Fine vita e falsa pietà: perché oggi una legge così è pericolosa

Un vuoto normativo da colmare!?…

Nel 2019, con la sentenza n. 242, la Corte Costituzionale italiana stabiliva che non è punibile chi agevola l’intento suicidario di una persona maggiorenne, consapevole, affetta da una patologia irreversibile, con sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, e tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale. La Corte, pur riaffermando il valore del diritto alla vita, invitava il Parlamento a intervenire per disciplinare la materia, al fine di evitare un vuoto normativo e garantire un bilanciamento tra autodeterminazione e tutela della persona.

Cinque anni dopo, il legislatore ha raccolto quella sollecitazione presentando il disegno di legge “Disposizioni esecutive della sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019”, comunemente definito come legge sul suicidio assistito.

Si tratta di un testo snello, composto da quattro articoli, che definisce con precisione le condizioni e le garanzie per la non punibilità dell’atto, ribadendo – almeno formalmente – la centralità del diritto alla vita come diritto indisponibile, fondamento di ogni altro diritto.

La proposta prevede:

  • che la persona debba essere maggiorenne, pienamente lucida, sofferente per malattia irreversibile e dipendente da trattamenti salvavita;

  • che la volontà debba essere espressa in modo libero e consapevole;

  • che la valutazione sia affidata a un Comitato Nazionale, il cui parere è vincolante ma sottoposto a verifica dell’autorità giudiziaria.

Infine, si auspica lo sviluppo e il potenziamento delle cure palliative in tutte le regioni, riconoscendone l’insufficienza attuale.


Un’intenzione dichiarata: creare un contesto più umano

Nella forma, la legge tenta di rispondere a una domanda reale: come accompagnare nel modo più dignitoso e consapevole chi è arrivato alla fine del proprio cammino terreno, senza cadere nella logica dell’abbandono o, peggio, della sollecitazione alla morte?

L’intenzione dichiarata è quella di promuovere un contesto più umano, dove il diritto all’autodeterminazione sia protetto ma anche incardinato nel rispetto della vita. E su questo punto, l’articolo di Massimo Molteni (4 luglio 2025) cerca di leggere in profondità l’equilibrio, la coerenza e anche le contraddizioni implicite nel testo legislativo.

Tuttavia, man mano che si scende dalla lettera della legge alla realtà concreta, appare sempre più evidente una frattura: viviamo davvero in un tempo in cui una simile legge può essere recepita come espressione di umanità?


Un contesto che smentisce le buone intenzioni

È lecito domandarselo. Perché mentre si dichiara di voler creare condizioni più umane per il fine vita, non si è ancora messo mano alle profonde distorsioni che oggi caratterizzano il nostro sistema sanitario e sociale.

Ospedali spersonalizzanti, malati ignorati

Negli ospedali italiani si osserva una tendenza crescente alla tecnicizzazione della cura. Si trattano i sintomi, si applicano i protocolli, si inseguono prestazioni. Ma il malato non è più il centro. In particolare, gli anziani vengono spesso infantilizzati, trattati in modo impersonale, gestiti da personale sanitario che non considera la delicatezza delle relazioni umane: nessuna differenza di genere nell’assistenza intima, nessuna attenzione al lato psicologico.

La figura del malato è ridotta a “utente”, la sofferenza a “dato clinico”, e la morte a “esito prevedibile”.

Post-Covid: il trauma non elaborato

Il periodo del Covid è stato emblematico. In nome dell’emergenza, si è sospesa ogni forma di relazione: anziani soli nelle RSA, decessi senza accompagnamento, cure negate o imposte per decreto, scelte drastiche mascherate da bene comune. Eppure, nessuna legge ha mai cercato di comprendere e correggere quelle aberrazioni.

È lecito chiedersi: una società che non ha fatto i conti con quanto è accaduto allora, è oggi credibile quando afferma di voler proteggere i più fragili nel momento del loro ultimo passaggio?


Il vero problema non è l’assenza di una legge, ma la perdita di un ethos

L’equivoco è profondo: si pensa che una legge possa restituire umanità a una realtà che ha smarrito il significato della vita. Ma il rispetto per la persona non si impone per decreto, si coltiva. E oggi, in un mondo dominato dal profitto, dalla solitudine sociale, dalla perdita di senso e dalla marginalizzazione degli ultimi, quel rispetto non è più vissuto né trasmesso.

Non si tratta di un’opposizione ideologica alla regolamentazione del fine vita, ma di una constatazione: non è questo il tempo per una legge del genere. O, meglio, non può essere questa la legge, perché nasce in un terreno malato, su un fondamento che non esiste più.


Conclusione: tra pietà apparente e umanità reale

È davvero singolare che proprio in un’epoca così segnata dalla disumanizzazione, dal culto dell’efficienza, dall’abbandono educativo e da un vuoto di senso che divora ogni legame sociale, emerga la pretesa di legiferare in nome della pietà. Come se, nel momento in cui la società manifesta le più radicali derive antropologiche, fosse improvvisamente necessario mostrare compassione per chi soffre. In realtà, questa “pietà” rischia di essere un involucro retorico, che maschera la volontà di dominare la vita sotto le spoglie della libertà e della commiserazione.

Non può venire nulla di buono, oggi, da una legge che disciplini l’eutanasia. Non lo si è fatto quando la vita umana era naturalmente rispettata, quando l’educazione trasmetteva significati vissuti e condivisi, quando la Fede forniva senso e orizzonte. Oggi, in un tempo in cui i concetti stessi di verità, di dono, di limite e di comunità sono corrosi, affrontare il tema del fine vita è una scelta pericolosa – o ingenua, o ipocrita.

La verità è che prima di legiferare sul fine vita, bisognerebbe fare una legge che aiuti a comprendere davvero ciò che è stato il periodo del COVID: un’esperienza collettiva che ha trasformato in modo profondo il rapporto tra Stato, medicina e persona. Se non si supera criticamente quella stagione, ogni legge sul fine vita rischia di esserne figlia, replicandone i presupposti, normalizzandone la logica di emergenza permanente, di controllo, di selezione “utile” della vita.

Ciò di cui abbiamo veramente bisogno è una rivoluzione dello sguardo sul malato, ispirata non dai modelli statistici, ma da figure come San Camillo de Lellis, che vedeva nei corpi feriti di chi soffre il volto di Cristo. Serve un approccio nuovo alla cura, radicato nella gratuità, nel servizio, nella dignità incondizionata della persona.

In un tempo che ha smarrito la bussola, solo il ritorno alla realtà viva della relazione umana potrà salvare la medicina dalla sua deriva tecnocratica. E solo da lì si potrà – forse – cominciare a parlare, senza paura, del senso della morte. Ma anche, e soprattutto, del senso della vita.

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