo del petrolio tocca il suo massimo storico: 145$ a barile, per poi crollare di nuovo a fine anno, quando scoppia la così detta bolla finanziaria, che fece precipitare l’economia mondiale in una lunga fase di recessione. Nel 2011 l’instabilità negli stati islamici e la crisi libica riportano il barile a 110$. Il periodo di alti prezzi determina la crescita esponenziale degli investimenti mondiali in estrazione e produzione di greggio, che passano dal 2000 al 2014, da circa 100 mld di $ – in valore 2014 – a più di 700 mld $. La fase si chiude bruscamente nell’estate 2014, quando il prezzo crolla del 60% attestandosi intorno ai 45/50$, per poi scendere ad inizio 2016 sotto i 30$ a barile ed ora oscillare tra 30 e 40$. Il quadro è di profonda instabilità.

La scelta di non agire per modificare l’andamento del prezzo del greggio danneggia non poco numerose economie, su tutte quella russa e quella iraniana. La Russia dipende per il 50% delle proprie entrate fiscali dalle esportazioni di petrolio e gas, l’Iran affida al petrolio, che rappresenta il 25% del Pil nazionale, il 60% delle sue esportazioni e, finito l’embargo, è alla ricerca di una rapida ripresa. Inoltre ci sono differenze significative tra le diverse nazioni, dovute in parte ai costi di estrazione, così mentre la Nigeria ha bisogno di un prezzo al barile di 85 dollari per riportare in parità il bilancio 2016, al Kuwait ne servono solo 47. Il crollo, avvenuto in poco più di un anno e mezzo, è dovuto in gran parte alla decisione dell’Opec di mantenere i livelli di produzione nonostante la domanda globale fosse in calo e la capacità di stoccaggio delle scorte vicina alla saturazione.

La decisione dell’OPEC è dovuta a due motivi, mettere in difficoltà lo shale e provare a rispondere al crollo della domanda. Tenere basso il prezzo del petrolio serve a mettere 8 fuori mercato chi si sta affidando alle tecnologie dello shale oil e shale gas, che, se pure a costi superiori a quelli delle estrazioni tradizionali, ha portato gli USA a raddoppiare quasi la sua produzione in due anni facendolo diventare il primo produttore al mondo. Il crollo della domanda, da un punto di vista strutturale, è invece più interessante, perché travalica i confini di una guerra commerciale contingente. Se, infatti, il rallentamento dell’economia globale ha contribuito al crollo della domanda, questo è soprattutto dovuto all’apertura di un nuovo settore energetico, quello delle rinnovabili e dell’efficienza energetica che compete nei consumi con il petrolio e il gas ed attrae la gran parte degli investimenti del settore (che, secondo uno studio di Bloomberg New Energy Finance sono del tutto indipendenti dal trend del prezzo del petrolio – nel 2015, infatti, anno in cui i prezzi del petrolio collassavano, gli investimenti nelle rinnovabili hanno raggiunto 329 mld $, quintuplicati rispetto a 5 anni prima – la crescita nel mondo nel 2015 è stata dell’8,3%, la percentuale più alta mai realizzata).

Perfino nei paesi del Nord Africa e del Medio Oriente si sono investiti nel 2015 8 mld $ in energie pulite, +40% rispetto al 2014. Secondo la IEA le rinnovabili saranno la prima fonte di elettricità nel 2040 (50% in Europa, il 30% in Cina e Giappone, il 25% in USA). Dal 1980 al 2014 il consumo energetico mondiale è passato da 6.631 mln di tep a 12.928 mln di tep, la quota del petrolio è passata dal 44,9% al 32,6% – era il 38,3 nel 2000 -, le rinnovabili, senza l’idroelettrico, dallo 0,1 al 2,5, era lo 0,6 nel 2000. Sempre per la IEA il boom del petrolio è finito, la domanda di elettricità del mondo crescerà meno che nel passato (l’1%) per merito dell’efficienza, da qui al 2020 la produzione di greggio aumenterà del 5%, poi fino al 2040 aumenterà di un altro 5%, con i paesi già sviluppati che caleranno i consumi di un quarto rispetto agli attuali. Ci sarà aumento della domanda di energia, sia per aumento demografico che per l’ampliamento dell’accesso all’energia da parte di un numero crescente di persone.

