Il 5 aprile 2025, gli Stati Uniti sono stati attraversati da una delle più ampie mobilitazioni di piazza degli ultimi anni: le proteste “Hands Off”, promosse da un ampio fronte progressista contro le politiche dell’amministrazione Trump e contro l’ascesa di Elon Musk nel cuore dell’apparato statale.
Una protesta imponente, ma già in fase discendente?
Secondo gli organizzatori – tra cui spiccano movimenti ben noti come Indivisible, MoveOn, Third Act, sindacati e gruppi per i diritti civili e LGBTQ+ – si sono svolte oltre 1.200 manifestazioni in tutti i 50 stati, oltre che a Washington D.C. Stime prudenti parlano di circa 600.000 persone registrate agli eventi, anche se la partecipazione effettiva è difficile da quantificare con precisione.
Il picco si è raggiunto nel fine settimana del 5-6 aprile, con una distribuzione molto ampia ma spesso frammentata: numerosi eventi non hanno superato la soglia dei 100 partecipanti. E già al 7 aprile, l’intensità sembra essersi affievolita, lasciando spazio a una possibile evoluzione del movimento in forme più localizzate o a lungo termine.
Il ruolo di Obama e la narrazione morale
Non è un caso che, pochi giorni prima dell’inizio ufficiale delle proteste, Barack Obama abbia tenuto un discorso all’Hamilton College, spronando studenti e professionisti a “difendere lo stato di diritto” contro le derive dell’attuale governo. Le sue parole, pronunciate davanti a oltre 5.000 persone, sembrano aver avuto un ruolo propulsivo, fornendo la cornice morale e intellettuale al movimento Hands Off.
L’intervento di Obama – parte della serie “Sacerdote Great Names” – è emblematico: l’ex presidente ha evocato lo spettro dell’intimidazione statale verso università e studi legali, e ha invitato i cittadini a sacrificare privilegi e opportunità per opporsi “alle minacce democratiche”.
THIS IS WHAT DEMOCRACY LOOKS LIKE#HandsOff #HandsOff2025 pic.twitter.com/5qbr1HRtnv
— Peace Is Active (@peaceisactive) April 5, 2025
Dietro lo slogan, un’organizzazione strutturata
Lo slogan Hands Off ha fatto rapidamente il giro delle principali città americane: da Washington D.C. a New York, da Boston a Los Angeles (ma si è sviluppata anche in Europa , in città come Berlino, Francoforte e Parigi); il messaggio è stato chiaro – le élite progressiste si mobilitano per difendere la loro visione dell’America. Nulla è stato lasciato al caso: logistica, grafica coordinata, hashtag virali, supporto mediatico. Una macchina organizzativa ben rodata, analoga a quella vista in occasione delle proteste BLM.
Tuttavia, la questione centrale non riguarda solo Trump o Musk, oggi a capo del neonato Dipartimento per l’efficienza governativa. L’attacco è indirizzato anche all’intero sistema di potere economico, accusato di svuotare le istituzioni democratiche per servire interessi privati e tecnocratici.
Due rivoluzioni in atto: economica e ideologica
Secondo molti analisti, ciò che si sta svolgendo negli Stati Uniti è una doppia rivoluzione:
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una economica, guidata da Trump, che attraverso dazi e politiche protezionistiche punta a disarticolare le basi della globalizzazione;
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e una ideologica, sostenuta dai movimenti progressisti, che mira a riaffermare il controllo dell’agenda culturale americana, a partire dalle università e dai media.
Non si tratta più di uno scontro tradizionale tra Repubblicani e Democratici, ma di una frattura trasversale, dove il conflitto oppone da un lato un potere presidenziale deciso a riscrivere le regole del gioco, e dall’altro un Deep State che include settori bipartisan e l’élite finanziaria globale.
La rete transatlantica sotto assedio
Trump, nel suo secondo mandato, sta smantellando le reti transatlantiche che hanno controllato l’Europa per decenni. Attraverso il taglio dei fondi alle ONG collegate alla CIA e la promozione attiva della sovranità nazionale, sta mettendo in crisi l’architettura globalista che aveva fatto degli Stati Uniti la centrale operativa del mondialismo. Non stupisce che proprio per questo i globalisti siano furiosi: hanno avviato un’offensiva per riprendere il controllo, e le proteste Hands Off rappresentano uno dei fronti principali di questa controffensiva.
Le manifestazioni europee di solidarietà, per quanto modeste, indicano che il dissenso verso il ritorno della sovranità nazionale è globale: il fronte progressista sta tentando di usare anche l’opinione pubblica europea come arma politica contro chi mina l’ordine stabilito.
NGO, rivoluzioni colorate e Soros: niente nasce dal nulla
A ben vedere, le sigle coinvolte nelle proteste – MoveOn, Indivisible, Sierra Club, ACLU – non sono nate ieri. Si tratta di organizzazioni globaliste, finanziate o sostenute dalla Open Society Foundations di George Soros, che hanno già operato in passato per destabilizzare governi non allineati. È documentato, ad esempio, che il Sierra Club abbia ricevuto almeno mezzo milione di dollari dalla rete OSF.
Il metodo non è nuovo: le proteste si ispirano alle tecniche di “rivoluzione non violenta” elaborate dallo scienziato politico Gene Sharp, il cui lavoro è stato utilizzato dalla CIA per rovesciare Slobodan Milošević in Serbia con l’aiuto dell’organizzazione studentesca infiltrata Otpor. Quelle stesse strategie di “cambio di regime” sono oggi riadattate al contesto occidentale e dirette contro Trump e contro ogni progetto di emancipazione europea.
Chi decide davvero chi vince?
Il campo è tracciato: da una parte un progetto di sovranità e discontinuità, dall’altra un fronte che si sente custode dell’ordine liberale globale. Chi vincerà, lo decideranno non solo le urne, né la sola capacità di durare nel tempo. A pesare saranno anche le risorse abituali che il progressismo sa mobilitare in certe occasioni, in nome di una “vera democrazia” autoproclamata: il lawfare, gli scandali a orologeria, le campagne di screditamento mediatico e le strategie di isolamento internazionale verso chi devia dalla narrazione dominante. Pratiche che, purtroppo, conosciamo fin troppo bene.