Il mondo secondo Donald Trump

Fyodor Lukyanov, redattore capo della rivista “Russia in Global Affairs”, analizza le prospettive delle politiche di Trump
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Il mondo secondo Donald

Il futuro presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, appare guidato da un imperativo centrale: il profitto. Questo approccio, tipico di un uomo d’affari, si integra con gli ideali conservatori e riflette l’essenza stessa dell’America, un Paese fondato sullo spirito imprenditoriale. Da qui derivano la diffidenza verso la regolamentazione, l’avversione per l’ingerenza burocratica e il desiderio di ridurre il peso dello Stato. Non a caso, Trump trova un alleato ideale in Elon Musk, che promette di sradicare molte figure burocratiche, anche se è improbabile che Musk mantenga un ruolo stabile vicino alla Casa Bianca. Tuttavia, politici con una visione simile saranno probabilmente presenti nella futura amministrazione.

Un elemento distintivo del team di Trump è il livello significativamente più basso di ideologizzazione della politica, sia interna che estera. Sul piano interno, si assiste al rigetto dell’agenda progressista legata al movimento Woke e all’imposizione di una cultura centrata sulle minoranze, etichettata dai repubblicani come “marxismo” o “comunismo”. Questo non implica una negazione dei diritti individuali: i conservatori non contestano il diritto di ciascuno a vivere secondo le proprie scelte. Un esempio emblematico è rappresentato da figure di spicco come Ric Grenell, ex ambasciatore in Germania, e Peter Thiel, influenti alleati di Trump e apertamente omosessuali, sposati con uomini.

In politica estera, invece, emerge una visione diversa rispetto all’amministrazione Biden. Trump e i suoi sostenitori non condividono l’idea che la lotta tra democrazie e autocrazie debba costituire il fulcro delle relazioni internazionali. Questo, però, non implica una neutralità ideologica. Molti repubblicani continuano a credere nell’importanza del concetto di “mondo libero” e nella critica al comunismo, includendo in questa categoria Paesi come Cina, Cuba, Venezuela e, per consuetudine, anche la Russia.

Ad esempio, Michael Waltz, probabile consigliere per la sicurezza nazionale, critica duramente la Russia, ma lo fa non per un desiderio di “rieducarla”, bensì perché ostacola gli interessi americani. Marco Rubio, considerato un possibile futuro Segretario di Stato, sostiene il cambio di regime a Cuba, sua patria storica, ma non è un convinto sostenitore di interventi militari su larga scala.

Una priorità indiscussa per Trump e i suoi alleati è il sostegno a Israele e la lotta contro i suoi avversari, primo fra tutti l’Iran. Elise Stefanik, candidata a rappresentante permanente presso l’ONU, si è distinta per il suo duro intervento al Congresso contro i rettori delle principali università americane, accusati di antisemitismo. Non va dimenticato che l’unico uso significativo della forza durante il primo mandato di Trump è stato l’assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani, leader delle forze speciali del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie.

Trump non è un uomo di guerra. Predilige minacce, pressioni e dimostrazioni di forza, ma evita campagne militari su larga scala e spargimenti di sangue massicci, considerati inutili. Questo approccio influenza anche il rapporto con la Cina, vista come il principale rivale degli Stati Uniti. La competizione non è tanto militare, quanto politico-economica, e si traduce in una guerra fredda spietata ma non armata. Una logica simile, seppur con sfumature diverse, si applica anche alla Russia.

Queste politiche, per la Russia, non rappresentano né un vantaggio né uno svantaggio assoluto. Piuttosto, configurano un nuovo equilibrio che, nel bene e nel male, segna una cesura rispetto al passato.