Questo aumento sarà garantito molto più dalle rinnovabili che dalle fossili: questo è lo scenario (anche per gli accordi di Parigi) per almeno tre motivi, sostiene Francesco Starace, AD di Enel, “perché gli impianti da fonti rinnovabili sono di solito di piccole e medie dimensioni: rispondono rapidamente al fabbisogno di energia elettrica e sono più facili da integrare”; “in secondo luogo un mix di produzione diversificato con l’ingresso delle fonti rinnovabili offre benefici per i paesi sia esportatori che importatori di combustibili fossili”, nel primo caso perché contribuisce ad ottimizzare per l’export le risorse fossili (che non vengono più impiegate per i consumi interni, coperti dalle rinnovabili), nel secondo perché incrementa la sicurezza energetica; “il terzo vantaggio è che le fonti rinnovabili rappresentano una soluzione sempre più competitiva rispetto alle fonti convenzionali sul mercato internazionale, grazie ai continui miglioramenti in termini di costi e di prestazioni”.

[su_heading style=”modern-2-blue” size=”21″]Il circuito vizioso: terrorismo – petrolio – armi[/su_heading]

Per completare il quadro occorre ricomporre un altro tassello, un’altra mappa che si può sovrapporre a quella del la produzione di petrolio e delle guerre, ed è la mappa del traffico d’armi. Dal 2000 ad oggi la spesa militare mondiale è cresciuta di oltre il 50% in termini reali, arrivando a 1776 miliardi di dollari, equivalenti al 2,3% del PIL mondiale. Tra il 2007 e il 2014 quella cinese è aumentata del 167% e l’investimento militare russo è all’incirca raddoppiato, mentre quello americano è leggermente diminuito. In termini assoluti nel 2014 gli Usa rimangono il paese con la più alta spesa militare, $610 miliardi, i cinesi $216 miliardi e i russi $84,5 miliardi, non molti di più degli $80,8 dell’Arabia Saudita. Nel 2014 (Archivio Disarmo su dati SIPRI – Stockholm International Peace Research Institute) si riduce negli Stati Uniti (dove comunque è oggi superiore del 45% al 2001, prima degli attentati dell’11 settembre) ed in Europa occidentale, ma cresce nelle altre aree ed in modo particolare in Cina (9,7%), Vietnam (9,6%), 9 Messico (11%), Algeria (12%), Ucraina (20%), Russia (8,1%) e Arabia Saudita (17%).

Quattro dei cinque bilanci militari cresciuti più in fretta in termini percentuali appartengano a Stati mediorientali, con il baricentro imperniato sul Golfo (Oman +115% in un anno, Arabia Saudita +300% in un decennio). Complessivamente la spesa militare in Medio Oriente ammonta a $196 miliardi nel 2014, in aumento del 5,2% rispetto al 2013 e del 57% rispetto al 2005. Il più alto incremento rispetto al 2005 si è registrato in Iraq (286%), negli Emirati Arabi (135%), Bahrain (126%), ed Arabia Saudita (112%). Per il Kuwait nel periodo 2005-2013 l’aumento della spesa militare è stato del 112%. Il Qatar ha iniziato un’espansione significativa delle proprie forze armate nel 2012 ed ha registrato una considerevole crescita della spesa militare, con ordini di armi effettuati nel 2014, che ammontano a $23,9 miliardi.

L’exploit delle spese militari coincide perfettamente con lo stato continuo di guerra che ha avuto come suo epicentro la lotta al terrorismo che ha viaggiato a braccetto con le guerre del petrolio negli ultimi decenni. Parliamo di spese militari statali, a cui va aggiunto il commercio di armi privato e soprattutto quello illegale, che utilizza come “magazzini” da cui attingere le aree dove le guerre si sono concluse. In Europa, ad esempio, un’enorme riserva è costituita dai Balcani. Complessivamente l’Unione Europea stima la presenza sul suo territorio di 67 milioni di armi illegali. Benché il traffico d’armi sia diffuso nelle regioni di maggiore instabilità politica, non è limitato a tali aree.

