Il recente scontro tra Iran, Israele e Stati Uniti, culminato nella tregua annunciata il 23 giugno 2025, appare più come una pausa tattica imposta dagli eventi che come il frutto di una reale volontà di pace. In apparenza, tutti gli attori in campo possono rivendicare un proprio “successo”: Teheran proclama di aver difeso con fermezza la propria sovranità, mentre Washington e Tel Aviv celebrano attacchi “decisivi” contro le installazioni nucleari iraniane. Ma dietro la patina delle dichiarazioni ufficiali, nessuno ha davvero raggiunto i propri obiettivi strategici.
Del resto, era un esito inevitabile: gli obiettivi reali e durevoli – sicurezza reciproca, stabilità e pace – non possono essere raggiunti con operazioni militari unilaterali, né tantomeno con guerre ibride, sanzioni o colpi di mano diplomatici. La realtà mediorientale ha dimostrato ancora una volta che ogni tentativo di ridisegnare gli equilibri regionali con la forza è destinato a infrangersi contro la complessità dei fattori culturali, politici e religiosi che compongono il mosaico del Medio Oriente.
Al di là delle narrazioni autocelebrative, il quadro strategico resta sostanzialmente invariato: l’Iran non è stato piegato, Israele non ha consolidato una posizione di superiorità duratura, e gli Stati Uniti non hanno conseguito il cambio di regime tanto auspicato nei circoli neoconservatori. L’instabilità è solo sospesa, non superata. E ciò che resta è una frattura latente pronta a riaprirsi, alimentata da un sistema internazionale che sembra aver smarrito la capacità di concepire la pace non come tregua tra due fasi di guerra, ma come un ordine giusto e condiviso.
Oltre il nucleare: Teheran snodo della competizione globale
Il programma atomico iraniano è stato solo un pretesto per una partita geopolitica ben più ampia. Teheran è al centro di due direttrici fondamentali per l’Eurasia: la Belt and Road Initiative cinese e il corridoio Nord-Sud russo. Un’Iran stabile rafforza l’asse Mosca-Pechino, mentre una sua destabilizzazione rappresenterebbe un colpo strategico alle ambizioni multipolari che sfidano il dominio occidentale.
È in questo contesto che si collocano operazioni di guerra ibrida: cyberattacchi, sabotaggi mirati a infrastrutture civili e militari, e tentativi di fomentare il dissenso interno. Alcune analisi indipendenti suggeriscono che si sia cercato di innescare una crisi sociale capace di precedere un eventuale collasso istituzionale.
L’ombra lunga di Washington dietro le operazioni israeliane
L’offensiva israeliana del 13 giugno 2025, rivolta a colpire siti come Fordow, Isfahan e Natanz, non è stata un’azione autonoma. Israele ha agito con il supporto logistico, informativo e politico degli Stati Uniti, in quello che appare ormai evidente come un tentativo coordinato di attacco su più livelli. Il cambio di regime era l’obiettivo dichiarato nei circoli neocon americani da anni.
Le esitazioni iniziali del Pentagono, emerse in alcuni leak, riflettono i timori di un secondo fronte bellico mentre è ancora in corso la crisi ucraina. Ma l’azione congiunta è stata comunque autorizzata, sotto le pressioni dell’ala più aggressiva del Congresso, rappresentata da personaggi come Tom Cotton, sostenitore esplicito della guerra contro l’Iran.
La resilienza iraniana e il contrattacco misurato
Nonostante le perdite, tra cui alcuni alti ufficiali e tecnici nucleari, Teheran ha mostrato una sorprendente capacità di adattamento. Il contrattacco del 22 giugno, con il lancio di missili su una base statunitense in Qatar, è stato deriso pubblicamente da Trump, ma non è passato inosservato nei comandi militari.
Importante il dato che l’IRGC abbia mantenuto il controllo sul materiale arricchito, spostandolo in siti non rivelati. Inoltre, l’Iran ha evitato di attivare in pieno i suoi alleati regionali, come Hezbollah e gli Houthi: una scelta tattica per preservare le forze in vista di uno scontro più ampio.
L’arretramento statunitense e il pressing eurasiatico
Il cessate il fuoco annunciato da Trump il 23 giugno, definito “voluto da entrambe le parti”, sembra in realtà frutto di pressioni esterne, in particolare russe e cinesi. Putin ha incontrato il ministro degli Esteri iraniano lo stesso giorno, ribadendo l’alleanza strategica, mentre Pechino ha denunciato pubblicamente la violazione della sovranità iraniana, pur mantenendo un profilo più diplomatico.
Pochi sanno che la Cina aveva aumentato significativamente le importazioni di petrolio iraniano proprio nelle settimane precedenti l’attacco, un segnale chiaro di sostegno economico nonostante le sanzioni. Un’ulteriore conferma che l’Iran è ormai parte integrante del blocco anti-egemonico che sfida l’unilateralismo occidentale.
Una tregua instabile in attesa del prossimo scontro
La tregua attuale è priva di un accordo strutturale, ed è già minacciata da dichiarazioni bellicose da parte israeliana. Tensioni a Gaza e nel sud del Libano indicano che il prossimo round potrebbe scoppiare presto. Nel frattempo, l’Iran ha rafforzato la propria posizione sia militare che diplomatica, mostrando che il tentativo di destabilizzazione è fallito.
Secondo alcuni osservatori indipendenti, Russia e Cina non solo hanno evitato di farsi coinvolgere, ma ne hanno tratto vantaggio: oggi possono negoziare da una posizione rafforzata, mentre gli Stati Uniti si trovano esposti su più fronti e senza un piano chiaro per il Medio Oriente.
