Negli ultimi giorni, Donald Trump è stato duramente criticato per aver suggerito l’ipotesi di trasferire la popolazione palestinese dalla Striscia di Gaza verso Egitto e Giordania. Un’idea che ha sollevato accuse di ingiustizia e violazione dei diritti umani. Tuttavia, questa indignazione contrasta con il silenzio riservato a casi simili nella storia recente. Per comprendere il senso della proposta e il suo impatto globale, occorre andare oltre la reazione immediata.
Non una difesa, ma una riflessione sul possibile
Non si tratta di difendere un’idea moralmente dolorosa, ma di affrontare il nodo della politica reale:
Trump è cinico? Sì.
La sua proposta è giusta? No.
Ma la sua analisi sullo stallo è forse più onesta di quella di chi grida allo scandalo senza offrire alternative reali.
Analizziamo il perchè:
Giustizia e realtà: uno scontro insanabile
Nessuno può sostenere che cacciare un popolo dalla propria terra sia giusto. La storia insegna che gli esodi forzati, seppur risolutivi dal punto di vista del conflitto, lasciano cicatrici profonde e dolori intergenerazionali. Tuttavia, la politica internazionale raramente segue il principio della giustizia. Essa è, piuttosto, l’arte del possibile, del compromesso tra interessi, poteri e sopravvivenza.
Il conflitto israelo-palestinese dura da oltre settant’anni, e ogni tentativo di soluzione è fallito, generando solo nuove ondate di violenza. Non è assurdo chiedersi: quanto può durare uno status quo di sangue e dolore? È cinico affermarlo, ma la storia mostra che spesso i conflitti insanabili finiscono solo dopo un “fatto compiuto” traumatico: separazioni forzate, muri, divisioni definitive. Non è giusto, ma è reale.
Trump, Israele e il prezzo del cambiamento globale
Il punto più acuto della tua riflessione riguarda l’intersezione tra il destino dei palestinesi e il progetto politico globale di Trump. È qui che la questione diventa geopolitica:
Trump è l’unico leader occidentale che propone un ordine mondiale multipolare, in cui gli Stati Uniti non siano più il gendarme globale ma uno dei poli di un sistema più equilibrato, in cui Russia, Cina e altre potenze abbiano voce.
Tuttavia, questa visione ha un punto di rottura invalicabile: Israele.
L’influenza della lobby filo-israeliana negli Stati Uniti è un dato storico e strutturale. Trump, durante il suo primo mandato, ha garantito un sostegno totale a Israele (dal riconoscimento di Gerusalemme come capitale al via libera agli insediamenti). Tuttavia, la sua proposta di trasferire i palestinesi altrove rompe un tabù, non perché sia più ingiusta di altre soluzioni già attuate (come il blocco totale di Gaza), ma perché infrange l’implicita regola secondo cui Israele non può mai essere parte del problema.
Se Trump portasse avanti questa linea, subirebbe l’attacco diretto del cuore del potere conservatore americano, lo stesso che sostiene il suo progetto di riforme interne e di distensione globale. Toccare Israele significa perdere la coalizione necessaria per ogni altro cambiamento.
Il paradosso: Palestinesi e multipolarismo
Qui sta il nodo tragico: il destino dei palestinesi è intrecciato con il destino del progetto multipolare di Trump.
Se Trump insiste sulla proposta e perde la sua coalizione, finisce il sogno di un mondo multipolare e l’America tornerà al globalismo interventista.
Se Trump cede su Israele, il conflitto palestinese continuerà a infiammare il Medio Oriente, rendendo impossibile qualsiasi pacificazione regionale.
In entrambi i casi, i palestinesi perderanno. Ma nella prima ipotesi perderà anche il mondo intero, tornando sotto l’egemonia di un ordine unipolare e militarizzato.
Realismo e scelta delle opzioni disponibili
Le critiche a Trump, dunque, sono fondate ma irragionevoli. Sono fondate, perché è evidente che proporre lo spostamento forzato di un popolo sia una soluzione ingiusta e dolorosa. Ma sono irragionevoli perché ignorano il contesto reale delle opzioni disponibili.
La politica non è il regno dell’ideale, ma della scelta tra alternative spesso tutte negative. Trump non è un fautore della giustizia pura, ma un giocatore della politica possibile. La sua mossa può apparire cinica, ma è un tentativo (forse l’unico) di rompere uno stallo che, lasciato com’è, continuerà a produrre solo morte.
Chi critica, non propone una soluzione reale
Chi oggi condanna Trump dovrebbe rispondere a una domanda essenziale:
Se non questa soluzione, quale?
E soprattutto: Chi avrebbe il potere di attuarla, se non chi è pronto a sfidare i dogmi intoccabili della politica internazionale?
In un mondo segnato da doppi standard e ipocrisie, forse il vero scandalo non è la proposta di Trump, ma l’incapacità della comunità internazionale di riconoscere le proprie menzogne e di affrontare il conflitto con realismo e coraggio.
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note a margine:Le deportazioni dimenticate
La storia recente e meno recente è segnata da trasferimenti forzati di popolazioni, spesso in un clima di violenza e ingiustizia, senza che la comunità internazionale mostrasse lo stesso sdegno:
Nagorno Karabakh (2023): L’Azerbaigian ha costretto oltre 100.000 armeni ad abbandonare la regione, ponendo fine a secoli di presenza armena. La reazione internazionale? Debole, quasi inesistente.
Genocidio Armeno (1915-1917): L’Impero Ottomano perpetrò deportazioni e massacri che portarono alla diaspora armena in Siria, Libano, Francia, Russia e Stati Uniti. Ancora oggi, il riconoscimento di quel genocidio è oggetto di contese diplomatiche.