Ad esempio, nell’Asia Meridionale, si stima che siano state contrabbandate 63 milioni di armi in India e Pakistan. È difficile stimare il valore totale del mercato illegale delle armi, ma le stime disponibili lo quantificano in termini di miliardi di dollari. Solo per le armi leggere si parla di circa un miliardo. D’altra parte la minaccia terroristica è stata ed è un potente fattore di crescita delle spese in armamenti. Holland, dopo gli attentati di Parigi, ha ottenuto di fare più deficit del previsto, mentre le aziende produttrici di armi hanno avuto un balzo in avanti nelle borse e la nostra Finmeccanica ha guadagnato più dell’8%, Finmeccanica che già nella relazione di bilancio 2014, appena dopo gli attentati di Charlie Hebdo, prevedeva che la spesa per nuovi armamenti sarebbe cresciuta nei prossimi anni del 2% annuo.

E’ importante comunque capire quali sono i flussi. A livello globale, secondo il rapporto del SIPRI tra il 2010 e il 2014 il volume del traffico internazionale di armi è aumentato del 16 per cento rispetto al quadriennio 2005-2009. I paesi esportatori maggiori sono in ordine: USA, Russia, Cina, Germania, Francia, Gran Bretagna, Spagna, Italia (che cresce di un punto percentuale rispetto al quinquennio precedente) Ucraina e Israele. Con USA e Russia che da soli coprono il 58% del mercato. I principali paesi importatori sono India, Arabia Saudita, Cina, EAU, Pakistan, Australia, Turchia, USA, Sud Corea, Singapore. Il principale cliente italiano sono gli Emirati Arabi Uniti, seguiti da India e Turchia.

[su_heading style=”modern-2-blue” size=”21″]Conclusioni: l’intreccio perverso e l’intreccio virtuoso[/su_heading]

Il Sud Sudan, l’Afghanistan e la Siria sono stati considerati nel 2014 i paesi meno pacifici del mondo, secondo la classifica annuale compilata dall’Institute for economics and peace. Tutti e tre, come abbiamo visto (l’Afghanistan, certo, in misura minore), sono coinvolti dal filo nero del petrolio, mascherato dagli scontri tra integralismi ideologico-religiosi. E’ il risultato dell’intreccio perverso che abbiamo raccontato in queste pagine tra petrolio, guerre e traffico d’armi. Ma oggi è davvero concretamente possibile sviluppare un intreccio virtuoso! Dalla lunga storia del petrolio possiamo ricavare almeno un insegnamento.

Il petrolio è stato ed è ancora risorsa troppo importante nel sistema economico mondiale perché intorno al suo approvvigionamento non si scatenino appetiti ed interessi leciti ed illeciti. Ne deriva che il modo migliore per cominciare a sciogliere il groviglio di tensioni e conflitti che vivono introno al petrolio è ridurne il peso e l’importanza nel sistema 10 energetico-economico mondiale. Ecco perché, oggi, la battaglia per la mitigazione dei cambiamenti climatici è anche una battaglia per la pace, ed il futuro movimento pacifista dovrebbe caratterizzarsi intorno a questo asse. Ma oggi c’è anche la possibilità per accelerare questo processo, per ridurre quell’importanza.

Ci sono le condizioni tecnologiche, culturali, economiche e di accettabilità sociale per costruire un mondo libero dalle fonti fossili. Ora bisogna costruire le condizioni politiche cominciando ad eliminare i sussidi alle fossili. Nel 2015 i sussidi diretti e indiretti, compreso il costo dei danni ambientali e sanitari, alle fonti fossili, secondo il FMI, hanno raggiunto l’astronomica cifra di 5.300 miliardi di dollari, ossia il 6.5% del PIL globale, e se venissero eliminati si renderebbero disponibili almeno 1.800 miliardi di dollari, “freschi”, senza considerare il costo dei danni risparmiati (solo in Europa parliamo di 221 miliardi di dollari, con 68 miliardi di dollari per i soli sussidi diretti). Ecco un buon primo passo, coerente con gli Accordi di Parigi per avviare una seria politica di mitigazione dei cambiamenti climatici.

 

Patrizio Riccihttps://www.vietatoparlare.it
Con esperienza in testate come il Sussidiario, Cultura Cattolica, la Croce, LPLNews e con un passato da militare di carriera, mi dedico alla politica internazionale, concentrandomi sui conflitti globali. Ho contribuito significativamente all'associazione di blogger cristiani Samizdatonline e sono socio fondatore del "Coordinamento per la pace in Siria", un'entità che promuove la pace nella regione attraverso azioni di sensibilizzazione e giudizio ed anche iniziative politiche e aiuti diretti.

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