Una lezione ignorata dai media italiani
È davvero sconcertante constatare come la quasi totalità dei commentatori italiani, presenti sui grandi quotidiani e nei principali talk show televisivi, abbia completamente travisato la portata reale degli eventi. Si è parlato di un “colpo decisivo” all’Iran, di un fantomatico “disarmo nucleare” compiuto, persino di un presunto “ritiro del sostegno russo e cinese”. Nulla di tutto ciò si è effettivamente verificato. Eppure, possiamo star certi che alla prossima crisi gli stessi analisti torneranno puntualmente in prima serata a ripetere le medesime narrazioni prefabbricate, senza che nessuno li chiami a rispondere delle loro distorsioni.
A ciò si aggiunge un equivoco ancora più profondo e tossico: l’idea, ormai interiorizzata da molti, che l’Iran sia animato da un desiderio reale e costante di distruggere Israele, e che sia pronto a dotarsi dell’arma atomica per farlo. Questa visione apocalittica, ripetuta ossessivamente dai media, si fonda su un pregiudizio sistematico: quello di considerare la Repubblica Islamica come un regime fanatizzato, antidemocratico e barbarico, il peggiore del Medio Oriente. Ma questa immagine, per quanto diffusa, è frutto di una precisa costruzione politica e mediatica, alimentata per legittimare le politiche aggressive contro Teheran.
Per comprendere l’Iran di oggi, occorre ricordare la sua storia recente, segnata da una lunga catena di interferenze occidentali. Tutto comincia nel 1953, quando un colpo di Stato orchestrato da CIA e MI6 rovescia il governo democraticamente eletto di Mohammad Mossadeq, “colpevole” di aver nazionalizzato il petrolio iraniano, sottraendolo al monopolio britannico. Fu allora reinsediato lo Scià, garante degli interessi occidentali, dando inizio a decenni di autoritarismo, repressione e occidentalizzazione forzata.
Ma c’è di più: nel 1979, fu proprio l’Occidente – in particolare la Francia – a favorire il rientro in patria dell’Ayatollah Khomeini, che aveva trovato rifugio e visibilità nei pressi di Parigi. La Rivoluzione islamica, spesso ridotta a un ritorno medievale, fu invece anche una risposta profonda alle ingerenze straniere e alla sistematica svendita delle risorse nazionali. Non nacque nel vuoto, né fu il frutto di una pura ideologia religiosa.
E c’è un aspetto poco noto ma fondamentale: fu proprio Washington, negli anni Cinquanta e Sessanta, a promuovere attivamente il programma nucleare iraniano, nel quadro dell’iniziativa “Atoms for Peace” lanciata da Eisenhower nel 1953. Gli Stati Uniti aiutarono lo Scià a costruire il primo reattore nucleare a Teheran nel 1967, fornendo uranio arricchito al 93% e tecnici specializzati. L’obiettivo dichiarato era lo sviluppo di energia nucleare a fini civili, e l’Iran prevedeva allora di costruire fino a 23 centrali. Tutto ciò avvenne con il pieno consenso dell’Occidente, finché il controllo geopolitico fu garantito dal regime monarchico. Dunque, è paradossale e ipocrita che oggi si demonizzi ciò che fu inizialmente incoraggiato proprio dagli Stati Uniti.
Quanto al programma attuale, l’Iran ha cominciato ad arricchire uranio oltre il limite del 3,67% (fissato dall’accordo JCPOA) solo dopo il ritiro unilaterale degli Stati Uniti dal trattato nel 2018. Fino a quel momento, aveva rispettato integralmente i vincoli imposti, come confermato dall’AIEA. L’innalzamento dell’arricchimento al 60% è stato giustificato come una misura di pressione negoziale, non come una corsa verso la bomba. E neppure oggi ha superato la soglia del 90% necessaria per fini militari. Né l’AIEA né le agenzie occidentali hanno mai trovato prove concrete di un progetto atomico a scopi bellici.
Anche le frasi spesso citate sulla “distruzione di Israele” andrebbero rilette nel loro contesto. Per quanto cariche di retorica e ostilità, non si traducono in una strategia di annientamento, né tantomeno in un piano nucleare. Le posizioni dell’Iran si inseriscono in una logica di confronto geopolitico e ideologico, non in una guerra di religione o razza.
Infine, ridurre l’Iran a un paese “barbarico” significa ignorarne la profonda ricchezza culturale, il livello di istruzione tra i più alti del Medio Oriente, il dinamismo della sua società civile e la complessità del suo sistema politico, che – pur con limiti evidenti – prevede elezioni, confronto parlamentare, pluralismo interno tra conservatori e riformisti, e un dibattito pubblico vivace.
In conclusione, la caricatura di un Iran irrazionale e aggressivo serve solo a giustificare un’aggressione permanente, condotta attraverso sanzioni, sabotaggi, omicidi mirati e campagne di disinformazione. Ma chi ha davvero a cuore la pace e la stabilità regionale dovrebbe partire dalla verità storica, riconoscere le responsabilità occidentali e respingere le narrazioni tossiche che vengono puntualmente rilanciate senza vergogna a ogni nuova crisi.
Conclusione – La pace non nasce dal calcolo
Alla fine, questa crisi ci ricorda che nessuna strategia, per quanto sofisticata, può dominare completamente la realtà. Né il potere militare né le manovre diplomatiche riescono a contenere l’irriducibilità della persona umana e dei popoli alla logica della forza. L’Iran, in questo caso, non ha vinto militarmente, ma ha resistito. E questa resistenza racconta che la pace non è l’assenza di guerra, ma la presenza di un significato per cui vale la pena affrontare ogni sfida. Un significato che non nasce dalla propaganda o dalla potenza, ma da una coscienza viva del proprio destino.