Esodo Giuliano-Dalmata (1945-1954): Oltre 250.000 italiani furono espulsi dall’Istria e dalla Dalmazia sotto il regime jugoslavo, con scarso riconoscimento internazionale della tragedia.
Rohingya in Myanmar (2017): L’esercito birmano ha condotto una brutale pulizia etnica, costringendo centinaia di migliaia di Rohingya a rifugiarsi in Bangladesh. Anche qui, la reazione dell’opinione pubblica globale è stata flebile e passeggera.Il confronto è inevitabile: perché la proposta di Trump suscita uno sdegno così acceso, mentre deportazioni reali e recenti sono state accolte con indifferenza o blanda censura? Il doppio standard appare evidente.
Perché la proposta di Trump scuote il sistema
Il vero punto critico non è solo la proposta, ma chi la fa e cosa rappresenta.
- Trump incarna un’idea di ordine mondiale multipolare, opposta al globalismo interventista.
- Il principale ostacolo alle sue riforme, sia interne che esterne, è il nodo Israele.
In politica americana, Israele è un tabù intoccabile. Criticare o mettere in discussione il suo ruolo significa:
- Perdere il sostegno di potenti lobby come l’AIPAC.
- Essere attaccati dalla stampa mainstream.
- Esporsi all’accusa di antisemitismo, anche se la critica riguarda le politiche e non il popolo.
La proposta di Trump, dunque, infrange un dogma: che Israele non possa mai essere parte del problema. Non perché Israele sia il solo responsabile, ma perché nessuna soluzione viene mai cercata anche analizzando il suo ruolo.
“Israele non può mai essere parte del problema”: cosa significa?
Questa espressione sintetizza un dato storico e politico fondamentale nella politica internazionale e, in particolare, in quella statunitense: Israele viene considerato un alleato imprescindibile e moralmente al di sopra di ogni critica strutturale, anche quando le sue azioni contribuiscono al conflitto.
Vediamolo in dettaglio COSA SIGNIFICA che Israele non può essere parte del problema:
1. Un Tabù Diplomatico e Geopolitico
Israele è spesso trattato come uno Stato intoccabile nella narrativa politica occidentale, soprattutto negli Stati Uniti. Criticare le sue politiche non è semplicemente una posizione politica: è un rischio politico ed elettorale. Perché?
- Lobby e influenza politica: Organizzazioni come l’AIPAC (American Israel Public Affairs Committee) esercitano una forte influenza sul Congresso e sulle campagne elettorali.
- Consenso bipartisan: A differenza di molte altre questioni, il sostegno a Israele è condiviso da Repubblicani e Democratici.
- Pressione mediatica: Chi mette in discussione le politiche israeliane viene spesso accusato di antisemitismo, anche se la critica riguarda decisioni militari o territoriali.
2. Un dogma ideologico nella Politica Americana
Negli Stati Uniti, la narrativa dominante presenta Israele come:
- L’unica democrazia in Medio Oriente: quindi un alleato “naturale” da difendere a prescindere.
- Un baluardo contro il terrorismo: quindi ogni sua azione è considerata “difensiva”, anche quando colpisce civili o viola il diritto internazionale.
- Un popolo perseguitato: la memoria della Shoah legittima, agli occhi dell’opinione pubblica, una politica di sicurezza senza limiti.
3. Gli effetti concreti: Politica Estera e Guerra Permanente
Questa “intoccabilità” ha avuto conseguenze reali nella gestione del conflitto israelo-palestinese:
- Nessun freno agli insediamenti: Gli insediamenti illegali in Cisgiordania sono una causa centrale del conflitto, ma l’Occidente li ha sempre tollerati.
- Gaza come prigione a cielo aperto: Il blocco totale su Gaza è una politica punitiva che colpisce milioni di civili, ma è trattato come un problema secondario.
- Assenza di negoziati reali: Ogni tentativo di mediazione è fallito perché non si è mai potuto mettere sul tavolo il ruolo di Israele nella creazione del problema.
4. Trump e la Rottura del Tabù
Durante il suo primo mandato, Trump ha sostenuto Israele con decisioni storiche (Gerusalemme capitale, annessione del Golan), proprio per mantenere il sostegno della sua coalizione. Ma ora, ipotizzando il trasferimento dei palestinesi, ha infranto il tabù principale:
Ha implicitamente detto che il problema non è solo Hamas o l’Autorità Palestinese, ma anche la posizione di Israele.
In altre parole: ha messo Israele “nel problema” e non solo fuori da esso.5. Il rischio per Trump: il Costo di Rompere il Tabù
Perché questa è la linea rossa? Perché significa:
- Perdere il sostegno dell’AIPAC e della potente componente cristiano-sionista che sostiene il progetto MAGA.
- Attirarsi l’accusa di tradimento da parte della destra neoconservatrice.
- Essere dipinto dai media come nemico di Israele, con una conseguente distruzione della sua immagine tra molti elettori conservatori.
6. Conclusione: “Non può essere parte del problema” = “Non può essere messo in discussione”
Ecco il punto chiave: quando dico “Israele non può mai essere parte del problema” intendo dire che nella narrazione politica dominante Israele è sempre dalla parte del giusto e non può essere considerato corresponsabile del conflitto. Chi osa infrangere questa regola — anche con proposte discutibili come quella di Trump — viene automaticamente isolato e distrutto politicamente.
Quindi in realtà Trump ha voluto consapevolmente affrontare questo rischio per rompere lo stallo che rischia di prolungare indefinitivamente una situazione non sanabile con gli attori attuali.
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